La storia dell\'intreccio politica faccendieri
La storia dell\'intreccio politica faccendieri

Inchiesta Bnl. Indagati anche gli alleati di Unipol

Giovedì 28 Giugno 2007 01:00 Sole 24 ore
Stampa PDF
28.06.2007 - Sole 24 Ore

Inchiesta Bnl. Il Vertice Milano-Roma
Indagati anche gli alleati di Unipol

di Raffaella Calandra e Laura Serafini


C’è una lista di almeno una decina di nuovi indagati che la Procura di Roma ha iscritto nell’ambito dell’inchiesta sulla scalata a Bnl. Sono esponenti di cooperative, banche italiane e estere e imprese che il 18 luglio 2005 stipularono accordi parasociali con la Unipol di Giovanni Consorte per rilevare il 27% di Bnl in mano al contropatto guidato da Francesco Gaetano Caltagirone e, una volta raggiunto il controllo di oltre il 40% della banca romana, lanciare un’Opa obbligatoria. Tra questi ci sono esponenti di Deutsche Bank Ag di Londra, Credit Suisse First Boston, Nomura International plc. E ancora: rappresentanti di Banca Carige, la Hopa di Emilio Gnutti, quattro società cooperative, Banca Popolare di Vicenza, Bpi, della Società di Servizi Autostradali di Marcellino Gavio e Alvaro Pancotto. L’ipotesi di reato fa perno sull’aggiotaggio (si veda l’inchiesta del Sole 24 ore pubblicata in due puntate, ieri e il 26 giugno). Nel mirino ci sarebbero le modalità di compravendita (e i relativi contratti) dei pacchetti Bnl fino ad allora in mano al contropatto, i cui esponenti, assieme a quelli di Bpi, Unipol, Finnat e Bper sono già stati iscritti nei giorni scorsi per un patto non dichiarato emerso in occasione dell’assemblea del 21 maggio 2005.
Quella compravendita del 18 luglio è forse l’episodio sul quale maggiori sono le sovrapposizioni delle indagini tra le due procure di Roma e Milano: ieri i magistrati romani Giuseppe Cascini e Rodolfo Sabelli hanno incontrato i colleghi meneghini, Francesco Greco, Eugenio Fusco, Giulia Perrotti e Luigi Orsi, per decidere un coordinamento delle indagini. La riunione sarebbe stata interlocutoria, con ipotesi che si possa procedere allo scambio degli atti, tra cui anche le intercettazioni disposte dalla Procura di Milano che ha concentrato le indagini tra il febbraio e luglio 2005. Roma è partita invece dall’estate 2004, quando è stato costituito il contropatto, e a seguito sino al luglio 2005 e oltre i movimenti dei titoli Bnl. Per ora le indagini proseguiranno su due diversi binari.
Nel frattempo altri fondi potrebbero andare a rimpinguare le casse della Magiste. I legali di Stefano Ricucci hanno chiesto alla Procura di Milano il dissequestro dei circa 4 milioni della Bpl Suisse, costola elvetica della banca di Giampiero Fiorani, bloccati nell’ambito dell’inchiesta Antonveneta. Attesa la conclusione del vertice tra le due procure, il curatore fallimentare Domenico Fazzalari e l’avvocato Piermaria Corso hanno ufficializzato ieri sera la loro richiesta al pm, Eugenio Fusco. E ora aspettano le valutazioni dei magistrati, “fiduciosi”, commenta Fazzalari, che spiega: “Si tratta per la quasi totalità (3,7 milioni) di warrant Bpi e per il resto un residuo della vendita di titoli Antonveneta”. Al più presto, invece, il custode giudiziario, Emanuele Rimini, disporrà l’esecuzione del dissequestro dei 21 milioni, più gli interessi di 9 mesi, accordato dalla Procura di Milano. In realtà, superate delle “difficoltà pratiche”, Rimini dovrà solo trasferirli su un conto nella disponibilità della Procura di Roma, che anch’essa, a sua volta, aveva emesso un provvedimento per bloccare quella cifra.
 

Bnl, così Unipol nascose i piani per l'Opa

Mercoledì 27 Giugno 2007 01:00 Sole 24 ore
Stampa PDF
27.06.2007 – Sole 24 Ore

Bnl, così Unipol nascose i piani per l'Opa


di Vincenzo Chierchia e Giuseppe Oddo


Il 20 giugno 2005 comincia il periodo di adesione all'Offerta pubblica di scambio lanciata dal Banco di Bilbao Vizcaya Argentaria (Bbva), che è stato autorizzato da Banca d'Italia il 13 maggio a raggiungere la maggioranza di Bnl. L'Ops si concluderà il 20 luglio. A partire da questa data, il presidente e amministratore delegato di Unipol, Giovanni Consorte, ha davanti a sé 30 giorni per lavorare ai fianchi la banca spagnola e sferrare l'attacco a Bnl con un'Opa obbligatoria a cui lavora dalla primavera. Nel frattempo, il 27 maggio, la Vigilanza ha dato l'ok a Unipol ad aumentare al 9,99% la quota in Bnl. Quindi abbiamo da un lato gli spagnoli che propongono al mercato uno scambio di titoli (5 azioni Bnl in cambio di ogni azione Bbva) e dall'altro l'impresa assicurativa di Legacoop che detiene una robusta partecipazione in Bnl (il 6,78% di proprietà e il 3,21% attraverso opzioni d'acquisto) e che, probabilmente, ha già in tasca un accordo di massima con gli azionisti del contropatto, ai quali fa capo il 27,5% di Bnl. L'autorizzazione a salire al 9,99% di Bnl ha messo Consorte in una posizione di forza, consentendo a Unipol, una compagnia di assicurazioni che possiede già la maggioranza di un istituto di credito (Unipol Banca), di raccogliere sul mercato il consenso necessario per diventare soggetto aggregante nella prospettiva della conquista di Bnl.
Consorte, però, ha un problema: deve attuare il piano facendo i conti con le risorse che Unipol è in grado di mobilitare, evitando di imbarcarsi in un uno scontro diretto con il Bbva, che farebbe lievitare i già onerosi costi dell'Opa. C'era infatti chi metteva in discussione l'adeguatezza dei requisiti patrimoniali della compagnia bolognese (i cosiddetti ratios), necessari per affrontare la scalata e digerire una preda come Bnl. E proprio sulla questione dei requisiti patrimoniali andrà a sbattere, nei primi del 2006, il progetto di Consorte.

La trattativa contestata
La sera del 16 giugno i rappresentanti di Bbva e Unipol s'incontrano una prima volta a cena, nella capitale, in un ristorante di Via Veneto poco distante dal quartier generale di Bnl. I commensali sono, per Unipol, Consorte e il suo vice, Ivano Sacchetti, e per il Bbva, Gonzalo Torano e Manuel Gonzalez Cid, nell'ordine direttore della espansione corporativa e direttore finanziario del Bilbao. Unipol appariva preoccupata per gli accordi bancari-assicurativi collegati alla gestione di Bnl Vita, la società a partecipazione paritaria per la vendita di prodotti assicurativi agli sportelli. Consorte chiedeva - si legge nell'esposto presentato alla magistratura dai responsabili del Bbva - «qualcosa di scritto secondo i termini di un testo che avrebbero fatto pervenire a breve».
Un secondo incontro tra Unipol e Bnl avviene il 20 giugno presso la sede milanese dello studio legale Ughi e Nunziante, che assiste gli spagnoli. Lì Unipol presenta la bozza di un «protocollo d'intesa». Ma gli spagnoli obiettano che, essendo in corso un'offerta pubblica, tutti gli azionisti di Bnl hanno diritto a parità trattamento. Il Bbva in altre parole sosteneva di non poter riconoscere particolari vantaggi a Unipol, nella gestione di Bnl Vita, per il solo fatto che Unipol aveva aumentato al 9,99% la partecipazione in Bnl. Viene pertanto redatta una seconda bozza d'intesa, da cui vengono cassate le clausole che contraddicevano il principio del pari trattamento tra azionisti. Condizione degli spagnoli - si legge ancora nell'esposto - è che l'accordo fosse «sottoposto alla conoscenza e all'approvazione di Consob».
Nel corso del terzo incontro, che si svolge il 28 giugno, ancora a Milano, presso Ughi e Nunziante, Unipol abbandona i toni concilianti delle volte precedenti e passa all'attacco. Particolare importante: alla riunione, in rappresentanza del vertice Unipol, è andato solo Sacchetti; Consorte s'è sfilato dalla trattativa. Ed è Sacchetti a mettere gli spagnoli con le spalle al muro: «O facciamo un accordo di nostro gradimento - avrebbe detto ai vertici del Bilbao - oppure lanceremo un'Opa su Bnl, per acquisirne il controllo».
È qui che si consuma la rottura tra i due gruppi. Sacchetti, infatti, abbandonò la riunione in modo «visibilmente irritato» alla richiesta che l'eventuale accordo fosse condizionato al raggiungimento, da parte degli spagnoli, del controllo di diritto di Bnl (il 50% più un'azione).
Ciononostante, un ultimo incontro si svolge il 30 giugno, presso la sede romana di Ughi e Nunziante: incontro a cui partecipano solo i rappresentati legali dei due gruppi. Durante la riunione avviene l'ultimo tentativo di individuare un punto comune d'intesa. Gli spagnoli sembra abbiano ammorbidito le posizioni della volta precedente, e tra le 20,30 e le 21 di quel giorno viene redatta un'ulteriore bozza di accordo «da sottoporre - si legge nel citato esposto - alle considerazioni dei clienti e quindi alla Consob». Ma Unipol sta già pensando ad altro. Anzi, è già partita all'attacco di Bnl, se è vero che, nella mattinata del 30 giugno, Consorte è andato in Banca d'Italia a incontrare il governatore, Antonio Fazio, e il responsabile della Vigilanza, Francesco Frasca. Ad essi ha chiesto il benestare per crescere ulteriormente in Bnl, fino al 14,99%, nella prospettiva sempre più concreta di un'Opa obbligatoria.
Fazio chiede se Unipol abbia il denaro per un'operazione così impegnativa, e Consorte lo rassicura dicendogli di avere dalla sua parte alcune delle principali cooperative azioniste di Unipol e un gruppo di banche tra cui la Popolare Italiana di Gianpiero Fiorani e la Carige (Cassa di Risparmio di Genova e Imperia) di Giovanni Berneschi. Consorte accenna, inoltre, a Fazio della possibile intesa con il contropatto, presieduto da Francesco Gaetano Caltagirone.Il governatore appare soddisfatto, tant'è che Consorte annuncia subito dopo al mercato, intorno alle 22 dello stesso giorno, la richiesta avanzata a Banca d'Italia di salire al 14,99% in Bnl.
A partire dal 30 giugno, dunque, Unipol non ebbe più alcun reale interesse per l'intesa con il Bbva su Bnl Vita. Sostengono i responsabili del Bilbao che quello era stato «un tentativo solo strumentale» di Consorte, «nell'insussistenza di un effettivo pericolo per Unipol di perdere Bnl Vita e solo artatamente inteso a guadagnare del tempo». Gli spagnoli erano in sostanza convinti che Consorte stesse solo temporeggiando, che cioè non avesse nessuna intenzione di negoziare, ma che cercasse di prender tempo fino al 30 giugno - termine ultimo per il lancio di una contro-Opa - per evitare di imbarcarsi in una contromossa che avrebbe portato benefici agli investitori di Borsa, ma che avrebbe finito per svenare Unipol, costringendola a misurarsi con i suoi limitati mezzi finanziari.
Insomma, secondo il Bbva, Consorte avrebbe fatto di tutto per far ricadere sugli spagnoli la colpa della rottura delle trattative per Bnl Vita, dribblando così la possibilità di un'Opa concorrente che avrebbe potuto innescare un gioco al rialzo, anche da parte del Bilbao, a tutto vantaggio del mercato, ma a discapito delle casse di Unipol. È per questo che Consorte cerca di stringere preliminarmente accordi con il contropatto, che possiede il 27,5% di Bnl e che, al pari di Generali, a sua volta azionista con l'8,7%, a un'operazione di scambio preferiva un'offerta in contanti. È per questo che Consorte fa rastrellare il titolo in Borsa, senza darlo a intendere. È per questo che cerca accordi con banche amiche gli organizzino i portage. Ed è per questo che, prima di annunciare l'Opa, vuol esser certo di avere in mano la maggioranza assoluta di Bnl: perché così può tenere sotto controllo i costi dell'operazione.
È tuttavia sorprendente la rappresentazione dello stato delle trattative che Consorte trasferirà per telefono al segretario dei Ds, Piero Fassino, il 5 luglio. «Noi sostanzialmente con gli spagnoli un accordo l'abbiamo raggiunto», dice Consorte a Fassino. E aggiunge: «Loro ci danno il controllo di Bnl Vita». Invece, come abbiamo visto, le cose stavano in tutt'altro modo. I colloqui s'erano interrotti.
Gonzalo Torano sostiene addirittura che Unipol non avesse capitali sufficienti per pagare le azioni, e racconta un episodio dell'agosto 2005, quando l'offerta di Unipol era già pubblica e le pagine dei giornali erano piene delle intercettazioni dei "furbetti del quartierino". Nonostante i rapporti tra Unipol e Bbva fossero cessati da settimane, un giorno di agosto Torano, mentre era in vacanza su un'isola del Mediterraneo, fu raggiunto con un volo privato da Sacchetti, il quale s'era precipitato fin lì per chiedergli se il Bbva potesse rimanere azionista di Bnl, accanto a Unipol. Secondo il manager spagnolo, ciò proverebbe che Unipol non aveva i mezzi per rilevare la quota del Bilbao.

Ripartono i rastrellamenti
A fine giugno erano intanto ricominciati i rastrellamenti in Borsa. Il 28 la Popolare di Vicenza, con Euromobiliare come intermediario, aveva acquistato ai "blocchi" lo 0,5% di Bnl, rilevando i titoli da Compania Financiera Sa, Mps Ducato Geo Italia e Glg Partners Lp. Le transazioni erano avvenute a 2,765 euro per azione, contro una quotazione di Borsa di 2,747 euro. Una "gola profonda" che sta svelando i retroscena delle manovre di quei giorni ha raccontato, al pm di Milano Luigi Orsi, che era stato il direttore generale di Unipol, Carlo Cimbri, a indicare la Popolare vicentina quale destinatario dei titoli Bnl. Lo stesso Cimbri - dice "gola profonda" - avrebbe ordinato a Euromobiliare, il 29 giugno, l'acquisto da Glg Partners di un altro pacchetto di Bnl (lo 0,15%), anch'esso destinato alla Popolare di Vicenza.
Il giorno 30 entra in campo anche la filiale londinese di Deutsche Bank, la stessa che aveva concesso a Stefano Ricucci un finanziamento di 900 milioni di euro (denaro che egli utilizzerà per meno di un terzo) per tentare, in quegli stessi mesi, la scalata al «Corriere della sera». A indicare come parte acquirente dei titoli l'istituto tedesco sarebbe stato il solito Cimbri. Per un motivo semplice: Unipol, in quel momento, aveva ufficialmente poco meno del 10% di Bnl e non era stata ancora autorizzata da Banca d'Italia a salire al 14,99 per cento. Quindi, qualsiasi sforamento di questa soglia sarebbe avvenuto in violazione delle norme di Vigilanza.
Stando al memoriale di Consorte, la trattativa con il contropatto sarebbe partita il primo luglio, anche se in realtà i contatti, sia pure mediati dagli amici come Fiorani, datano molti mesi prima. Consorte scrive che Caltagirone avrebbe proposto, in un primo momento, un'alleanza con Unipol attraverso una cessione solo parziale delle azioni del contropatto. In cambio l'editore del «Messaggero» avrebbe chiesto, secondo Consorte, la presidenza di Bnl per tre mandati: presidenza su cui vi sarebbe stato il gradimento di Fazio e di Gianni Letta, all'epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo Berlusconi. I vertici di Unipol lasciano però cadere la proposta, e tra il 4 e il 5 luglio il contropatto s'impegna a cedere le quote.
Da circa una settimana la Procura di Milano ha cominciato a intercettare i protagonisti della scalata all'Antonveneta: Gianpiero Fiorani e Gianfranco Boni di Banca Popolare Italiana, Emilio Gnutti, Stefano Ricucci e gli stessi Consorte e Sacchetti, che d'intesa con Fiorani avevano a loro volta rilevato, tramite Unipol, una quota di Antonveneta. I magistrati di Milano ascoltano quindi in diretta il dispiegarsi dei contatti dell'ex capo di Unipol.
Il 7 luglio gli inquirenti intercettano Consorte che conversa al telefono con Massimo D'Alema, presidente dei Ds, nonché attuale ministro degli Esteri. «Facci sognare!» dice D'Alema al numero uno di Unipol, spronandolo a chiudere l'operazione.
La giornata chiave è quella del 12 luglio. I "bolognesi" hanno già tessuto la tela degli accordi e si preparano ad uscire allo scoperto per annunciare il superamento della soglia dell'Opa obbligatoria (il 30%). Consorte sente già la vittoria in tasca: sta per siglare l'accordo con i "contropattisti", il cui 27,5% sarà rilevato a 2,70 euro per azione da Credit Suisse, Deutsche Bank e dalla giapponese Nomura con un accordo di riacquisto da parte di Unipol, e lo comunica al responsabile della Vigilanza. Sulla carta il 51,6% di Bnl dovrebbe essere già al sicuro tra Unipol e i suoi alleati. Consorte ricorda, nella sua memoria, un particolare curioso: i membri del contropatto pretesero da Unipol il pagamento delle azioni nel momento stesso della cessione. Una prassi non abituale.

Accordi allo scoperto
Unipol comunica solo il 17 luglio di avere in corso trattative che potrebbero sfociare in un'Opa, e nella stessa giornata concorda con la Consob , presieduta da Lamberto Cardia, il comunicato da diffondere in Borsa il giorno seguente. Il 18 Unipol rileva finalmente le azioni del contropatto e scopre gli accordi intercorsi tra la compagnia ed i suoi soci-alleati. Consob censurerà quelli con Deutsche Bank di Londra. Consorte sente al telefono Fassino, che attende di conoscere l'esito delle operazioni. «E allora siamo padroni di una banca?», gli chiede il segretario dei Ds. «Sì, si è fatta», gli risponde Consorte. Nello stesso tempo Unipol informa il mercato che l'Opa potrà iniziare a settembre. Ma in realtà non sarà mai lanciata.
Consorte aveva come obiettivo il raggiungimento del 51,6% di Bnl, per poi lanciare l'Opa una volta raggiunta la maggioranza assoluta della banca. Ma si fermerà al 46,63 per cento. Sara la Bper di Guido Leoni a negargli il diritto di opzione sul 4% di Bnl rastrellato dalla banca dell'Emila Romagna.
La pietra tombale sull'Opa calerà il 10 gennaio 2006, quando, usciti di scena Fazio, Consorte e i "furbetti del quartierino", Banca d'Italia comunicherà, in modo lapidario: «Non ricorrono le condizioni prescritte dalla normativa per il rilascio al gruppo Unipol dell'autorizzazione ad acquisire il controllo della Bnl». Il conglomerato finanziario che sarebbe dovuto scaturire dalla fusione Unipol-Bnl mancava, a giudizio degli organi di vigilanza, dei «requisiti prudenziali di adeguatezza patrimoniale». Seconda e ultima puntata.

I PROTAGONISTI
Gonzalo Torano
Gonzalo Torano è il direttore Espansione corporativa del Banco di Bilbao. Il manager è stato in prima fila nelle trattative fallite con Unipol avvenute nella seconda metà di giugno del 2005. La compagnia bolognese, dopo il lancio dell'offerta di scambio su Bnl da parte del Bbva, cercò di difendere i suoi interessi in Bnl Vita. Ma, secondo Torano, le trattative furono solo una tattica dilatoria
Francesco Frasca Francesco Frasca, ex responsabile della Vigilanza creditizia di Bankitalia, nel 2005 è stato uno degli uomini più vicini all'ex governatore Antonio Fazio. Frasca partecipò alle prime riunioni tra banchieri, promosse da Fazio a partire da fine febbraio, per organizzare un fronte anti-Bbva in Bnl. Il numero uno di Unipol, Gianni Consorte, incontrò Frasca numerose volte aggiornandolo suoi sui progetti
Carlo Cimbri Carlo Cimbri è il direttore generale del gruppo assicurativo Unipol. Secondo le informazioni in possesso dei magistrati, fornite da una «gola profonda» del mondo finanziario, sarebbe stato Cimbri a organizzare, per lo più d'intesa con Euromobiliare e Bpi, i rastrellamenti di azioni e i portage a favore di Unipol per raccogliere la maggior quota possibile del capitale di Bnl prima del lancio dell'Opa
Lamberto Cardia Lamberto Cardia presiede la Consob , l'autorità di controllo per le società e la Borsa. A maggio 2005 il Bbva presentò a Consob l'esposto in cui denunciava l'intesa tra Unipol, Bper, Bpi e Carige in funzione anti-Ops. Consob chiederà più volte informazioni a Unipol sui piani relativi a Bnl e censurerà gli accordi tra la compagnia assicurativa e la Deutsche Bank di Londra
Massimo D'Alema Massimo D'Alema, presidente dei Ds e ministro degli Esteri, aveva avuto continui rapporti con Corsorte nel corso della scalata di Unipol a Bnl. Nelle conversazioni intercettate dai magistrati nel 2005, D'Alema incoraggia Consorte ad andare avanti nel suo ambizioso progetto, probabilmente ritenuto vantaggioso anche sul piano politico
 

Unipol giocò su tre tavoli la scalata a Bnl

Martedì 26 Giugno 2007 01:00 Sole 24 ore
Stampa PDF

26.06.2007 - Sole 24 ore

Unipol giocò su tre tavoli la scalata a Bnl

di Vincenzo Chierchia e Giuseppe Oddo


Quando scatta la scalata di Unipol a Bnl? Che percorso segue Giovanni Consorte, presidente e amministratore delegato del gruppo della Legacoop, per lanciare l'Opa sulla banca romana governata da un patto di sindacato tra gli spagnoli del Bbva, Generali e Dorint? Chi sostiene Consorte, in questo percorso? E che parte avranno, nella fallita scalata, gli immobiliaristi del contropatto guidati dal cementiere- editore Francesco Gaetano Caltagirone, che si opponevano al patto ufficiale con una quota complessiva del 27,5% di Bnl? Da documenti, in parte inediti, che «Il Sole- 24 Ore» ha potuto consultare, emergono nuove chiavi di lettura dei fatti; su cui indagano, parallelamente, la Procura di Milano e quella di Roma.
Le ipotesi di reato al vaglio dei magistrati sono varie: dall'insider trading, che si consuma nel momento stesso in cui il manager trasmette un'informazione privilegiata a persone con cui non intrattiene relazioni di lavoro, all'aggiotaggio informativo e manipolativo, cioè a comportamenti finalizzati alla manipolazione diretta e indiretta dei corsi azionari.
I primi indizi di un interessamento di Unipol verso Bnl risalgono all'incontro svoltosi, tra la fine del 2004 e i primi del 2005, in Banca d'Italia tra il governatore Antonio Fazio,il segretario dei Ds Piero Fassino e il futuro ministro dello Sviluppo economico, Pierluigi Bersani. Nell'incontro con i leader della Quercia, di cui Fazio riferirà ai magistrati nel corso dell'inchiesta su Antonveneta, il Governatore avrebbe delineato i possibili scenari del mondo bancario che prevedevano intese tra Unipol, Bnl e Monte dei Paschi di Siena (Mps).Peraltro Unipol,che già aveva l'1,97% dell'istituto di Via Veneto, possedeva anche il 50% di Bnl Vita, la società mista per la distribuzione di polizze agli sportelli, e cercava di rilevare da anni, senza risultati, l'8,7% di Bnl detenuto da Generali.
Le confessioni ai magistrati
È tra marzo e aprile 2005 che Unipol avrebbe maturata la decisione di un'Opa su Bnl.A raccontarlo ai Pm di Milano che indagano su Antonveneta (Francesco Greco, Eugenio Fusco e Giulia Perrotti) è Gianfranco Boni, ex braccio destro di Gianpiero Fiorani in Banca Popolare Italiana (Bpi). Fiorani era stato infatti incaricato da Fazio di contrastare, tramite Bpi, l'avanzata degli spagnoli,per difendere l'" italianità" di Bnl.
«Già ad aprile —riferisce Boni ai magistrati — si cominciò a parlare con quelli di Unipol di un loro interessamento a Bnl, ma ritengo che il via libera di Fazio a Unipol sia intervenuto tra la fine di aprile e la prima quindicina di maggio 2005», dopo cioè che il Bilbao aveva annunciato il lancio di un'Offerta pubblica di scambio su Bnl (una Ops) . «Preciso che ero a conoscenza — aggiunge Boni — dell'interesse di Consorte e Sacchetti a giocare il ruolo di banca aggregante in Bnl e che tale mia conoscenza effettivamente risale a fine di marzo primi di aprile ».
Intanto è già entrato il 2005, e il 28 gennaio il consiglio di Via Stalingrado, a Bologna, dove ha sede il quartier generale di Unipol, incarica Consorte e il suo vice, Ivano Sacchetti, di sondare Banca d'Italia circa l'intenzione della compagnia di aumentare al 9,99% la partecipazione in Bnl. Il 3 febbraio, dunque, i due manager si recano a Palazzo Koch per incontrare Francesco Frasca, in quel momento responsabile della Vigilanza sugli enti creditizi, anche se Unipol farà formale richiesta per salire al 9,99% solo l'11 maggio e otterrà il via libera di Fazio il 27.
Il 21 aprile 2005 — stando alla memoria inviata ai magistrati dall'ex numero uno di Unipol — Consorte e Sacchetti illustrano a Frasca il progetto, che gli consegneranno di persona il 29, secondo cui Unipol sarebbe dovuta diventare azionista di riferimento di Bnl con il 33-35% del capitale. Essa avrebbe potuto acquisire questa quota sia dai soci del contropatto ( Caltagirone,Vito Bonsignore,Danilo Coppola, Stefano Ricucci, Giuseppe Statuto e i fratelli Lonati) sia da Mps, Bpi, Carige e Bper (Banca Popolare dell'Emilia Romagna). In alternativa, Consorte avrebbe potuto fondere Unipol Banca con Bnl attraverso un aumento di capitale che gli avrebbe permesso di salire al 33%dell'istituto romano senza obbligo di Opa. Oppure avrebbe rinunciato del tutto ad essere azionista di riferimento di Bnl, per rilevare e fondere in Unipol il 100% di Bnl Vita e mettere così al sicuro un canale di vendita stimato in 2,5 miliardi di euro di premi assicurativi. Ma come poteva Consorte — si chiedono oggi i magistrati — prospettare già in aprile,a Bankitalia,un progetto che prevedeva l'acquisizione del controllo di Bnl senza essersi prima garantito le quote del contropatto e delle banche amiche?
La domanda è più che legittima perché, nel frattempo, s'erano susseguiti eventi decisivi per il futuro della banca. Il 12 marzo gli spagnoli, che avevano la maggioranza relativa di Bnl, avevano comunicato al Governatore la possibilità di un'Ops che formalizzeranno a Bankitalia sei giorni dopo. Un Fazio allarmato aveva chiamato a raccolta i fedelissimi come Fiorani, affidando loro il compito di sbarrare la strada agli spagnoli. A tale scopo, il 19 marzo, fallito il tentativo del Banco Popolare di Verona e Novara di assumere il controllo di Bnl, erano state convocate una serie di riunioni tra le abitazioni di Fazio e Caltagirone, con Fiorani nel ruolo di ufficiale di collegamento, per sondare la disponibilità del contropatto a svolgere un ruolo strategico in Bnl, evitando che gli immobiliaristi aderissero all'offerta del Bbva.
Riferirà Fiorani ai magistrati che, per decretare l'insuccesso del Bbva, sarebbe stata determinante sia l'apporto del contropatto sia quello di Unipol. Il contropatto, infatti, non avrebbe mai potuto assumere il controllo di Bnl in base alla norma che impediva a un'impresa industriale di possedere più del 15% di una banca. Il ruolo di Unipol si preannunciava pertanto decisivo.
Inoltre, il 30 aprile 2005, era sfumata l'assemblea degli azionisti di Bnl per l'assenza del contropatto e di Banca Finnat, Banca Intermobiliare (Bim), Bpi e Unipol, segno d'una prima convergenza tra questi soggetti, la cui saldatura avverrà poi in luglio con gli accordi che consentiranno a Consorte di annunciare l'Opa obbligatoria. «Noi in una prima fase — spiegherà Fiorani ai magistrati— siamo stati come una ruota di scorta del contropatto. Eravamo d'accordo per adeguare le nostre mosse in Bnl alle decisioni del contropatto. Per questo non partecipammo all'assemblea dell'aprile 2005, avendo appreso dall'avvocato Gianni (Francesco Gianni,consulente legale di Caltagirone) che il contropatto non avrebbe partecipato ».
Partono le operazioni a Piazza Affari
Si arriva così al maggio 2005, quando Bankitalia dà il via libera a Unipol per crescere nell'azionariato di Bnl.Dice Boni ai Pm:«Già dai primi di maggio, secondo i miei ricordi, inizia l'operatività di Unipol su Bnl con rastrellamenti sul mercato ».Cosa significa questo? Che, se la circostanza sarà confermata dalle indagini, Consorte avrebbe di fatto avviato la scalata ancor prima dell'Offerta degli spagnoli (che sarà lanciata il 20 giugno) e contestualmente alla richiesta alla Vigilanza di salire dall'1,97%al 9,99%di Bnl.
Consorte, invece, dell'incontro con Frasca dice, nella sua memoria, che si limitò ad illustrargli il citato progetto strategico che prevedeva, tra l'altro, la fusione tra Unipol Banca e Bnl; e che Unipol, in quel momento, non aveva alcuna intenzione di procedere a una vera Opa su Bnl.
Della possibilità del lancio di un'Opa, Consorte riferisce, invece, il 13 maggio 2005 a Pier-luigi Stefanini e Vanes Galanti, rispettivamente presidente e vicepresidente di Holmo, la holding delle cooperative "rosse" che, tramite Finsoe, controlla Unipol. E il 20 maggio presenta a Holmo e Finsoe il progetto denominato " Opa su Bnl".Nel documento vengono indicate tre possibilità: 1) Unipol aderisce all'Ops degli spagnoli. rinunciando a Bnl Vita; 2) Unipol non aderisce all'Ops, ma rimane socia di Bnl chiedendo in cambio agli spagnoli l'intero capitale di Bnl Vita e Artigiancassa; 3) Unipol lancia l'Opa obbligatoria su Bnl, con aumenti di capitale a cascata di Holmo, Finsoe e della medesima Unipol.
I mezzi finanziari per l'Opa sarebbero dovuti arrivare per 2 miliardi dalla ricapitalizzazione di Unipol, per 300 milioni da risorse già disponibili, per 800 da prestiti obbligazionari emessi da Unipol e Aurora, per altri 800 dalla cessione a Finsoe del 33% di Aurora, per 110 dalla vendita di Quadrifoglio Vita a Banca Agricola Mantovana e per 850 dalla vendita di Unipol Banca a Bnl.Così sarebbero stati recuperati 4,8 miliardi.
Il Pm milanese Luigi Orsi ha comunque accertato, al di là di quanto ha dichiarato Boni, che i primi rastrellamenti di titoli Bnl erano già partiti in maggio a prezzi non distanti dai 2,7 euro per azione che saranno poi offerti in luglio al resto del mercato. Il Leonardo Capital Fund londinese (Lcf) aveva venduto il 17 maggio a Bper, sul mercato dei "blocchi", l'1,97%di Bnl a 2,73 euro per azione,a fronte di un prezzo di Borsa inferiore. E a intermediare i titoli era stata Centrosim.
Gli scambi s'erano intensificati il 23 maggio quando Unipol e Aurora aveva acquistano ai blocchi, dallo stesso Leonardo Capital, il 2,97% di Bnl a 2,77 euro per azione, mentre sul mercato il titolo quotava a un prezzo leggermente superiore. L'intermediario era stato Euromobiliare, che nello medesimo giorno aveva acquistato, sempre ai blocchi, un ulteriore 1,87% di Bnl da Chenye Capital Fund Db, K Capital K Ubs, Tisbury, Glg Partners Lp e ancora una volta dal fondo Leonardo. Un'altra negoziazione, intermediata sempre da Euromobiliare, era avvenuta il 30 maggio: venditore, stavolta, era stato Paulson& Co; acquirenti, sempre Unipol e Aurora. Un operatore avrebbe svelato alla Procura di Milano i retroscena di queste operazioni. La "gola profonda" sosterrebbe di aver eseguito le negoziazioni in Borsa dopo essersi «confrontato» con Carlo Cimbri, direttore generale di Unipol. Se così fosse, a far da tramite tra acquirente e venditori sarebbe stata la stessa Unipol, nella persona del suo dirigente più alto in grado delegato alle operazioni. Lo stesso Cimbri avrebbe chiesto che parte delle azioni rastrellate (l'1,87%) fosse parcheggiata presso la Dresdner Kleinwort Benson (Dkb) dopo essere rimasta in deposito per un giorno presso Euromobiliare. Questo passaggio, se riscontrato, configurerebbe il primo portage a favore di Unipol. Dkb, il 25 maggio, vendette infatti alla compagnia bolognese un diritto d'opzione all'acquisto di titoli Bnl (una call option), diritto che trasformava di fatto Unipol nel possessore finale delle azioni. L'operazione avveniva,peraltro, appena due giorni prima che Unipol ricevesse l'ok di Bankitalia a crescere in Bnl. Non solo: sempre il 25 maggio Consorte incontrò nuovamente il responsabile della Vigilanza, Frasca, per discutere «in chiave teorico- progettuale» se Unipol e i suoi azionisti fossero in grado di reggere l'urto finanziario di un'Opa su Bnl.
Le vere intenzioni di Consorte
Consorte tuttavia sottolinea, nel suo memoriale, che, mentre Bankitalia autorizzava Unipol a salire in Bnl, la possibilità di un aumento di capitale finalizzato all'Opa era ancora a uno stadio di valutazione.E che l'Opa in quanto tale, in quel momento, non era ancora all'ordine del giorno.
Consorte stava in sostanza giocando su tre tavoli: trattava col Bbva per cercare di ottenere Bnl Vita e Artingiancassa, non scartava la possibilità di aderire all'offerta pubblica di scambio degli spagnoli, ma in realtà puntava a un'Opa obbligatoria che impedisse il rilancio degli spagnoli, con gli unici interlocutori possibili: il contropatto e le banche alleate. Tale eventualità fu accennata anche a Consob, assieme alle altre opzioni, il 30 maggio.
Ma gli spagnoli non stavano certo a guardare. Il 21 presentarono un primo esposto alla Procura di Roma, denunciando presunti accordi tra il contropatto e alcune banche (Bim e Finnat). Consorte viene così convocato dai Pm il 15 giugno 2005 e, nello stesso giorno, incontra il presidente di Generali, Antoine Bernheim, che gli avrebbe dichiarato di non apprezzare l'offerta carta-contro-carta degli spagnoli e di essere invece interessato ad aderire a un'eventuale Opa di Unipol, purché in contanti. Da questo momento, le pressioni di Consob su Consorte e Sacchetti si intensificano. Le indiscrezioni sulla scalata sono infatti finite sulla stampa.Audizioni e richieste di informazioni da parte dell'Authority del mercato avvengono il 18 e il 30 maggio e poi il 6, l'8,il 9, il 10, il 13 e il 20 di giugno, quando Consorte comunica alla Borsa di non avere «in cantiere » nessuna Opa.
Eppure pochi giorni dopo l'ex numero uno di Unipol incontra il Credit Suisse First Boston, una delle banche estere che rileverà, per conto di Unipol, un pacchetto di azioni Bnl superiore al 4%: uno dei passaggi fondamentali nella costruzione dell'Opa.

 

Unipol, "mister X" e la guerra segreta di Consorte

Venerdì 22 Giugno 2007 01:00 Giornale
Stampa PDF
22.06.2007 - Giornale

Unipol, "mister X" e la guerra segreta di Consorte

formato .pdf –
 

Forleo: rispetto assoluto delle regole - la risposta a Mastella

Venerdì 22 Giugno 2007 01:00 Sole 24 ore
Stampa PDF
22.06.2007 - Il Sole 24 ore

Forleo: rispetto assoluto delle regole - la risposta a Mastella

formato .pdf –

 

Cena con Fiorani a casa Fazio in piena scalata Bnl. Rapporto GdF

Giovedì 21 Giugno 2007 01:00 Corriere
Stampa PDF

21.06.2007 – Corriere
 
Cena con Fiorani a casa Fazio in piena scalata Bnl. Rapporto GdF


formato .pdf – clicca qui
e

 

Palazzinari alla deriva

Giovedì 21 Giugno 2007 01:00 Espresso
Stampa PDF
21.06.2007 – L’Espresso on line

Palazzinari alla deriva

di Vittorio Malagutti

Il buco nei conti Italease manda in crisi il mercato dei derivati. Gonfiato dalle banche e dagli immobiliaristi. Con nomi eccellenti come Giuseppe Statuto

Adesso che la bomba dei derivati è finalmente esplosa tutti si chiamano fuori. Perdite potenziali per quasi 600 milioni restano sospese sulla testa di oltre 2 mila clienti Banca Italease, ma attorno all'istituto milanese si raccolgono soltanto silenzi imbarazzati o smentite di facciata. Fa marcia indietro anche Giuseppe Statuto, per anni uno dei clienti più affezionati di Massimo Faenza, il numero uno di Italease costretto alle dimissioni pochi giorni fa dopo il tracollo in Borsa. "I derivati? Siamo tranquilli", afferma Statuto, "ne abbiamo ancora in portafoglio solo per una ventina di milioni. Il resto è stato venduto". Una retromarcia provvidenziale, visto che negli anni scorsi l'immobiliarista ha fatto il pieno di derivati targati Italease. Circa 100 milioni e tutti di 'natura speculativa', secondo quanto si legge nel bilancio 2005 della holding Michele Amari, la capofila delle attività dell'imprenditore diventato una delle star nazionali del mattone, proprietario di gioielli come l'hotel Four Season di Milano e il Danieli a Venezia.

"Abbiamo chiuso quei contratti nei mesi scorsi", dice l'immobiliarista originario di Caserta. Per la precisione 20 milioni nel 2006, 20 milioni in aprile di quest'anno e altri 40 milioni il 21 maggio, quando la bufera sulla banca milanese era già scoppiata per il coinvolgimento nel crack dell'immobiliarista Danilo Coppola. Giusto dieci giorni dopo quel 21 maggio sono invece finite sui giornali le prime circostanziate indiscrezioni sul buco in derivati. In altre parole, Statuto sarebbe riuscito a sganciarsi proprio alla vigilia del tracollo. Buon per lui, se non fosse che gli affari di Italease sono finti nel mirino della Consob. La Commissione presieduta da Lamberto Cardia nei giorni scorsi ha aperto un'istruttoria formale sul caso, chiamando a rapporto, tra gli altri, proprio l'ex amministratore delegato Faenza. A questo punto sembra molto probabile che anche la posizione di Statuto, e il suo eccezionale tempismo, vengano presto presi in considerazione dagli sceriffi del mercato.

Di certo, ormai, i derivati con il marchio di Italease sono diventati merce che scotta. Secondo gli ultimi dati disponibili ci sarebbero una ventina di clienti su cui grava il 60 per cento delle perdite complessive pari, come detto, a 600 milioni. Ma la questione, già grave di per sé, rischia di avere ripercussioni ancora più pesanti sull'intero mercato. Per anni, sotto la spinta delle reti di vendita dei grandi istituti di credito, i cosiddetti strumenti di copertura hanno fatto faville. "Insieme al prestito c'è una polizza sui tassi", spiegavano pazienti gli impiegati allo sportello. In sostanza, ai clienti interessati a un mutuo oppure a un finanziamento in leasing veniva proposto l'acquisto di un paracadute finanziario in grado di proteggerlo da eventuali rialzi dei tassi d'interesse.

Morale della storia: gli imprenditori, dall'artigiano fino al grande immobiliarista, compravano fiduciosi prodotti dai nomi complicati: Interest rate swap (Irs), Cap in & out, Atlantic swap, giusto per citare alcune delle sigle più diffuse. Mentre gli istituti di credito, oltre al rendimento del prestito, sono riusciti a incassare laute commissioni sui contratti accessori. I profitti però non erano uguali per tutti. Di norma i derivati più complessi garantiscono maggiori provvigioni. Come dire che la forza vendita è di fatto incentivata a spingere sui contratti più rischiosi.

Infine, anche il grossista vuole la sua parte. Nel senso che i prodotti piazzati alla clientela spesso vengono confezionati dalle grandi merchant bank internazionali, che a loro volta ricevono un compenso dalla banca acquirente. Un esempio concreto: secondo indiscrezioni, Italease collocava strumenti speculativi venduti da Lehman. Ovvero il colosso statunitense che nel 2004 fece da consulente (insieme a Mediobanca) per lo sbarco in Borsa dell'istituto milanese specializzato nel leasing. Un successone. Nel giro di due anni la quotazione si è moltiplicata per cinque rispetto al prezzo di collocamento. La cavalcata al rialzo è proseguita fino al disastroso incidente sui derivati, che adesso rischia di innescare una reazione a catena.

Questa finanza innovativa ha infatti trovato terreno fertile soprattutto nel mercato immobiliare. Mutui e leasing a tassi stracciati hanno gonfiato la bolla speculativa. Con l'aggiunta, all'occorrenza, di una dose massiccia di derivati. Per farsi un'idea delle dimensioni del fenomeno basta un'occhiata ai bilanci di alcuni degli operatori più rampanti. Risanamento, la holding quotata in Borsa di Luigi Zunino, segnala strumenti di copertura per un valore di 400 milioni a fine 2006. I contratti sono stati stipulati per 150 milioni con Bnl. I restanti 250 milioni hanno invece come controparte l'Unicredit guidata da Alessandro Profumo, la banca che più di tutte negli ultimi anni ha spinto, con alterne fortune, su questo tipo di prodotti. Oltre a Zunino, anche un altro gruppo immobiliare come la Aedes di Luca Castelli dichiara derivati per un valore importante: 231 milioni. In questo caso la fetta maggiore è andata a Banca Intesa, 185 milioni, con Unicredit a 29 milioni. Va detto che la relazione di bilancio di Aedes, così come quella Risanamento, segnalano che i contratti in questione hanno unicamente una funzione di copertura sulle variazioni di tassi d'interesse. Nessuna speculazione, quindi.

Sul mercato però circola di tutto. Migliaia di investitori hanno comprato prodotti esotici, così li definiscono gli addetti ai lavori, che perfino gli esperti hanno difficoltà a gestire. I derivati, infatti, sono regolati da meccanismi molto sofisticati e, proprio come certi orologi antichi, vanno maneggiati con estrema cautela. Creati in base a modelli matematici prevedono un'infinità di varianti. Il gioco delle leve finanziarie e delle cosiddette barriere può funzionare come moltiplicatore dei guadagni ma anche delle perdite. Soprattutto in una fase di movimenti repentini dei mercati. E gli ultimi mesi, con le ripetute manovre al rialzo dei tassi decise dalla Banca centrale europea, hanno creato le condizioni ideali perché molti apprendisti stregoni finiscano per bruciarsi le dita.

I maghi di Italease si sono infilati da soli in un vicolo cieco. Adesso il nuovo gruppo dirigente, guidato dall'amministratore delegato Massimo Mazzega, sta cercando di rimettere ordine nei conti. Di sicuro sarà molto difficile tornare a correre come in passato. Anche perché quasi la metà dei profitti della banca milanese derivano dal collocamento dei derivati e non, come sarebbe stato logico, dall'attività di leasing. I rischi di gran lunga maggiori, comunque, continuano a pesare soprattutto sulle spalle di centinaia di clienti che hanno comprato a cuor leggero i prodotti proposti da Italease. Anche perché l'impennata dei tassi sui mercati internazionali non sembra destinata a esaurirsi in breve. E i derivati, se mal congegnati, non fanno altro che moltiplicare gli effetti negativi dei rialzi. Auguri.
 

C'è Doris intorno a Fiorani

Giovedì 21 Giugno 2007 01:00 Espresso
Stampa PDF
21.06.2007 – L’Espresso

C'è Doris intorno a Fiorani

formato .pdf –

 

Bernheim: "parlai di Bnl col Governatore"

Mercoledì 20 Giugno 2007 01:00 Sole 24 Ore
Stampa PDF

20.06.2007 - Il Sole 24 Ore

Bernheim:  "parlai di Bnl col Governatore"

formato .pdf – clicca qui
e

 

Ricucci: "volevo entrare in Hopa"

Mercoledì 20 Giugno 2007 01:00 Sole 24 Ore
Stampa PDF

20.06.2007 - Il Sole 24 Ore

Ricucci: "volevo entrare in Hopa"

formato .pdf –

 

Fiorani sentito a Lodi

Mercoledì 20 Giugno 2007 01:00 Sole 24 Ore
Stampa PDF
20.06.2007 - Il Sole 24 Ore

Fiorani sentito a Lodi

formato .pdf –
 

MicroMega: D'Alema di dimetta

Mercoledì 20 Giugno 2007 01:00 Giornale
Stampa PDF
20.06.2007 - Giornale

MicroMega: D'Alema di dimetta

formato .pdf –
 

Unipol-Bnl, indagati a Roma Fazio, Caltagirone, Coppola, Ricucci e Statuto

Martedì 19 Giugno 2007 01:00 Repubblica
Stampa PDF

19.06.2007 - Repubblica

I reati ipotizzati dai pm della capitale sono aggiotaggio, insider trading e ostacolo all'attività degli organi di vigilanza


Unipol-Bnl, indagati a Roma Fazio, Caltagirone, Coppola, Ricucci e Statuto

Le iscrizioni, un atto dovuto, per le attività del "contropatto"

ROMA - Per la scalata di Unipol a Bnl sono indagati a Roma l'imprenditore romano Francesco Gaetano Caltagirone, l'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio, gli immobiliaristi Danilo Coppola, Stefano Ricucci e Giuseppe Statuto, oltre a un'altra ventina di persona. I reati ipotizzati sono, a vario titolo e a seconda delle singole posizioni, aggiotaggio, insider trading, ostacolo all'attività degli organi di vigilanza.

Le nuove iscrizioni nel registro degli indagati sono un atto dovuto dopo le dichiarazioni di varie persone coinvolte nell'inchiesta, tra le quali Ricucci, e dopo le risultanze investigative che i pm Giuseppe Cascini e Rodolfo Sabelli hanno affidato ai militari del nucleo valutario della Guardia di Finanza.

Oggetto di questo nuovo filone di inchiesta è l'attività del 'contropatto' formato da immobiliaristi e finanzieri nell'estate del 2004 per contrastare il patto che guidava Bnl (con gli spagnoli del Banco del Bilbao interessati alla scalata grazie all'appoggio di Generali e Doint, la società di Diego Della Valle). Al vaglio degli investigatori ci sono passaggi, ritenuti sospetti, di azioni tra soci del 'contropatto', che avevano portato alla raccolta e alla vendita a Unipol di oltre il 27 per cento di Bnl con plusvalenze per decine di milioni di euro.

Stando alle indiscrezioni, al termine di indagini durate mesi, le Fiamme Gialle hanno ricostruito i movimenti di circa l'80% del capitale della banca romana tra la fine del 2003 e il 31 maggio del 2005. Movimenti che avrebbero fruttato plusvalenze milionarie che sarebbero imputabili in gran parte ai membri del 'contropatto' di cui facevano parte Caltagirone, Ricucci, Coppola, Statuto, i fratelli Lonati e Vito Bonsignore.

L'inchiesta parte due anni fa, quando la procura di Roma accende il faro sulla lotta in atto tra Bbva e Unipol. Nel registro degli indagati finiscono l'allora numero uno di Via Stalingrado, Giovanni Consorte, il suo ex vice Ivano Sacchetti e il finanziere bresciano Emilio Gnutti.

L'attività degli inquirenti si concentra inizialmente sul ruolo avuto dalle autorità di vigilanza (a partire dall'iter autorizzativo di Bankitalia all'Opa di Unipol) e sulla ricostruzione dei passaggi azionari che gravitano intorno alla scalata. Le indagini proseguono con l'apertura di un nuovo filone di indagine relativo alla dismissione, a fine 2005, di 133 immobili di Unipol. Per quella vicenda vengono indagati ancora, per appropriazione indebita, Consorte, Sacchetti e altre 12 persone, tra cui l'imprenditore Vittorio Casale.

Questo fino alla svolta di oggi. Con le nuove iscrizioni nel registro degli indagati. Secondo quanto si apprende l'iscrizione dell'ex governatore Fazio sarebbe imputabile a un'interpretazione "estensiva" delle norme bancarie che vietano a uno o a più imprenditori in cordata di superare il 15% del capitale di una banca.

 

Livolsi e la scalata Rcs "Berlusconi mi suggerì di parlare con Agag"

Martedì 19 Giugno 2007 01:00 Corriere
Stampa PDF
19.06.2007 – Corriere

Livolsi e la scalata Rcs "Berlusconi mi suggerì di parlare con Agag"

formato .pdf – clicca qui
e
 

Nuovi indagati nell'inchiesta dei pm romani

Martedì 19 Giugno 2007 01:00 Sole 24 ore
Stampa PDF
19.06.2007 - Il Sole 24 ore

Nuovi indagati nell'inchiesta dei pm romani

formato .pdf –
 

Lo specchio impietoso di una classe dirigente

Martedì 19 Giugno 2007 01:00 Sole 24 ore
Stampa PDF
19.06.2007 - Il Sole 24 ore

Lo specchio impietoso di una classe dirigente
di Ferruccio De Bortoli

formato .pdf –
 

Un sistema debole si rifugia nella sindrome del complotto

Martedì 19 Giugno 2007 01:00 Sole 24 ore
Stampa PDF

19.06.2007 - Il Sole 24 ore

Un sistema debole si rifugia nella sindrome del complotto

formato .pdf –

 

I Verbali di Ricucci

Domenica 17 Giugno 2007 01:00 Corriere
Stampa PDF
dal sito del Coriere della Sera - 17.06.2007

DOCUMENTI SU POLITICA&AFFARI

La deposizione ai magistrati - Scalata Rcs, i verbali di Ricucci

Il racconto dei retroscena della scalata Rcs comincia il 16 maggio nel carcere (formato .pdf)

 

Squilli stile anni Novanta sul telefono di D'Alema

Mercoledì 13 Giugno 2007 01:00 Ferruccio Sansa
Stampa PDF

13.06.2007 - da Il Secolo XIX

Squilli stile anni Novanta sul telefono di D'Alema

di Ferruccio Sansa


«Queste intercettazioni sono un flop», sorride il cassiere dei Ds, Ugo Sposetti. «Nel merito è evidente a tutti che da quelle conversazioni emergono solo delle cavolate», chiosa ostentando sicurezza Massimo D'Alema.
Beati loro, viene da dire, che sono così sicuri. Che hanno chiuso il capitolo intercettazioni con battute infastidite o, peggio, sprezzanti. Ma in questo modo, gli esponenti del centrosinistra dimostrano soprattutto una cosa: la siderale distanza che li separa dai loro elettori. E ha ragione, questa volta sì, D'Alema quando punta il dito sull'allontanamento dei cittadini dalla politica, ma paradossalmente non si accorge (oppure finge di non accorgersi) che questo distacco è provocato proprio da atteggiamenti come il suo.
Proviamo ad analizzare quali sono le colpe della classe dirigente diessina in questa vicenda. La prima, la più grave, potrebbe non essere quella che emerge dalle sconvenienti conversazioni telefoniche intercettate. No, il peccato più grave è la totale indifferenza che i vertici Ds hanno manifestato verso chi chiedeva loro delle spiegazioni. Qui non si tratta soltanto del ben noto fastidio di D'Alema e soci nei confronti dei cronisti, ma anche di una sostanziale noncuranza verso l'opinione pubblica. E di un comportamento arrogante che un politico non può permettersi. Facciamo alcuni esempi concreti di cui chi scrive è stato testimone diretto. Quando D'Alema fu interpellato sul leasing concessogli da una banca legata a Gianpiero Fiorani per l'acquisto del suo yacht, rispose: «Mi avete già rotto abbastanza i c.... con 'sta storia della barca». Non c'era niente di improprio, probabilmente, in quel contratto, ma nell'atteggiamento di D'Alema sì.
Lo stesso peccato originale è rintracciabile nella vicenda che ha visto come protagonisti il generale della Finanza Roberto Speciale e Vincenzo Visco. A prescindere dalle ragioni che hanno spinto il vice-ministro a trasferire i quattro ormai famosi finanzieri (uno dei quali si era occupato dell'indagine Unipol-Bnl), la colpa sicura di Visco è consistita nell'aver respinto con fastidio ogni tentativo di avere chiarimenti.
Ma l'elenco delle auto-assoluzioni dei Ds potrebbe continuare, fino, appunto, al caso Consorte. «Si tratta di telefonate. Non c'è nessuno scandalo, non ci sono tangenti, non ci sono soldi, non ci sono conti all'estero, non ci sono ingerenze, non ci sono patti occulti, non c'è nulla», taglia corto Piero Fassino. Èâ??vero, ai Ds non sono addebitati reati, ma per Consorte - che «fa sognare» D'Alema, che fa chiedere a Fassino «abbiamo una banca?» - i pm parlano eccome di soldi. Consorte, insieme con il suo vice Ivano Sacchetti, dovrà spiegare la natura di un compenso di 48 milioni di euro. Ma Fassino invece di spiegare preferisce rispolverare il vecchio vocabolario del complotto: «Si sta tentando di delegittimarci sul piano morale, ma non vedo dov'è che c'è una questione morale». Fassino no, non la vede, e anche questo è un segno.
C'è poi D'Alema. Da oltre un anno arrivavano richieste al ministro degli Esteri perché rivelasse - se non v'era nulla da nascondere - il contenuto delle conversazioni. Lui, però, non ha mai degnato di attenzione la questione. E, forse, questo è perfino più grave delle responsabilità politiche che potrebbero emergere dai colloqui con Consorte. Che siano «cavolate» per adesso lo dice soltanto D'Alema. I magistrati sono perplessi soprattutto per quel frammento in cui il leader diessino direbbe: «Devi farti un elenco delle prudenze... delle comunicazioni». Non è sicuramente così, ma se dovesse emergere che D'Alema intendeva avvertire
l'amico perché forse il suo telefono era sotto controllo, bé... non sarebbe una «cavolata».
Alla fine, insomma, il tifo per una compagnia di allegri finanzieri che sono indagati in mezza Italia è quasi il meno. Così come il fatto che esponenti di partito abbiano comportamenti più da affaristi che da politici.
Da questa storia comincia piuttosto a emergere una somiglianza della classe dirigente diessina con quella socialista di craxiana memoria. La rivelano il fastidio e l'ironia sprezzante nei confronti dei giornalisti che chiedono conto ai vertici diessini del loro operato. Ma soprattutto le frasi pronunciate da D'Alema nei confronti della magistratura: «È uno schifo. In questa vicenda si è comportata in modo inaccettabile». Sembra di sentire Bettino Craxi, gli stessi toni, gli stessi gesti. E poi il tentativo di spostare il fuoco della polemica: non gli affari dei partiti, ma l'invadenza di magistrati e giornalisti. Alla fine la questione si ribalta: il problema non sono le parole di D'Alema e Fassino, ma le intercettazioni.
Così anche i Ds, che paiono sempre più vicini al partito degli affari e dei "furbetti del quartierino", somigliano sempre più ai cugini del Psi.
Certo, finora la gravità delle contestazioni è decisamente inferiore rispetto a vent'anni fa, ma c'è sempre tempo per imparare la cattiva lezione. Fino all'epilogo.

 

La ragnatela di Fazio e la quota fantasma

Mercoledì 13 Giugno 2007 01:00 Sole 24 ore
Stampa PDF

13.06.2007 - Sole 24 Ore

La ragnatela di Fazio e la quota fantasma


Gianpiero Fiorani, ex patron della Banca Popolare Italiana, ha svolto un ruolo chiave per conto di Antonio Fazio, all'epoca Governatore di Bankitalia, per gestire la permanenza del controllo della Bnl in mani italiane e, al tempo stesso, per acquisire il pacchetto dell'istituto romano di Via Veneto finito all'estero (si veda «Il Sole-24 Ore» di ieri). Quel pacchetto, pari al 9,6%, messo insieme in più tranche, venne offerto agli spagnoli del Bbva già nell'agosto 2004, secondo i risultati dell'indagine condotta dal pubblico ministero milanese Luigi Orsi coadiuvato dai finanzieri del Nucleo valutario e del Nucleo di polizia tributaria di Milano.

Fazio si preoccupa per Bnl
Alla fine di febbraio 2005 — secondo le dichiarazioni rilasciate ai magistrati di Milano da Gianfranco Boni, braccio destro di Fiorani — Via Nazionale decide di mettersi in movimento per gestire gli assetti azionari della Banca Nazionale del Lavoro. A togliere il sonno ai vertici della Banca d'Italia sono gli azionisti del cosiddetto contropatto (Caltagirone, Coppola, Ricucci, Statutoe Bonsignore) titolari di una quota intorno al 27 per cento. Fazio e i suoi più stretti collaboratori temono che gli immobiliaristi del contropatto, capeggiati dal cementiere- editore Francesco Gaetano Caltagirone, possano cedere alle lusinghe di un'offerta allettante e vendere le quote. Gli spagnoli del Bbva fanno paura.

Un primo incontro per organizzare le contromosse e mantenere in mani italiane la Bnl si svolge a Via Nazionale verso la fine di febbraio 2005. Gli interlocutori scelti dalla banca centrale sono due manager d'eccezione e di provata fede e amicizia: Gianpiero Fiorani e il suo braccio destro, Gianfranco Boni.

Fiorani e Boni, che nel frattempo pensavano di avere già sistemato la partita per la scalata ad Antonveneta, si trovano di fronte l'allora capo della Vigilanza di Palazzo Koch, Francesco Frasca, e ad alcuni suoi collaboratori. Si esamina l'azionariato della Bnl, si studiano le varie possibilità. Fiorani, a un certo punto, si consulta direttamente con Fazio sui possibili scenari.

Insomma, si arriva alla determinazione che, nell'interesse della Banca d'Italia, gli immobi-liaristi del contropatto debbano essere convinti a cedere le loro partecipazioni a un soggetto bancario italiano in quel momento non ancora identificato. A gestire le consultazioni sarà Fiorani in prima persona. Nel corso della discussione appare chiaro a tutti che c'è un pacchetto di azioni Bnl che può fare la differenza in una possibile battaglia per il controllo dell'istituto presieduto da Luigi Abete, e che si trova all'estero,in mano a soggetti generalmente identificati come «gli argentini».

La difesa di Via Veneto
I tempi stringono.Il secondo incontro rilevante — è ancora Boni a raccontarloai pm —si svolge nella mattinata del 19 marzo del 2005, direttamente presso l'abitazione dell'ex Governatore, a Roma. Si ritrovano Fiorani e Boni, Frasca e Franco Gianni, legale di Caltagirone. Il clima è rovente. Gli spagnoli del Bbva hanno annunciato il lancio dell'Offerta pubblica di scambio sulla Bnl e, parallelamente, il colosso olandese Abn Amro minaccia di contrattaccare sull'Antonveneta. Ma la principale preoccupazione di Fazio non è tanto per Antonveneta, che è già stata messa al sicuro da Fiorani con un'operazione temeraria che gli costerà la defenestrazione dal sistema bancario e il carcere, quanto per la Bnl.Proprio il giorno precedente — il18 —il Banco Popolare di Verona e Novara ha infatti deciso di abbandonare la trattativa, avviata qualche mese prima, per acquisire il controllo della Bnl. L'istituto presieduto da Carlo Fratta Pasini ha in particolare ritenuto eccessivo il prezzo per azione preteso dagli azionisti riuniti nel contropatto.

Per Fazio è dunque evidente che l'uomo chiave per mettere in salvo la Bnl dallo "straniero" è Francesco Gaetano Caltagirone. Il Governatore ordina che lo si sondi subito sulla disponibilità a svolgere un ruolo all'interno della Bnl. Non c'è tempo da perdere. L'appuntamento è fissato all'ora di pranzo, a casa di Caltagirone. A tavola, con l'editore del «Messaggero», siedono personaggi di prim'ordine: Fiorani, Boni,Gianni e i banchieri d'affari della Lazard Arnaldo Borghesi e Luca Ditadi, che avevano viaggiato con il volo privato che aveva portato Boni quella mattina stessa a Roma per l'appuntamento a casa del Governatore. Fazio e Frasca, invece, disertano la colazione «perché Banca d'Italia — confesserà poi Fiorani agli inquirenti — preferiva mantenere una posizione coperta o defilata in quella circostanza ». Sarebbe stato come mostrare il fianco agli avversari. Guai a far vedere ciò che tutti intuivano, e cioè che Fazio manovrava dietro le quinte. Resta da capire fino a che punto fosse il Governatore a servirsi di Fiorani e fino a che punto, invece, non fosse Fiorani a condizionarne le decisioni, con l'astuzia di una volpe. Caltagirone pone dunque le sue condizioni per essere socio stabile della Bnl: la presidenza della banca per nove anni e una opzione put allo scadere della presidenza che gli garantisca il riacquisto della quota da parte di un terzo.

Il pacchetto argentino
C'è poi un'altra questione che preoccupa molto Fazio. Un ruolo determinante, per blindare l'azionariato della Bnl contro l'"aggressione"del Bbva,lo svolge il pacchetto azionario estero riconducibile agli argentini Francisco Macrì e Angelo Calcaterra e a tale Alan Clore: quel 9,6% di Bnl, che può salire fino al 15% con l'esercizio di alcuni diritti d'opzione, parcheggiato su quattro conti dell'Ubs di Lugano, al cui rastrellamento —secondo quanto riportato ieri dal Sole 24 Ore-Radiocor — avrebbe partecipato con un ruolo importante l'Euromobiliare. Fazio vuole che il pacchetto azionario argentino sia messo al sicuro il più in fretta possibile «e ci chiese di cercare di acquisirlo — sono parole di Fiorani — perché aveva un valore strategico dal momento che unito al contropatto e ad altri soci disponibili avrebbe potuto efficacemente contrastare...» l'offerta pubblica degli spagnoli. L'adesione all'offerta di quel 10-15% di azioni Bnl avrebbe decretato la vittoria degli iberici. Quindi bisognava toglierlo di mezzo.

Passaggio a Singapore
Un aiuto in questa direzione lo offre Caltagirone; il quale, durante il pranzo del 19 marzo, dice di sapere dell'esistenza di questi titoli e di poter mettere in contatto Fiorani con una persona bene informata al riguardo. Detto fatto: dopo qualche giorno si presenta a Lodi, nel quartier generale della Popolare Italiana, l'onorevole Vito Bonsignore, classe 1943, nato a Bronte, deputato europeo eletto nelle liste dell'Udc,esponente del contropatto della Bnl. A Fiorani e Boni, l'onorevole siciliano fornisce il numero di telefono dell'avvocato svizzero Chistian Fischele, che esercita a Ginevra. È lui il tramite. «Ricordo ancora — spiega Boni ai magistrati —che dopo un po'di tempo lo stesso Bonsignore ci disse che l'operazione si poteva fare ma occorreva prevedere un passaggio per Singapore dove sarebbe rimasta l'eventuale plusvalenza a disposizione di un soggetto che lo stesso Bonsignore si riservava di indicare».
A chi finirono, dunque, le azioni "argentine" di Bnl? Finirono a Fiorani? L'ex padre-padrone di Lodi ebbe un incontro con Fabio Calì, che agiva per conto del gruppo dei soci sudamericani,e pertanto l'ipotesi che possa essere stato lui l'acquirente non è del tutto inverosimile. Oppure furono rilevate dall'Unipol? L'impresa assicurativa guidata da Giovanni Consorte lavorò per conquistare la maggioranza della Bnl,dopo il flop dell'offerta degli spagnoli. Acquistò anche dagli argentini? L'enigma resta irrisolto. Per ora.

 

Centro Sinistra a perdere

Martedì 12 Giugno 2007 01:00 Elio Veltri
Stampa PDF
12.06.2007 - dal DemocraziaLegalità

Centro Sinistra a perdere

di Elio Veltri
 
Nuova pesante sconfitta del centro sinistra nei ballottaggi di domenica. In un anno questa coalizione a perdere ha creato tutte le condizioni per una travolgente vittoria di Berlusconi che non aveva mai vinto le amministrative e ha governato il paese come una Repubblica delle banane.
Questo centro sinistra non solo è “antipatico”, come ha scritto Ricolfi, ma sta sulle scatole ai cittadini, compresi quelli che l’hanno votato. Compresi noi che lo abbiamo votato.
Perché? Per la semplice ragione che

Sono quelli che l’indulto l’hanno fatto per gli amici potenti come Tanzi, Consorte, Fiorani, il “compagno” Ricucci e tanti parlamentari, consiglieri regionali e sindaci;

Sono quelli che trescano con i capi dei servizi segreti come Pollari, Pio Pompa e compagni e anziché lasciarli processare dalla magistratura li promuovono;

Sono quelli che dicono che il comandante della guardia di finanza Speciale è sleale e indegno e gli propongono di spostarsi alla Corte dei Conti con lauto stipendio;

Sono quelli che sostengono Consorte, Ricucci e gli altri furbetti del quartierino nelle scalate alle banche e al Corriere e gli dicono “ fateci sognare”;

Sono quelli che parlano di costi della politica e gonfiano ogni giorno i costi della politica per sistemare amici, familiari e compagni;

Sono quelli che attaccano i magistrati che fanno il loro dovere perché non tollerano controlli di legalità come non li tollera Berlusconi;

Sono quelli che cementificano il bel paese in tutte le regioni che governano;

Sono quelli che tollerano l’economia illegale e criminale che evade tasse e contributi e non muovono un dito per confiscare le ricchezze e i beni delle mafie;

Sono quelli che sostengono le fusioni delle banche e favoriscono la scalata alle presidenze di Mediobancadi Geronzi, nonostante cinque procedimenti penali in corso per reati gravissimi;

Sono quelli che fanno affari e mescolano politica e affari, come documentano Barbacetto e Stella nei loro libri;

Sono quelli che hanno dimenticato i conflitti di interessi e difendono solo gli interessi;

Sono quelli che appartengono alla Casta;

Sono quelli che non cambiano mai e non se ne vanno mai;

Sono quelli che bisogna mandare a casa alle prossime elezioni;

Sono quelli che noi non voteremo più e al loro posto voteremo facce nuove, pulite e giovani fuori dai partiti;

Loro però diranno che le nostre sono solo Bazzecole e non faranno una piega.
 

Clementina facci sognare

Martedì 12 Giugno 2007 01:00 Marco Travaglio
Stampa PDF

12.06.2007

Clementina facci sognare

di Marco Travaglio

Oggi l’Unità non sarà in edicola per uno sciopero sacrosanto (gli editori stanno cercando di far fuori il direttore Antonio Padellaro e di rimetter mano al contratto di collaborazione di Furio Colombo). Dunque non uscirà nemmeno la rubrica “Uliwood Party”. Chiedo ospitalità al sito per dire quel che penso delle intercettazioni del caso Unipol.
Se in Italia non esistesse Berlusconi con la fairy band dei Previti e dei Dell’Utri, ce ne sarebbe a sufficienza per chiedere le dimissioni di Massimo D’Alema da vicepremier, di Piero Fassino da segretario dei Ds e di Nicola Latorre da vicecapogruppo dell’Ulivo al Senato. Quello che emerge dalle loro telefonate con Giovanni Consorte (e, nel caso di Latorre, anche con il preclaro “compagno” Stefano Ricucci) ha un solo nome: conflitto interessi, e dei più gravi. Naturalmente tutto il dibattito è falsato dalla presenza in Parlamento di Berlusconi e della fairy band, al cui confronto il gravissimo conflitto d’interessi Ds-Unipol-coop rosse impallidisce. Ma in un paese normale (espressione cara a D’Alema), nel quale dunque Berlusconi & C. fossero già stati sbattuti fuori dalla vita pubblica, i telefonisti rossi se ne dovrebbero andare su due piedi.
Fassino doveva incontrare il banchiere Luigi Abete (chissà perché, poi) e non sapeva cosa dirgli: perciò chiedeva a Consorte di scrivergli i testi. Poi si lamentava perché Chicco Gnutti era andato a una cena elettorale di Berlusconi: credeva che anche lui fosse un “compagno”, solo perché aveva partecipato all’orrenda scalata Telecom insieme a Consorte e Colaninno, e osservava che Gnutti stava puntando sul cavallo sbagliato, il Cavaliere, che prevedibilmente di lì a un anno avrebbe perso le elezioni.
Intanto Latorre amoreggiava con Ricucci, un tipo che Enrico Berlinguer non avrebbe sfiorato nemmeno con una canna da pesca. Ci scherzava, lo trattava da pari a pari, faceva il tifo per lui.
D’Alema, che com’è noto è molto intelligente, avvertiva Consorte delle possibili intercettazioni telefoniche (“attenzione alle comunicazioni”) parlandogli al telefono: una mossa davvero geniale, machiavellica, volpina. Poi lo esortava ad “andare avanti” nella scalata alla banca romana, abbandonandosi a un tifo da stadio (“facci sognare!”). E si occupava personalmente della quota detenuta in Bnl da Vito Bonsignore, pregiudicato per corruzione nonché europarlamentare dell’Udc.
Stiamo parlando dei tre massimi dirigenti de Ds che, due estati fa, negavano spudoratamente di essersi occupati dell’Opa di Unipol alla Bnl, affermando di essersi limitati a rivendicare il buon diritto dell’assicurazione delle coop rosse a partecipare alla contesa bancaria. Latorre negava addirittura di aver passato il suo telefono a D’Alema perché parlasse con Consorte. I cavalli sui quali questi insigni statisti puntavano sono poi finiti tutti sotto inchiesta per gravissimi reati finanziari. Ricucci addirittura in galera e in bancarotta. Consorte e Gnutti hanno condanne non definitive per insider trading.
Se questa non è una gigantesca “questione morale”, come solo Parisi, Di Pietro e pochi altri politici dissero fin dall’estate 2005, non si sa proprio che cosa lo sia. Ma, nelle reazioni del Botteghino alla divulgazione di brani di intercettazioni, non c’è un’ombra di autocritica, di ripensamento, di riflessione. Anzi si sentono e si leggono frasi copiate pari pari dalla propaganda berlusconiana e craxiana: “veleni”, “attacco”, “operazione scandalistica”, fughe di notizie”, “circuito mediatico-giudiziario”. Condite con attacchi vergognosi alla giudice Clementina Forleo, che ha fatto semplicemente il suo dovere, applicando una legge demenziale - la Boato - varata da destra e sinistra amorevolmente a braccetto nell’estate 2003. Se ieri, per tutta la giornata, sono usciti brandelli di intercettazioni, è soltanto perché, con una decisione giuridicamente inedita quanto discutibile, il vertice del Tribunale di Milano ha stabilito che gli avvocati difensori degli 83 indagati del caso Antonveneta potessero soltanto prendere appunti dalle centinaia di pagine di trascrizioni, ma non prelevarne copia. Se, come dovrebbe avvenire in un paese civile, e come infatti avviene in America e in Inghilterra, gli atti giudiziari non più segreti venissero messi integralmente a disposizione delle parti e anche della stampa, si saprebbe tutto subito, e si eviterebbe di costringere i giornalisti a pendere dalle labbra di questo o quell’avvocato, a fidarsi dei loro appunti non certo completi né disinteressati. Chi è causa del suo mal, pianga se stesso. Ma qui non c’è alcun “attacco”, nessuna “operazione”, nessun “circuito mediatico-giudiziario”. Si chiama, molto più semplicemente, “informazione”. I cittadini da oggi sanno qualcosa in più delle scalate bancarie illegali all’Antonveneta, alla Bnl e alla Rcs avviate dai furbetti del quartierino sotto l’alta protezione dello sgovernatore Fazio, dell’allora premier Berlusconi, dei vertici dei Ds, della Lega Nord e di Forza Italia (ci sono anche i berlusconiani Cicu, Grillo e Comincioli, al telefono con Fiorani). Ed è doveroso che sappiano, visto che su quelle telefonate il Parlamento sarà chiamato molto presto a votare pro o contro l’autorizzazione a usarle nei processi ai furbetti.
Invece il senatore-avvocato Guido Calvi, già difensore di Ricucci e di D’Alema, nonché attuale difensore dell’ottimo Geronzi, dunque in pieno conflitto d’interessi anche lui, dice cose assurde contro i giudici di Milano e contro i giornalisti. Invoca interventi della Procura per “bloccare” le notizie che doverosamente la libera stampa fornisce ai cittadini. E chiede l’immediata approvazione al Senato della legge-bavaglio-Mastella, già varata dalla Camera con maggioranza bulgara: tutti i partiti affratellati, nessuno escluso. I voti del centrodestra all’ennesima porcata non mancheranno: Berlusconi ha già solidarizzato con D’Alema e D’Alema ha già solidarizzato con Berlusconi per la splendida contestazione (uova a parte) subìta da Bellachioma a Sestri Ponente. E la Cdl ha già annunciato con non userà politicamente quelle telefonate, onde evitare che a qualcuno, a sinistra, salti in mente di usare i gravissimi reati della fairy band berlusconiana per rinfacciare finalmente la questione morale alla destra.
Persino Veltroni perde la testa e vaneggia di “crisi del sistema democratico”: ma non per il contagio del conflitto d’interessi che infetta il maggior partito della sinistra, bensì perché è finalmente affiorato alla luce del sole. Come se il problema non fosse ciò che i suoi compagni dicevano al telefono con personaggi ben poco raccomandabili, nel pieno di un’Opa e di una contro-Opa, in spregio alle più elementari regole del libero mercato; ma il fatto che finalmente tutto ciò stia venendo fuori. Hai la faccia sporca? Invece di andarti a lavare, dai la colpa allo specchio che la riflette. E tenti di romperlo, lo specchio, per non vedere mai più la faccia sporca. Che schifo.

 

Giallo Bnl, la pista Bbva

Martedì 12 Giugno 2007 01:00 Sole 24 ore
Stampa PDF

12.06.2007 - Sole 24 Ore

Giallo Bnl, la pista Bbva

di Giuseppe Oddo


Il 9,6% di Bnl riconducibile a persone di nazionalità argentina, considerato strategico per il controllo della banca, era stato costituito prima dell'estate 2004 senza che la Consob ne fosse informata. Quanto tempo prima non sappiamo. È però certo che, nell'agosto di quell'anno, i misteriosi intestatari del "pacco argentino" vennero allo scoperto contattando il Bbva: il Banco di Bilbao Vizcaya Argentaria. È in questa direzione che indaga il pm di Milano Luigi Orsi, titolare dell'inchiesta sulla scalata alla banca romana. L'istituto spagnolo, in quel momento, era il primo socio di Bnl, con una quota intorno al 15%, ed era in cerca di alleati con cui accrescere la sua influenza sulla banca.
I titoli che componevano il cosiddetto pacco argentino erano stati depositati su quattro conti dell'Ubs di Lugano, su ognuno dei quali figuravano 59,5 milioni di azioni ordinarie Bnl. I primi tre conti facevano capo ad altrettante società: la European Real Estate Management Llp, registrata a Cardiff, la Media Colos Sca e la Media Group Sa; il quarto, a una persona fisica: tale Alan Clore. Amministratore delegato e legale rappresentante delle tre società era Hanna Maroun Kikano, un signore con passaporto libanese. Le prime due società erano riconducibili a Francisco Macrì; la terza, ad Angelo Calcaterra; entrambi cittadini argentini. Procuratore speciale dei quattro pacchi azionari era il notaio Gian Carlo Mazza, dello studio Mazza Politi Amato di Roma. A Mazza era stato conferito mandato a partecipare a tutte le assemblee di Bnl (con facoltà di voto per qualsiasi ordine del giorno) e a vendere le azioni (con il potere di sottoscriverne l'atto di vendita, di convenirne il prezzo e di riscuotere l'incasso).
Il primo contatto con il Bbva avviene nell'agosto 2004, per telefono. A chiamare Gonzalo Torano, responsabile del dipartimento espansione corporativa del Bilbao, è l'avvocato lussemburghese Philippe Wassila in rappresentanza dei soci argentini di Bnl. Torano non sa niente di quei titoli, ne ignora la titolarità, e spiega al suo interlocutore che il Governatore di Banca d'Italia Antonio Fazio ha negato al Bbva l'autorizzazione a varcare la soglia del 15% di Bnl. Cionondimeno, trasferisce il contenuto della conversazione con Wassila allo studio legale Ughi e Nunziante, che assiste il Bbva in Italia. Tra l'ottobre e il dicembre 2004, gli avvocati degli spagnoli telefonano in Lussemburgo, apprendono che i clienti di Wassila formano un gruppo di azionisti Bnl rappresentato dal notaio Mazza di Roma, e ne informano il Bbva.
Le primi riunioni si svolgono nel gennaio 2005. A una di queste Wassila si presenta con Fabio Calì, uno sconosciuto che avrà l'onore delle cronache qualche mese più tardi. I fratelli catanesi Fabio e Carmelo Calì (quest'ultimo già avvocato del boss mafioso Nitto Santapaola) subiranno il sequestro di alcuni immobili di pregio acquistati in solo quattro mesi, a Roma, con un finanziamento di Meliorbanca da 80 milioni di euro ottenuto con documenti che si riveleranno falsi.
Tra il 13 e il 14 gennaio 2005, nello studio Ughi e Nunziante, si ritrovano i legali del Bbva e gli intermediari degli azionisti argentini: Calì, Kikano e il notaio Mazza. È in questa circostanza che gli spagnoli sentono parlare del 9,6% di Bnl in mano a non meglio identificati soci esteri e dell'esistenza di altri titoli e di diritti di acquisto che avrebbero consentito a questi soci di incrementare la loro quota al 15 per cento. Calì, Kikano e Mazza dicono di voler vendere le azioni a un prezzo che includa un premio sulle quotazioni di Borsa e propongono una due diligenge in Svizzera per dar modo agli spagnoli di accertare la regolarità dei documenti.
A fine gennaio, in occasione di un altro incontro, questa volta nell'ufficio di Fabio Calì, entra anche in scena l'avvocato ginevrino Christian Fischele. Il quale rivela, ai legali del Bbva, la struttura societaria cui fanno capo le azioni argentine e i beneficiari dell'intera costruzione: Francisco Macrì, Angelo Calcaterra e Alan Clore. Ad essi era riconducibile l'8% di Bnl; a Calì ed a suoi familiari un altro 1,6%; e, grazie ai diritti di acquisto già al sicuro, la partecipazione sarebbe potuta salire al 15%.
Ai primi di febbraio, durante un'altra riunione nell'ufficio di Calì, agli spagnoli viene detto che dell'eventuale trasferimento dei titoli in deposito a Lugano sarebbe stata incaricata Banca Akros, della Popolare di Milano. E che l'operazione sarebbe stata curata da un broker della sede di Bologna della Akros, Sandro Presti, anch'egli presente in riunione. Gli spagnoli, però, non verificarono mai la veridicità delle informazioni che andavano ricevendo da Calì, Mazza e Kikano. I programmati viaggi in Svizzera per constatare l'esistenza e la titolarità delle azioni non ebbero mai luogo.
Il 18 marzo 2005 il Bbva presenta a Banca d'Italia un'informativa preliminare per il lancio di un'offerta pubblica di scambio su Bnl (prassi introdotta da Antonio Fazio, quella dell'informazione preventiva, e soppressa dal suo successore, Mario Draghi). L'annuncio di un'Opa viene diramato nel medesimo giorno dalla banca olandese Abn Amro nei confronti di Antonveneta. La "guerra per banche" è cominciata. Il 29 dello stesso mese gli spagnoli rendono noti i termini dell'Ops su Bnl. A questo punto il pacco argentino può essere determinante per la conquista della banca: può far pendere l'ago della bilancia da una parte o dall'altra. Tant'è vero che in Banca d'Italia scatta l'allarme. Per agganciare i proprietari delle azioni, Antonio Fazio chiama a raccolta i suoi uomini più fidati, primo fra tutti Giampiero Fiorani, che dalla plancia di comando della Bpi sta nel frattempo contrastando con ogni mezzo - lecito e illecito - l'avanzata degli olandesi in Antonveneta.
Mentre infuria la battaglia per le Opa bancarie, gli spagnoli tornano a incontrare Calì e Mazza, in aprile. Ma le riunioni si concludono in un nulla di fatto. I manager del Bilbao appaiono poco rassicurati dalle informazioni dei due mediatori e chiedono ulteriori elementi di prova. Così, a fine aprile, il notaio Mazza estrae dal cassetto la procura conferitagli da Kikano sulla titolarità del pacco argentino. Il tempo passa freneticamente, e il 10 maggio si svolge l'ultima riunione, ancora una volta nell'ufficio di Calì. I manager spagnoli sperano di poter consultare documenti più esaustivi, ma senza risultato. Ed ecco l'inatteso colpo di scena finale: mentre fanno anticamera da Calì, si vedono superati da due signori dall'aspetto noto. Sono Fiorani e il suo braccio destro, Gianfranco Boni, che da lì a qualche mese cadranno dall'altare nella polvere, travolti dalle inchieste giudiziarie. Non è tutto: dopo la riunione, i banchieri baschi si congedano da Calì convinti di non avere più nulla da dirgli e questi presenta loro una persona - un parlamentare il cui nome resta sconosciuto, probabilmente un senatore - che è lì in attesa di essere ricevuto. Da questo momento in poi la scalata a Bnl entra nel vivo con l'ingresso in scena della Unipol di Giovanni Consorte. Che sarà estromessa, alla fine della storia, per far posto ai francesi di Bnp Paribas.

 

D'alema facci sognare...

Lunedì 11 Giugno 2007 01:00 Roberta Anguillesi
Stampa PDF

11.06.2007 - da DemocraziaLegalità

D'alema facci sognare...

di Roberta Anguillesi

Secondo le prime 'indiscrezioni' sulle intercettazioni tra i vertici DS e i 'furbetti organici al partito'durante una telefonata tra Consorte e Latorre sarebbe stato passato il telefono a D'Alema che, rivolgendosi a Consorte, sempre sulla scalata Bnl, pare abbia detto:

- D'Alema: va bene. Vai avanti vai!
- Consorte: Massimo noi ce la mettiamo tutta.
- D'Alema: facci sognare. Vai!
- Consorte: anche perché se ce la facciamo abbiamo recuperato un pezzo di storia, Massimo. Perché la Bnl era nata come banca per il mondo cooperativo.
- D'Alema: e si chiama del Lavoro, quindi possiamo dimenticare?
- Consorte: esatto. E' da fare uno sforzo mostruoso ma vale la pena a un anno dalle elezioni.
- D'Alema: va bene, vai!

Sinceramente questa storia delle intercettazioni mi intriga poco. Il dato politico su D'Alema nonchè sulla dirigenza del futuro PD, per me è scontato da anni: dai tempi delle case comuni con Craxi ( padre, quelle con il figlio sono storia recente) e da prima, quando si chiudevano le riunioni dell'allora PCI invitando i compagni a comprare le azioni di Unipol "che anche noi guadagnamo con la borsa". I compagni compravano e , erano i tempi della Milano da bere e dell'Italia da mangiare, avevano l'illusione di essere nel giro, finalmente la settimana o la tre giorni bianca a Cortina d'Ampezzo, al caffè della posta a vedere Marta Marzotto centellinare il suo punch.
Questo, questo è il dato politico; la nostra politica ha avuto il suo modo essere comune a tutti i partiti, in particolare ai due maggiori e a quell'esagerato di Bettino che non aveva calcolato la fine degli equilibri, e che ne è stato travolto man non sommerso, prontamente salvato, una volta passata la piena e magari in effige, dai vecchi amici vicini e lontani.
Indigniamoci pure per queste intercettazioni e per le altre che seguiranno, gridiamo allo scandalo e dedichiamoci fior di trasmissioni televisive e intere risme di carta, resta il fatto che lo scafato Massimo ha messo le mani avanti parlando nei giorni scorsi di una 'crisi della politica' (dovuta in parte anche alla questione morale), e mettendo così in moto il meccanismo oliato della denunicia all'italiana. Attaccando per difendersi e proponendo per primo una 'seria riflessione' sulla crisi, si è garantito il ruolo di 'primo denuciatario' in modo da garantirsi quello di 'primo solutore', attraverso il percorso canonico dell' emergenza, del paventato caos, diluvio e torna berlusconi, per ritrovarsi fortificato dallo scandalo e dall'indignazione contro di lui medesimo.
In questa strategia potrà , lui lo sa bene, contare sulla collaborazione della destre, anche e sopratutto dal demonio in persona Berlusconi, che attraverso attacchi selvaggi dalle pagine del 'giornale', i sogghigni di Feltri e le imparzialità barocche di Mentana e Vespa; aiuteranno nella normalizzare attraverso il clamore, nel pilotaggio e l'uso dell'indignazione popolare, come da sempre , come, temo, per sempre in italia.
Vincerà ancora una volta la conservazione del potere e dello status quo, vincerà ancora una volta la geniale e insuperata prassi democristianComunista che ha voluto e mantenuto questo paese una palude tempestosa, spartendoselo e godendoselo. Raggelandolo in un limbo pseudo democratico che finisce per fagocitare se stesso, le sue possibilità e il suo futuro.
Quindi, D'alema per una volta fammi sognare, non ripetere i vecchi schemi, non ci ripresentare il copione: vattene, tu e i tuoi cortigiani, tu e la tua politica antica, tu e il tuo strategismo noioso e arrogante, fate un passo indietro e lasciateci la speranza di poter costruire un paese normale dove gli scandali scandalizzino e dove chi da scandalo se ne va, anche senza la macina al collo, a fare altro, altrove.

 

Inchiesta Woodcock - MASSONI DA DIO

Domenica 10 Giugno 2007 01:00 Rita Pennarola
Stampa PDF

Giugno 2007 – La Voce della Campania

Inchiesta Woodcock - MASSONI DA DIO

di Rita Pennarola



[Alla fine dell'articolo, alcune lettere pervenute in redazione]

Il pubblico ministero di Potenza John Woodcock chiede a 103 prefetti italiani di acquisire gli elenchi degli “incappucciati”. Ma intanto già nelle carte dell’inchiesta che aveva travolto Vittorio Emanuele spuntano piste che aprono scenari finora inediti. Ordini dinastici o clericali in forte odor di massoneria popolati da strani personaggi inquisiti per attività sovversive ed oggi nuovamente all’opera sotto copertura religiosa.

L’ultima volta che la connection fra Vaticano, massoneria e mafia aveva sconquassato assetti istituzionali e cronache giudiziarie fu ai tempi del crack del Banco Ambrosiano con la “eliminazione” di Roberto Calvi sotto il ponte dei Frati neri, a Londra. Oggi a ficcare il naso in quel maleodorante intreccio fra poteri deviati ci riprova il cocciuto magistrato britannico-partenopeo Henry John Woodcock, l’unico sfuggito (finora) a quei subitanei provvedimenti di “avocazione” o alle rituali pratiche d’insabbiamento che avevano bloccato quasi sul nascere analoghe inchieste, dalla Phoney Money di David Monti ad Aosta (con il coraggioso inquirente trasferito in Toscana ad occuparsi di più tranquille vicende) o la vicenda Cheque to Cheque: un pentolone di malaffari tra alti prelati, traffico di armi e boss in odor di affiliazione scoperchiato qualche anno fa dalla Procura di Torre Annunziata e in poco tempo svaporato nel porto delle nebbie. Senza contare che il vero predecessore di Woodcock era stato proprio l’ex procuratore capo di Napoli Agostino Cordova, che fece acquisire elenchi di affiliati alle logge massoniche dalle procure di tutta italia: faldoni che ancora oggi ammuffiscono nei depositi del palazzo di giustizia romano, dopo l’archiviazione disposta all’epoca dal giudice della capitale Augusta Iannini, fra l’altro moglie del giornalista Rai Bruno Vespa.

Ma che cosa ha potuto far riaprire oggi quello scottante capitolo, al punto da indurre il pubblico ministero potentino a chiedere ai 103 prefetti italiani di acquisire gli elenchi degli insospettabili in grembiulino? E cosa riservano di nuovo i filoni sui rapporti fra massoni deviati e le segrete stanze d’oltre Tevere esistenti nei fascicoli all’attenzione di Woodcock? La Voce , che per prima nel 1992 aveva pubblicato gli elenchi dei massoni della Campania e, qualche anno dopo, quelli dei principali affiliati all’Opus Dei e alla Augustissima Arciconfraternita del Pellegrini, prova a partire proprio da acuni nomi presenti nell’inchiesta potentina per seguire le fila che conducono ad alcuni inediti scenari.

Cominciamo da monsignor Francesco Camaldo, controverso cerimoniere vaticano coinvolto nell’indagine che un anno fa aveva portato dietro le sbarre Vittorio Emanuele di Savoia. 55 anni, originario di Lagonegro così come l’ex arcivescovo di Napoli Michele Giordano, col quale ha avuto a lungo comunione d’intenti, secondo l’accusa formulata dalla procura potentina che lo ha iscritto nel registro degli indagati, Camaldo avrebbe chiesto al faccendiere Massimo Pizza di oscurare il sito internet www.pravdanews.com, che conteneva notizie sgradite ai Savoia, con i quali il monsignore ammette d’aver intrattenuto solidi rapporti d’amicizia. Dello stesso reato è accusato anche Emanuele Filiberto: le notizie indigeste a suo padre riguardavano l’Ordine dinastico di casa Savoia, quello dei Santi Maurizio e Lazzaro. Quel sito, di fatto, è sparito dal web e non ne esistono a tutt’oggi tracce.

Entrano così in scena i più ingombranti protagonisti del milieu massonico criminale su cui sta cercando di far luce la magistratura. Un parterre condito di altisonanti cerimonie, ridondanti titoli cavallereschi, oscure affiliazioni e, probabilmente, un sottobosco di affari illeciti. Il tutto con la copertura, non sempre involontaria, di esponenti delle alte sfere vaticane e, come vedremo, anche di qualche grossa personalità della cultura internazionale. Il nome di monsignor Camaldo risuonava nelle stanze della Procura di Potenza già diversi mesi prima dell’ordine di custodia cautelare per sua altezza. A rivelare il particolare è l’agenzia Adista in un articolo a firma di Luca Kocci: «allora il cerimoniere del papa era solamente stato interrogato dal pm Woodcock nell’ambito di un’indagine per una maxi-truffa ai danni di diversi imprenditori italiani architettata da Massimo Pizza. Era stato lo stesso Pizza a tirare in ballo monsignor Camaldo, sostenendo davanti agli inquirenti di avere con lui uno “scambio fruttuoso di notizie" e dichiarando che il prelato si sarebbe mosso “per distruggere” una loggia massonica avversaria». E proprio le indagini su Pizza avevano consentito ai magistrati potentini di avviare l’inchiesta che ha travolto i Savoia.

Decano dei cerimonieri pontifici, in prima fila alle esequie di Giovanni Paolo II e da sempre vicinissimo al suo successore Joseph Ratzinger (che qualche anno fa addirittura gli telefonò, in occasione del suo compleanno, durante i festeggiamenti a casa della madre Irma), Camaldo è finito nelle “grinfie” di Dagospia per le sue frequentazioni mondane, ad esempio in occasione della mega festa in maschera organizzata dallo stilista Gay Mattiolo, che passa per essere suo ottimo amico. «Ma soprattutto - ricostruisce Kocci - Camaldo è stato il “regista” della visita dei Savoia in Vaticano, il 23 dicembre 2002, appena decaduto il divieto di ingresso in Italia per i “reali”; ha aiutato Emanuele Filiberto ad organizzare il suo matrimonio con Clotilde Courau, celebrato dal cardinale Pio Laghi nella basilica di Santa Maria degli Angeli, a Roma, nel settembre 2003; ha concelebrato il battesimo della figlia di Emanuele Filiberto, Vittoria Chiara, nella basilica inferiore di san Francesco, ad Assisi, a maggio 2004; ed è grande amico di Vittorio Emanuele, come ha spiegato Pizza ai magistrati di Potenza: l’erede al trono “è stato ospite a casa sua nell’appartamento di San Giovanni Laterano”». Trait d’union fra le due alte sfere - il Vaticano e Casa Savoia - potrebbero essere i due ordini religiosi che vedono rispettivamente in campo monsignor Camaldo e Vittorio Emanuele.

ORDINE, GENTE...

La Gran Cancelleria dell’Ordine al Merito di San Giuseppe, che vede tra gli affiliati monsignor Francesco Camaldo nel ruolo di “cavaliere ufficiale”, vanta ascendenti nel granducato di Lorena Asburgo: Gran Maestro è infatti «S. A. I. & R. (sua altezza imperiale e reale, ndr) Arciduca Sigismondo d'Asburgo Lorena Toscana, Gran duca titolare di Toscana, Arciduca d'Austria, Principe reale di Ungheria e di Boemia». Poi, subito, la prima scoperta. Chi troviamo nella pomposa lista dei “commendatori”? Nientemeno che il «Gen. Dott. Amos Spiazzi di Corte Regia», al secolo, quello stesso neofascista definito dal giudice Felice Casson «un convinto e irriducibile cospiratore» ed arrestato nel 1974 per il golpe della “Rosa dei venti”, organizzato in ambienti militari di estrema destra, compresi Ordine Nuovo e i servizi segreti sia italiani che di alcuni paesi della Nato. Condannato a 5 anni di reclusione, nel 1984 fu assolto in appello. Analogo esito aveva subito la condanna all’ergastolo per la strage della questura di Milano. Non appena riabilitato, il camerata Spiazzi, che si proclama “vittima” della malagiustizia italiana, nel 2002 ha fondato i “Fasci del lavoro” in provincia di Mantova. E si dà da fare, oltre che nell’Ordine di San Giuseppe, anche nell’altra corazzata dai contorni massonici, le Guardie d’onore di Napoleone: un consesso “nobiliare” che rilascia titoli accademici, baronie e marchesati compresi, a coloro che si iscrivono ai corsi per body guard e mercenari organizzati dalle società di Giacomo Spartaco Bertoletti, uno dei formatori di Fabrizio Quattrocchi.

Ma ben altri vip popolano le auguste stanze dell’Ordine di San Giuseppe. Gran Cancelliere (praticamente il numero 2, dopo il sovrano d’Asburgo) è «Marchese Cav. Gr. Cr. Vittorio Pancrazi», ex vertice del Banco Ambrosiano (poi capo dell’ufficio fidi alla Comit di Firenze), da qualche anno riconvertito al ruolo di vinicultore nella sua tenuta di Bagnolo a Montemurlo, vicino Prato. Eccoci al notabile numero 3, il vice gran cancelliere «Marchese Gr. Cr. Dott. Don Domenico Serlupi Crescenzi Ottoboni», formidabile trait d’union fra l’Ordine di San Giuseppe e i confratelli del Sacro Militare Costantiniano Ordine di San Giorgio, armati di cappa e spada per difendere i “valori” delle crociate attraverso il loro Gran Maestro Carlo di Borbone.

Ai valori terreni provvedono altri confratelli di monsignor Camaldo, come il membro delle commissioni tributarie Francesco d'Ayala Valva, o il presidente della Cassa di Risparmio di Firenze Aureliano Benedetti, in questi giorni impegnato nella contrastata fusione del suo istituto di credito con Banca Intesa; si divide invece fra onorificenze e business umanitario il «Grande Ufficiale Comm. Cav. Lav. Flaminio Farnesi», governatore di quella Arciconfraternita della Misericordia e del Crocione di Pisa titolare di una convenzione con la locale Asl per il servizio di ambulanze.

Non mancano, nell’Ordine di San Giuseppe, nomi di spicco della politica (i presidenti della Regione Toscana Claudio Martini e del consiglio regionale Riccardo Nencini), e della cultura. Se nel primo caso potrebbe trattarsi d’una iscrizione rituale e, in qualche modo, dovuta, niente permette di escludere che sia più che convinta l’adesione di due intellettuali come il filosofo siciliano Francesco Adorno e soprattutto il medievalista Franco Cardini, ex membro del consiglio d’amministrazione Rai, entrambi nominati “Cavalieri” dell’Ordine. Un passato in politica vanta invece l’ex duro e puro della Lega Nord Alberto Lembo, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine di San Giuseppe, eletto la prima volta al senato con la casacca di Umberto Bossi, poi un passaggio in An e infine, dopo lo schiaffo dell’esclusione dalle candidature 2006, fondatore di una sigla monarchica fai da te. Altri confratelli “eccellenti” di monsignor Camaldo nell’Ordine di San Giuseppe sono poi un prelato del calibro del cardinale tedesco Augusto Meyer, a lungo presidente del Pontificio Consiglio "Ecclesia Dei", e monsignor Alberto Vallini, assistente ecclesiastico della “Primaria Associazione Cattolica”. Tra i civili di sangue blu, anche il cavaliere Giuseppe Pucci Cipriani, artefice ogni anno di un raduno a Civitella del Tronto durante il quale, vagheggiando il ritorno del papa re, si fa in quattro per favorire le nozze fra i leghisti di Mario Borghezio e i ruspanti neoborbonici partenopei. Ma di Pucci Cipriani si ricordano soprattutto l’amicizia con il commissario Luigi Calabresi, ucciso dalle Br, e le successive frequentazioni con l’omicida pentito Leonardo Marino.

ADDA VENI’ PELLICCIONI

Dulcis in fundo, fra cavalieri, croci e gran maestri dell’Ordine di San Giuseppe, fino a poco tempo fa si aggirava anche il massone conclamato Luciano Pelliccioni, il cui nome risulta ora scomparso dalle liste. Di Pelliccioni si era occupato per la prima volta a fine anni ottanta il magistrato torinese Lorenzo Poggi nell’ambito di un procedimento penale per associazione a delinquere finalizzata «alla confezione e distribuzione di diplomi di laurea privi di valore legale recanti timbri Cee contraffatti», che vedeva fra gli indagati anche il fondatore del Parlamento Mondiale di Palermo, “Sua Beatitudine Viktor Busà”, descritto come personaggio «in rapporti col massone di spicco della circoscrizione Sud Usa, il principe Alliata di Monreale». «Busà - si legge in una consulenza resa all’epoca da esperti della Procura piemontese - risulta essere collegato anche al Sovrano Militare Ospedaliero Ordine di San Giorgio in Carinzia attraverso il suo Gran Maestro, Luciano Pelliccioni. Di quest’ordine si era interessato il giudice Giovanni Tamburino all’epoca dell’inchiesta padovana sull’organizzazione eversiva “Rosa dei Venti”».

BARBACCIA CONTRO YASMIN

Che ci faceva l’incappucciato Pelliccioni nell’Ordine di San Giuseppe? Il suo nome, di sicuro, riporta a un’altra disputa dinastica dagli accentuati contorni massonici: quella in atto fra la autoproclamatasi «Yasmin Hohenstaufen, Sovrana Suprema del Supremo Consiglio del Mondo di tutti gli Ordini e Riti Massonici», e il presunto «Principe Paolo Francesco Barbaccia degli Hohenstaufen di Svevia». Fra i due “nobili”, da tempo, volano gli stracci. Stando al velenoso scambio di accuse, la prima altro non sarebbe che l’umile Aprile Gelsomina originaria di Vallo di Briano, un paesino in provincia di Caserta; il secondo proverrebbe invece dalla famiglia siciliana di quell’onorevole democristiano Francesco Barbaccia arrestato ad aprile 1993 per associazione mafiosa. «Buscetta - si legge negli atti del processo a Giulio Andreotti - ha riferito che la carriera politica del Barbaccia è stata costruita con l’appoggio di Cosa Nostra». Dall’alto delle sue esperienze “illuminate”, nel libro intitolato “I falsi re di Svevia” Pelliccioni aveva stroncato le velleità nobiliari di Barbaccia. E quest’ultimo tiene a spiegare il perchè: «nel 1981 tramite un personaggio di Poggibonsi conobbi il signor Luciano Pelliccioni che mi ha conferito il diploma di Cavaliere dell’Ordine di San Giorgio in Carinzia. Entrando negli dettagli e venendo a conoscenza delle informazioni compromettenti su Pelliccioni e sul suo “Ordine”, rifiutai la sua proposta di “nobilizzarmi” per 50 milioni di lire. Tutto questo ha fatto sì che Pelliccioni mi abbia inserito nel suo libro, vendicandosi a modo suo». Solo folklore? Le pruderie nobiliari di quattro buontemponi nostalgici? Oppure, come spesso è accaduto, attraverso queste farsesche disfide sono ancora una volta loro, i massoni (vaticani e non) a scrivere le pagine della storia? E’ molto probabilmente su una di queste piste che sta lavorando Woodcock, al quale il sedicente agente del Sismi Massimo Pizza, nome in codice “Polifemo”, aveva rivelato che Camaldo era l’uomo dal quale «i politici lucani andavano a lamentarsi terrorizzati da alcune inchieste che li coinvolgono». Il monsignore si sarebbe adoperato poi «per distruggere» una loggia massonica, «che può togliere seguaci e può distogliere soprattutto soldi e capitali da un’altra loggia massonica». Di sicuro la vendita di onorificenze, titoli nobiliari e diplomi - che per i magistrati puzza di truffa - resta ancora un buon affare. Un “pacco” al quale tanti non sanno resistere. Nell’elenco dei “Cavalieri di Federico II” nominati da Barbaccia figurerebbero tra gli altri il presunto “Presidente dell’Associazione Italiana Tabaccai” Salvatore Coco, “Duca di Caltabellotta”, il «Cav. Carmelo Brunetto», bolognese, di professione promotore pubblicitario, nonchè i neoborbonici napoletani «Cav. Salvatore Lanza e Comm. Dott. Pietro Funari», nominato sul campo «coordinatore Napoli I».

PER CHI SUONA LA CAMPANA (dei Savoia)

Mi trovavo in un paesino vicino a Como per consegnare una campana dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Si è avvicinato un tizio in jeans, mi ha mostrato una targhetta: “Sono della polizia. Deve seguirci, qui c'è pericolo per la sua sicurezza”. Quindi mi hanno caricato in una piccola Punto per un interminabile viaggio. Dodici ore e mille chilometri fino a Potenza. Non sapevo cosa stesse accadendo, non sapevo dove mi stavano portando...». Consegne a domicilio, per gadget ed altri oggetti nobiliari che si possono acquistare attraverso il piccolo market che sua altezza Vittorio Emanuele di Savoia, evidentemente provato dai business miliardari che lo avevano portato dietro le sbarre, ha messo su attraverso il sito www.disavoia.org. Pagamenti personalizzati per chiunque non sappia rinunciare ad avere in casa un prezioso “souvenir”. Per il Supremo Ordine della Santissima Annunziata si può scegliere fra collane, spille e medaglie di ogni dimensione, mentre un’ampia gamma di croci e crocette potrà decorare il petto dei fedelissimi all’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro.

«E’ una vergogna - tuona indignata Maria Gabriella di Savoia - che Vittorio Emanuele con la complicità di sua moglie, e di suo figlio Emanuele Filiberto abbia introdotto una quota associativa, attività come la vendita di oggetti con lo scudo sabaudo e la carta di credito dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro». Ma intanto è proprio su compagini come questa che si starebbero appuntando le ricerche della Procura potentina sui rapporti fra Vaticano e massonerie deviate. Quartier generale dell’Ordine - presieduto da Vittorio Emanuele, gran cancelliere suo figlio Emanuele Filiberto - è Chemin du Vieux Vésenaz, un villaggio per miliardari sul lago di Ginevra. Tra gli affiliati spiccano due personalità del Parlamento europeo. Il primo è l’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini, eletto nelle fila di Forza Italia. Albertini, che a Strasburgo riveste l’incarico di vicepresidente della commissione trasporti e turismo ed è membro della commissione per i problemi economici e monetari, ha un debole per le onorificenze: risulta infatti anche «Croce d'argento al merito dell'Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme; Croce di Grand'Ufficiale dell’Ordine al Merito melitense; Commendatore al merito del Sacro militare Ordine costantiniano di San Giorgio». Con Alleanza Nazionale è stata eletta invece a Strasburgo Cristiana Muscardini, un’antica militanza nel Msi, che può vantare la carica di «Commendatore dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro». Vicepresidente della Commissione per il commercio internazionale, Muscardini rappresenta la repubblica italiana anche nella delegazione parlamentare UE-Kazakistan ed UE-Kirghizistan. Non scherza neanche il consigliere comunale di Bologna Niccolò Rocco di Torrepadula, per gli avversari politici “Rocco di mamma”, ma per il suo nume tutelare Vittorio Emanuele «Comm. Nob. Don Niccoló Rocco dei P.pi di Torrepadula» e, in quanto tale, proclamato delegato per l’Emilia Romagna dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Resosi famoso soprattutto per l’indefesso attivismo nel celebrare matrimoni, il “principe” Niccolò discende da quella stessa casata napoletana che ha dato i natali a numerosi avvocati del foro partenopeo, tutti, a quanto pare, assai devoti. E’ il caso dei penalisti Marco e Piero Rocco di Torrepadula, entrambi affiliati all’Augustissima Arciconfraternita dei Pellegrini, che vede uniti nel segno della stessa fede anche alti magistrati, elevate sfere ecclesiastiche, famosi medici e grossi calibri dell’esercito italiano. Amen.


DA PIZZA A SCARAMELLA

Il testimone chiave dell’inchiesta di Woodcock Massimo Pizza è amministratore unico di una srl romana, la Morris , letteralmente sparita dai registri della Camera di Commercio. Inesistente nelle ricerche sull’azionariato, risulta come «Posizione sospesa per revisione archivio (progetto 15/11/99)» quando si prova ad identificarne la sede, gli altri amministratori, il capitale o lo scopo sociale, come per qualsiasi altra impresa. Potenza di un uomo che si è autoproclamato generale del Sismi, plenipotenziario italiano per la Somalia , depositario di segreti di Stato come quelli su Ustica o sull’assassinio di Ilaria Alpi, ma che le cronache giudiziarie hanno definito un anno fa, al momento dell’arresto, come «autista di Vittorio Emanuele». Qualche stranezza, comunque, la presenta anche l’altra sigla che vede il cinquentenne salernitano Pizza come amministratore. Si tratta della snc denominata, senza troppa fantasia, New Pizza, fondata a Roma nel ‘91 e dedita ufficialmente al commercio di materiale cinematografico. Socio di Pizza è il quarantaseienne Maurizio Primavera, residente nella capitale ma originario di Sassano, provincia di Isernia. Uomo di multiformi interessi, da cineprese e pellicole Primavera passa con disinvoltura a coltivare il business delle crociere marittime a bordo della sua Marlin One, una srl fondata a Frosinone ma con sede a Roma ed attiva in quel di Chioggia, dove si propone per battute di pesca, escursioni, esplorazioni turistiche o subacquee lungo la laguna. Un personaggio mai balzato agli onori delle cronache e di cui risulta difficile capire, quindi, quali interessi possa tuttora avere in comune col socio faccendiere Massimo Pizza.

Nessun dubbio, invece, sull’idem sentire fra quest’ultimo e il contestatissimo leader dei musulmani filoisraeliani italiani Massimo Palazzi, arrestato nella retata dello scorso anno a Potenza così come Antonio D'Andrea. Tanto quest’ultimo quanto lo stesso Pizza erano infatti vicepresidenti dell'AMI, alla cui guida siede appunto il “Dott. Prof. Mawlana Shaykh Abdul Hadi Palazzi Abu Omar al-Shafi'i, Gran Cancelliere dell’Ordine e Gran Precettore per la lingua italiana del Supremo Ordine Salomonico dei Principi del Shekal”. Cioè proprio lui, il romano de Roma Massimo Palazzi, in forte allure di massoneria. Della AMI e di Palazzi (nella cui orbita rientrano i giornalisti Dimitri Buffa del Giornale e soprattutto Magdi Allam, vicedirettore del Corriere della Sera) la Voce si era occupata qualche mese fa in un’inchiesta sull’altro millantatore “di stato” Mario Scaramella. Ad un convegno organizzato a Capua nel 2002 dalla Ecpp, la sigla “ecologista” del presunto 007 partenopeo, fra personalità di primo piano della magistratura come il pm palermitano Lorenzo Matassa, il giudice di Cassazione Amedeo Castiglione e l’attuale superispettore di via Arenula Arcibaldo Miller (parente acquisito di Scaramella), spiccava anche la partecipazione di Dimitri Buffa per conto della sigla musulmana messa su da Palazzi. Ecco la nota d’agenzia sull’evento: «Nel periodo dal 5 al 9 novembre il prof. Mario Scaramella, segretario generale dell’Environmental Crime Prevention Program (Ecpp) ha invitato una delegazione dell’A.M.I. e dell’Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana formata dal presidente Ali Hussen (Massimo Palazzi, ndr), dal responsabile del dipartimento per l’Asia Farid Naimi Khan e dal giornalista Dimitri Buffa a partecipare al simposio internazionale su "Tecnologie spaziali e sicurezza dell’ambiente", organizzato dalla Sezione Affari scientifici della Nato e dall’Ecpp presso il Centro Italiano di Ricerche Aerospaziali (Cira) di Capua. «Nell’inchiesta potentina - sottolineava la Voce a dicembre 2006 - sono documentati vorticosi giri milionari, a bordo di alcune sigle condivise con alcuni compagni di merende: oltre ad Achille De Luca, anche Massimo Pizza e Antonio D’Andrea, i quali si vantano di essere stati agenti dell’Ufficio K del Sismi. Ma cosa ha architettato il quartetto? Una truffa milionaria ai danni di migliaia di risparmiatori, vendendo sul mercato i soliti prodotti-bidone, tramite tre società civetta, Fave, Bezenet e Ivatt Industries. E dove “volavano” i proventi truffaldini? Nei paradisi fiscali, naturalmente, via sigle off shore, approdando vuoi a Montecarlo, vuoi a Miami. Appunto, nella ricca Florida dove spunta la Ecpp di Scaramella».



Alcune lettere pervenute dopo l'uscita dell'articolo.

Dopo una telefonata di irriferibili insulti in redazione da parte di una sedicente portavoce, la “principessa” Yasmine ritrova il suo aplomb e invia una richiesta di rettifica in merito all’inchiesta di giugno. Nel pezzo, che è sotto gli occhi dei lettori, ci siamo limitati a ricordare che il massone conclamato Luciano Pelliccioni si è occupato in un suo libro della assai poco regale disputa fra il “principe” Paolo Francesco Barbaccia e la stessa Yasmine (chi ne ha il coraggio può dare un’occhiata al blog http://obi-wan.kenobi.it/fun_news/archives/001119.html, ma anche al sito di sua altezza www.federicostupormundi.it), prendendo le parti di quest’ultima. Avremmo voluto risparmiare alla signorina Aprile la pubblicazione di questa sua missiva, ma insiste. Ecco allora la parte centrale.

"ll nome della prof dr. Yasmin Gelsomina Aprile di burey anjou ou Avril de Saint Genis von Hohenstaufen Puoti di Canmore e' quello di una principessa in quanto diretta discendente del figlio di Federico II ed Isabella d'Inghilterra del ramo provenzale Avril de Burey Anjou Plantagenet de Saint Genis. La principessa e' altresi una diretta discendente di Re Desiderio, in quanto pronipote del Principe Poto, figlio di Re Adelchi e Capostipite dei Puoti. E' semplicemente Sovrana del Legittimo scozzesismo in virtu' di un diritto agalmonico e genetico-dinastico. Non ha alcun rapporto con la Massoneria Italiana che non ha mai voluto riconoscere o legittimare. E' giornalista, gia' Presidente per 15 anni della multinazionale Reader's Digest, docente di corsi post un. per 20 anni columnist alla stampa di Torino Rai , Nbc. Storico, scrittrice , autrice di saggi sul management, drammaturga, si occupa di diritti umani, ha fondato l'Ucle Ucert. E' nato nel Palazzo del Principe marchese Francesco Puoti medico chirurgo, suo bisnonno.Rettifichiamo che non e' nata a Valle di Briano ma a Villa di Briano. Per quanto riguarda le pretese dei cosidetti falsi re di Svevia, la fondazione ha preso le distanze, con diffida come si evince dal sito ww.federicostupormundi.it www.hohenstaufen.org.uk www.geocities.com/k_hohenstaufen Nulla ha da dividere con la realta' italiana cui e' assolutamente estranea. Non deve niente a nessuno e non ha mai chiesto nulla a nessuno!".

In maniera molto più urbana ci scrive anche Massimo Pizza, inquisito numero uno nell’inchiesta di Potenza. Pizza parla però di “notizie false che mi riguardano”. Le notizie, come vedremo di qui ad un attimo, false non sono affatto. «L'autore dell'articolo, che firma Rita Pennarola – scrive testualmente Pizza - afferma che esiste un legame tra il sottoscritto e il Sig. Scaramella. A tale proposito, la Invito a prendere atto ed a pubblicare con le stesse modalita' con le quali la notizia mendace e' stata diffusa, da un lato, che il sottoscritto non conosce il Sig. Scaramella e che non ha mai partecipato a convegni organizzati dal fantomatico ECPP».

Qui finisce la lettera. Ancora una volta, signor Pizza, rilegga il pezzo: non abbiamo scritto che c'è un legame fra lei e Scaramella né che lei ha partecipato al convegno di Capua. Nel pezzo viene riportata la partecipazione a quel “summit” di esponenti dell’A.M.I., la sigla di cui lei è stato vicepresidente. Persone, quindi, a lei ben conosciute e vicine. Tutto qui. La notizia, fra l’altro, è ancora presente sul vostro sito .

Ci ha telefonato infine l’altro vicepresidente dell’AMI, Antonio D’Andrea, stavolta senza spiegare il motivo della sua doglianza, ma solo per preannunciare una eventuale querela. Anche a lui rispondiamo che esistono – com’è ovvio e doveroso – documenti a supporto delle cose che scriviamo. Per tutto il resto, il compito è della magistratura. Alla quale – com’è altrettanto doveroso – trasmettiamo di regola il contenuto del nostro lavoro giornalistico.

 

Lo Sviluppatore immobiliare e la maledizione dei furbetti

Lunedì 14 Maggio 2007 01:00 Alberto Statera
Stampa PDF

14.05.2007 - Kataweb - Oltre il giardino

Lo Sviluppatore immobiliare e la maledizione dei furbetti

di Alberto Statera (Affari&Finanza)

Luigi Zunino, mentre Stefano Ricucci e Danilo Coppola subivano l'onta del carcere, ha continuato a portare avanti i suoi progetti di riqualificazione urbanistic

Né palazzinaro, né immobiliarista, né finanzieremattonaro, ma "sviluppatore immobiliare". Così, noblesse oblige, si autodefinisce Luigi Zunino, dal 2003 il più giovane Cavaliere del lavoro d'Italia. Mentre i suoi colleghi furbetti Stefano Ricucci e Danilo Coppola subivano l'onta del carcere, lo "sviluppatore" continuava a veleggiare garrulo tra i suoi progetti di riqualificazione urbanistica, "i più ambiziosi mai visti in Italia nel dopoguerra". Progetti che dovrebbero cambiare la skyline di Milano, con le firme nientemeno che di Norman Foster e di Renzo Piano.

Ma anche per Zunino, già indagato per aggiotaggio nella vicenda della scalata dei furbetti all'Antonveneta e al cielo del capitalismo, sembra che ora la fortuna stia girando, visto che a Torino è appena stato rinviato a giudizio, accusato di tentata truffa alla Regione Piemonte per l'operazione di compravendita dell'area ex Fiat Avio di Via Nizza, adiacente al Lingotto. "Berlusconi-ha detto benevolo Zunino dell'illustre predecessore palazzinaro parlando dei suoi progetti milanesi- vendeva sicurezza a una borghesia milanese spaventata dagli anni di piombo. Noi vendiamo un investimento e uno stile di vita ai manager internazionali". Per la verità, non più di tre lustri fa, l'odierno "sviluppatore immobiliare", quarantottenne originario di Nizza Monferrato, comprava e vendeva cavalli e risultava un viticultore iscritto alla Cgil Agricoltura. Mai ha spiegato in seguito come in pochi anni si sia ritrovato con un patrimonio stimato in cinque miliardi di euro, con una selva di società e una partecipazione del 3 per cento in Mediobanca, che ne hanno fatto uno dei nuovi potenti milanesi.

Quanto agli "stili di vita" che intende insegnare ai manager internazionali, Zunino è un maestro, visto che nel Monferrato produce "uno dei dieci Barbera migliori del mondo", nell'isola di Cavallo ha una villa strepitosa, a Sankt Moritz possiede il mitico Badrutt's Palace e nel senese " La Campana ", una tenuta di un migliaio di ettari, dove festeggia i compleanni con gli amici più cari, come quel campione di stile che è Vittorio Emanuele di Savoia, con Ubaldo Livolsi e Gianni Varasi, che di disastri finanziari ha discrete pregresse esperienze.

Ciò pare non gli abbia alienato le amicizie di sinistra, che si dice l'abbiano aiutato nel 1999 quando acquistò dalla Banca d'Italia Risanamento Napoli, proprietaria di cinquemila appartamenti, pagando 490 miliardi di lire, contro gli 821 di stima. Poi il tandem con Coppola, che lo presentò a Gianpiero Fiorani, in un vortice di vendite, di acquisti, di rivendite e di riacquisti come la società quotata Ipi e una parte dell'area ex Falck di Sesto San Giovanni e di raid in Borsa, fino alla disgraziata scalata all'Antonveneta, in una bolla senza fine. Vicende che non l'hanno espulso dalla cerchia dei nuovi oligarchi di Milano, come li ha chiamati Curzio Maltese.

La "città nella città" di Santa Giulia progettata da Foster, quattro chilometri dal Duomo, attaccata all'aeroporto di Linate, 35 ettari di parco, grattacieli di vetro, alberghi, appartamenti con pavimenti da 500 euro al metro quadrato, va avanti, pur se non con i tempi previsti. Sono partiti i lavori per la sede di Sky, ma, nonostante il finanziamento di 700 milioni di euro di IntesaSan Paolo, non si avvia la costruzione delle residenze di lusso che conterranno i nuovi stili di vita dei manager internazionali.
Per il Museo d'arte contemporanea, che l'assessore Vittorio Sgarbi avrebbe voluto collocare nell'ex area Falck di Sesto San Giovanni o in un immobile di Zunino a San Babila, ha prevalso la scelta di Letizia Moratti per l'area ex Fiera di Ligresti e Generali. Ora il rinvio a giudizio di Torino per una delle tante compravendite che si sospettano artificiosamente gonfiate.
La maledizione dei furbetti grava ancora sulla testa del Cavalier Luigi Zunino, "sviluppatore immobiliare".

 

Coppola , il mago della plusvalenza nella Bolla del Lingotto

Venerdì 02 Marzo 2007 01:00 La Stampa
Stampa PDF

02.03.2007 - La Stampa

Coppola , il mago della plusvalenza nella Bolla del Lingotto
L’immobiliarista nel salotto buono della finanza torinese. Il sindaco:
"Si defilò subito quando gli chiesi di comprare il Toro in difficoltà"


di ALBERTO GAINO



Nella sede di Ipi, al Lingotto, dicono che la vita continua, che l’azienda è sana e il management è rimasto in gran parte quello storico, di scuola torinese. Le pessime notizie sul presidente, «il dottor Danilo Coppola», come lo evoca la responsabile delle comunicazioni, Rita Antelmi, in Ipi dal 1973, hanno ammutolito dirigenti e impiegati. Ai cronisti, fuori della porta, è stata data in pasto l’Antelmi. Figura adatta per rivendicare la sobrietà sabauda del gruppo immobiliare. «La prossima settimana siamo a Cannes, ad uno dei più importanti meeting immobiliari europei», è il segno della continuità che si vuol dare, nonostante Coppola e i 3,8 milioni di azioni Ipi sequestratigli ieri.

Il sindaco, come altri torinesi doc, ha ricordi sfuggenti del personaggio: «Gli telefonai quando ero alla disperata ricerca di azionisti per il Torino Calcio. Si sfilò subito. L’ho poi visto più di recente, quando accompagnato da Massimo Segre, venne da me per comunicarmi che aveva trasferito le sedi delle sue società in città. Lo ringraziai per i ritorni fiscali che avremmo avuto». Per Sergio Chiamparino non sarebbe serio far scorrere le impressioni «adesso che è caduto nella polvere». E’ solo tentato da un ritrattino innocente: «Con quei capelli a caschetto, sembrava il fidanzatino di Peinet».

Coppola viene invece dalla sterminata periferia sud-est di Roma e per il solo fatto di essere un self made man sedutosi, l’anno scorso, su un patrimonio dichiarato di 3500 milioni di euro verrebbe da identificarlo nel sogno americano del signor nessuno che diventa miliardario. Però quanti se e ma hanno accompagnato la «resistibile ascesa» del signor Coppola, personaggio brechtiano anche nel milieu di cui si è circondato e che, appena «conquistato» l’ultimo piano del Lingotto, con i 48 mila metri quadri di uffici concessi in affitto, i 4200 parcheggi, Le Meridien e un altro grande albergo, si è fatto immediatamente fotografare sotto il trofeo della Bolla, simbolo del capitalismo familiare che non si arresta. Lui cui il combattivo settimanale « la Voce della Campania», con bell’anticipo, aveva rifilato il soprannome di Er Cash all’ingresso nei salotti buoni della finanza.

Quella foto sulla «vetta» del Lingotto era il suo nuovo biglietto da visita: sono arrivato anch’io, ho comprato il 4.57 di Mediobanca, quasi 3 milioni di azioni di Banca Intermobiliare, guardatemi. Storia dell’altro ieri: in Mediobanca Coppola è sceso al 2 per cento. Storia di ieri: la Guardia di Finanza gli ha sequestrato anche 2 milioni e 800 mila azioni di Bim, in virtù delle quali Coppola si è seduto nel cda nella banca creata dai Segre e tempio della finanza torinese. Violato il 15 febbraio da un altro reparto della Gdf per perquisire Finpaco, finanziaria di controllo di Coppola spostata a Torino, nello studio Segre di via Valeggio, nel novembre scorso.

Suo figlio Massimo e l’amministratore delegato di Bim, Pietro d’Aguì, avevano seguito Coppola nel cda di Ipi spa e per questo loro ruolo sono stati iscritti con il presidente nel registro degli indagati dai pm Giancarlo Avenati Bassi e Marco Gianoglio per i reati di aggiottaggio informativo e manipolativo e di false comunicazioni sociali. Accuse di cui rispondono anche gli altri consiglieri (fra cui il torinese Giuseppe Gatto) e i tre sindaci della spa.

Torinesizzando Finpaco, Coppola non intendeva essere di passaggio in città. Da un altro piemontese, l’immobiliarista Luigi Zunino, aveva acquistato i due terzi di Ipi due anni fa. Qui voleva mettere radici nuove? A Torino ha importato certa finanza creativa, facendo brillare a marzo 2006 i bilanci della sua quotata in Borsa con un paio di operazioni di lease back: rilevati dal solito Zunino 12 immobili ex Enel per 293 milioni di euro, ne cede 3 a Banca Italease (controllata dalla Popolare di Lodi di Fiorani, poi Bpi). Nel giro di poche ore spunta miracolosamente una plusvalenza di 23,4 milioni. In cambio accende un contratto quindicennale di leasing che, a fine dicembre 2005 - terza operazione - gira a tre società di diritto lussemburghese del Renar Investment Fund costituito dalla luganese Banca Arner. «Como re», «Firenze re» e «Palermo re» riscuotono l’affitto degli immobili ma dove trovano i mezzi per pagare i canoni del leasing di 123 milioni? L’idea dei pm torinesi è che dietro ci sia lui, Coppola, abile a scaricare quella montagna di denaro dai propri costi e a inserire nel bilancio 2005 solo la plusvalenza. Con un’altra operazione gemella, questa volta infragruppo, il vertice di Ipi spa potè presentare un attivo di 300 milioni. Comunicazione alla Borsa, titolo che schizzò del 30 per cento.

In procura non replicano alle critiche dei colleghi romani sull’«intempestività» delle perquisizioni di febbraio. Decise in realtà perché il lease back era stato ripetuto nel 2006 con altri immobili ex Enel, finanziamenti Italease e leasing girato a Multicity del solito fondo. Evidente l’obiettivo: bloccare l’eventuale maquillage del bilancio in corso di preparazione. Per il resto, con Coppola in carcere, le convocazioni dei testimoni potrebbero essere più fruttuose. E’ già stato sentito Carlo Camperio Ciani, gestore delle tre società del fondo Renar. Nei prossimi giorni potrebbe toccare a Nicola Bravetti, al vertice di Banca Arner. E dopo a Coppola. «In carcere». Ma dopo aver preso accordi con i pm romani.

 

 

Danilo Coppola arrestato a Roma

Venerdì 02 Marzo 2007 01:00 Il Sole 24 ore
Stampa PDF

02.03.2007 – Il Sole 24 ore

Danilo Coppola arrestato a Roma

di Vincenzo Chierchia


MILANO
L'immobiliarista romano Danilo Coppola (già indagato a Milano per la vicenda Antonveneta) è finito ieri mattina in manette, e trasferito dalla villa di Grottaferrata (Roma) al carcere di Regina Coeli, dove, in serata, avrebbe anche accusato malori da panico. L'ordine di custodia cautelare per Coppola, e per altre sette persone a lui molto vicine ( Daniela Candeloro, Luca Necci, Francesco Bellocchi che è stato cognato di Stefano Ricucci, Alfonso Ciccaglione, Giancarlo Tumino, Gaetano Bolognese e Andrea Raccis, che però risulta all'estero), è stato disposto dal gip capitolino Maurizio Caivano su richiesta dei pubblici ministeri Lucia Lotti, Giuseppe Cascini e Rodolfo Sabelli, ed è stato eseguito dai finanzieri del Nucleo valutario e del Comando provinciale di Roma. Altre cinque persone risultano indagate a piede libero. Gli inquirenti temevano una possibile fuga di Coppola che sapeva di essere intercettato. Tanto che all'imprenditore sono stati sequestrati quattro cellulari modificati e uno di questi era, secondo le accuse, utilizzato per avere contezza del traffico telefonico in entrata e uscita sul cellulare della fidanzata che lo stesso Coppola le aveva regalato modificato.
I reati contestati vanno dalla bancarotta fraudolenta, all'associazione per delinquere, dall'appropriazione indebita, al riciclaggio ed al falso in atto pubblico e risulterebbero commessi nella gestione, con alcuni "prestanome" anche dall'identità ritenuta fittizia e costruita con false attestazioni, di almeno sei società immobiliari - una delle quali fallita, la Micop controllata al 100% dalla lussemburghese Pad - riconducibili a Coppola.
Gli interrogatori di garanzia da parte dei magistrati di Roma sono previsti per sabato, ma probabilmente Coppola verrà sentito presto anche dagli inquirenti della Procura di Torino che nelle ultime settimane ha avviato una indagine (per aggiotaggio) su una operazione giudicata sospetta legata alla cessione di un leasing immobiliare a fondi esteri che ha prodotto benefici alla società Ipi - le cui azioni sono state sospese ieri a Piazza Affari - per 120 milioni e un rialzo in Borsa del 30% circa.
Sempre ieri gli investigatori romani hanno messo sotto sequestro a Coppola quote azionarie per 70 milioni di euro (titoli Banca Intermobiliare, Mediobanca, Ipi, As Roma, Valadier e Hotel Cicerone) che si ritene frutto di raccolta di fondi illecitamente realizzati con il meccanismo delle scatole cinesi e delle bare fiscali. È stato contestato a Coppola e ai suoi partner l'aver distratto da società immobiliari gestite ad arte fondi per 130 milioni di euro. A questa somma potrebbero essere aggiunti - secondo le ricostruzioni degli investigatori - almeno altri 72 milioni per mancato versamento di imposte, di cui circa 40 relativi all'Iva nelle transazioni immobiliari e il resto alle imposte dirette.
Gli inquirenti capitolini hanno passato al setaccio dal mese di gennaio del 2006 numerose operazioni effettuate nell'ambito della rete di società riconducibili a Coppola, nella quale operavano come amministratori persone con nessuna esperienza gestionale (domestici, immigrati, operai edili). Un meccanismo di scatole cinesi che puntava a far lievitare a dismisura il valore degli immobili intermediati tra le varie società del gruppo per distrarre mutui e fidi accesi con le banche e creare fittizi crediti Iva e d'imposta. «Appare indubitabile - scrive il gip - che dall'attività investigativa emerga l'esistenza di un gruppo dotato di un'organizzazione consolidata e radicata sul territorio, al cui interno emerge un ruolo verticistico assunto da Coppola» il quale, a partire dal 2002, anche «attraverso la costituzione e la gestione di numerose società, in Italia e all'estero» avrebbe commesso una «serie indeterminata di delitti di bancarotta fraudolenta ovvero di ampliamento e arricchimento del gruppo Coppola». Secondo il gip «le società formalmente appartenenti al gruppo Coppola sono state massicciamente finanziate con ingenti liquidità provento dei delitti di appropriazione indebita e bancarotta fraudolenta, con rilevante danno economico per l'erario».
Tra le banche finanziatrici figura anche UniCredit, da cui si fa sapere che il gruppo ha erogato mutui a società veicolo, intestate a professionisti insospettabili, cui facevano capo immobili che il gruppo Coppola ha rilevato solo in un momento successivo. Si escludono contatti diretti fra UniCredit e l'immobiliarista.
Infine i giornalisti del gruppo Editori PerLaFinanza auspicano che l'editore nomini un nuovo Consiglio di amministrazione. «La notizia dell'ordine di custodia cautelare nei confronti di Coppola, vicepresidente e azionista di controllo del gruppo Editori PerLaFinanza tramite un patto di sindacato, e del consigliere Ciccaglione - si legge in una nota del Cdr - ha provocato forte sconcerto tra i giornalisti di tutte le testate del gruppo».


LE TAPPE DI UN IMPERO RECENTE
L'ascesa
Danilo Coppola fa il suo ingresso nelle cronache finanziarie nel 2003: è allora che l'immobiliarista nato nel 1967 alla periferia di Roma rileva una quota del 3% della Bnl. Nel settembre dello stesso anno chiede un posto nel consiglio d'amministrazione dell'istituto di Via Veneto, ma si sente rispondere: «Non ci sono posti liberi». Ma in pochi anni, insieme agli altri immobiliaristi Stefano Ricucci e Giuseppe Statuto diventa socio forte di Bnl.
La scalata a Bnl
I tre immobiliaristi, assieme a Francesco Gaetano Caltagirone, si riuniscono nel cosidetto "contropatto" di Bnl, e giocano un ruolo da protagonisti nella stagione della scalata alla banca romana. Coppola sale al 4,9% nella Banca Nazionale del lavoro: nel luglio del 2005 i contropattisti cedono la loro quota del 27% a Unipol: per il solo Coppola la plusvalenza è stimata attorno ai 230 milioni di euro.
La scalata ad AntonVeneta
Danilo Coppola gioca un ruolo da protagonista anche nella scalata alla banca AntonVeneta. Assieme a Bpi, a Emilio Gnutti, ai fratelli Lonati e a Stefano Ricucci detiene oltre il 30% delle azioni dell'istituto, ma non lo comunica al mercato per evitare l'obbligo di lanciare un'Opa. Nei giorni scorsi la magistratura milanese ha notificato a Coppola e ad altre 83 persone l'avviso di fine indagini. Anche la Consob ha già sanzionato l'immobiliarista.
L'acquisizione di Ipi
Nel 2005 Danilo Coppola compie un altro passo con l'acquisizione da Luigi Zunino del 65% della Ipi per un corrispettivo di 185 milioni. Nello stesso anno Coppola si assicura il controllo di Lingotto spa.
Ma proprio per la vendita di alcuni edifici della Ipi, Coppola è indagato a Torino per aggiotaggio informativo. Fra i fiori all'occhiello di Coppola, la proprietà di alcuni celeberrimi alberghi, come il Daniel's di Roma e il Grand Hotel di Rimini.
Mediobanca e l'editoria
Il salto verso il salotto nobile della finanza italiana Coppola lo compie attraverso il suo ingresso nel capitale di Mediobanca, dove arriva a sfiorare il 5%, per poi scendere all'attuale 2,17%. Fallisce invece l'assalto a Rcs: rinuncia dopo aver annunciato nel 2005 il proposito di entrare. Ma l'ingresso nell'editoria è solo rinviato: nel 2006 acquisisce un pacchetto del 18% di «Editori per la Finanza » di cui diverrà proprietario alcuni mesi dopo.

 

Arrestato l'immobiliarista Danilo Coppola

Giovedì 01 Marzo 2007 01:00 Diario
Stampa PDF

01.03.2007 – Diario

Arrestato l'immobiliarista Danilo Coppola (con altri sette collaboratori).

Le accuse: bancarotta, aggiotaggio e appropriazioni indebite. Il buco sarebbe di 130 milioni. A cui si aggiungerebbero 72 i milioni di imposte non versate. Era già tutto scritto

La Guardia di finanza ha arrestato stamattina Danilo Coppola, immobiliarista romano, protagonista con Stefano Ricucci l'estate scorsa di quello che passò alla storia come lo scandalo dei fubetti del quartierino. Oltre a Coppola, che possiede tra l'altro lo 0.10 di Mediobanca (le azioni sono state sequestrate) sono finiti in carcere sei suoi collaboratori: Luca Necci (cognato di Coppola) e Francesco Bellocchi (ex cognato di Ricucci),Andrea Raccis, Giancarlo Tumino, Gaetano Bolognese, Daniela Candeloro e il suo legale avvocato Alfonso Ciccaglione. Tutti suoi collaboratori.

L'indagine che ha portato agli arresti, firmati dal gip Caivano, sono state condotte dai pm romani Giuseppe Casini e Lucia Lotti. Secondo l'accusa Coppola e i suoi avrebbero creato una serie di società immobliari fittizie con lo stesso consiglio di amministrazioni in modo da farle fallire al momento giusto. In questo modo sarebbe stato creato un ammanco di 130 milioni di euro, a cui ne vanno aggiunti altri 70 di imposte non pagate (40 dovuti all'Iva, 32 a imposte dirette). Durante l'operazione la Guardia di finanza ha sequestrato in vi preventiva lo 0,10 di azioni di Mediobanca e quote di Roma calcio. Coppola è indagato per vicende analoghe anche a Torino e Milano.

Danilo Coppola era salito alle cronache nell'agosto 2005 per il tentativo di scalata al Corriere della sera, le azioni di Bnl cedute a Unipol con fortissime plusvalenze. Diario è stato tra i giornali che per primo ha sollevato lo scandalo, che avrebbe condotto alle dimissioni del governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio.

Ecco quanto scrivevamo allora.


L'inchiesta vecchio stile
E la «rude razza romana» va all’assalto del sistema
Rcs, Antonveneta, Bnl. Una composita compagnia di banche di provincia e immobiliaristi d’assalto sfida il cuore della finanza del Nord. Ecco come Stefano Ricucci, Danilo Coppola e Giuseppe Statuto sono diventati i nuovi campioni del (debole) capitalismo italiano. E chi sono i loro amici. A destra. E a sinistra
di Gianni Barbacetto

L'inchiesta vecchio stile
Giuseppe Statuto, storia del primo miliardo
È più defilato di Stefano Ricucci. Più presentabile di Danilo Coppola. Meno provvisorio di entrambi. Ma non meno misteriosa è l’origine della sua improvvisa ricchezza. Che ha una data: 22 maggio 2003. E un luogo di nascita: le Isole Vergini Britanniche. Ecco, società per società, come è avvenuto il parto
di Domenico Marcello

Buonsenso
Il governatore e gli scalatori mascherati
Una sotterranea «Bicamerale della finanza» sta cercando di ridisegnare il profilo del capitalismo italiano
di Gianni Barbacetto

Il «compagno Ricucci» e Consorte
Diario delle scalate. La svolta di Unipol in una gara a rischio senza regole in cui non tutti sono uguali
di Gianni Barbacetto

L'inchiesta vecchio stile
Le Parmalat prossime venture
E ora, a chi tocca? In Italia e nel mondo c’è chi se lo chiede con preoccupazione, dopo i crac globali. Ma esiste un modo semplice per chiudere con le supertruffe: vietare alle società quotate di avere rapporti con finanziarie insediate nei paradisi fiscali
di Domenico Marcello

L'inchiesta vecchio stile/5
Quando il palazzinaro rischiò il crac
Compagni di strada/3. Danilo Coppola. Un prestito da 80 milioni di euro garantito da un prestigioso immobile milanese. Le banche premono, altre banche subito soccorrono. Piove sempre sui furbetti
di Giuseppe Fanti

L'inchiesta vecchio stile
Siena, la Banda dei Quattro che ha detto no
I Ds senesi hanno rifiutato gli inviti del segretario del loro partito, Piero Fassino, a entrare nel sudoku bancario a fianco di Unipol. Subito additati come isolazionisti e «medioevali», ora possono essere considerati accorti e lungimiranti. Ma perché lo hanno fatto? E quali saranno le loro prossime mosse?
di Gianni Barbacetto

 

 

Qualcosa in più su Danilo Coppola... ed i suoi "amici"

Mercoledì 28 Febbraio 2007 01:00 le inchieste
Stampa PDF

28.02.2007 dal leinchieste.com
Danilo Coppola, da sospettato a "integrato"
Le strategie di recupero. Gli avalli dei salotti "buoni".
I punti di contatto con la Sicilia

di Carlo Ruta

Colpite le virtualità egemoniche di Ricucci e Fiorani, ripristinate le interlocuzioni con le cordate romane che riconducono ai Caltagirone, insediatasi infine l'Abn Amro nelle plance padovane di Antonveneta, negli ambienti dell'alta finanza sembrano finite le fibrillazioni che due anni fa hanno determinato la caduta di Antonio fazio dalla presidenza di Bankitalia. Ed è in tale quadro di calma, presumibilmente solo apparente, che avviene il prodigio di un Danilo Coppola perfettamente "candeggiato", con la convalida dei salotti cosiddetti buoni, a partire da Mediobanca, che l'imprenditore ha espugnato con una quota di prim'ordine.

Del tutto estraneo fino a pochi anni fa ai giri della finanza nazionale e alle luci della cronaca, Coppola, di origine casertana ma romano d'adozione, è venuto allo scoperto nel 2005 come scalatore di BNL e Antonveneta. La cosa ha destato molta sorpresa, e, prima ancora che se ne occupasse la magistratura, ha messo in allarme diversi ambienti economici, che si sono sentiti minacciati dalla cordata finanziaria di cui faceva parte l'immobiliarista: oscura, imprevedibile, temeraria, tale da far subodorare seri tentativi di condizionamento del governo dell'economia e non solo. All'appuntamento con i rovesci dell'estate 2005, Coppola si è presentato ciò malgrado con un crescente impeto attivistico. Dal gruppo di Luigi Zunino, altro finanziere proveniente dalle costruzioni, ha tratto a sé l'Istituto piemontese immobiliare, comprendente il Lingotto, emblema storico del capitalismo italiano, per farne un punto fermo del proprio impero finanziario e, di rincalzo, un potente ricostruttore della propria immagine. Ha acquisito il lussuoso albergo Cicerone di Roma, dove ha collocato amici e familiari. Ha avviato la costruzione a Milano di un nuovo centro immobiliare nell'area di Porta Vittoria, di 166 mila metri quadri.

Contestualmente, emergevano dettagli non da poco. E' stato accertato che nella conduzione degli affari dall'Italia al Lussemburgo, sede della Tikal, cassaforte del gruppo, Coppola ha seguito costantemente percorsi anomali, coadiuvato da parenti, privi perlopiù di competenze finanziarie, e da una ristretta cerchia di amici, quali Ernesto Cannone, Gaetano Bolognese, Francesco Bellocci, Andrea Raccis, Fabrizio Spiriti, Luca Necci, il siciliano Giancarlo Tumino, quest'ultimo un ex ruspista, tutti in grado di muoversi con inusitata scioltezza nel creare società, acquisire quote di controllo o laterali, per poi, all'occorrenza, disfarsene rapidamente. Sono stati documentati inoltre contatti di tipo societario del Coppola con persone dai tratti poco rassicuranti, "incidenti" di viaggio di vario genere, precedenti giudiziari sintomatici. Ma a dispetto di tutto, il 27 ottobre 2005, in pieno scandalo Antonveneta, con una oculata operazione d'immagine, l'immobiliarista ha potuto celebrare ugualmente il suo trionfo, presentando alla stampa internazionale il piano industriale della controllata Ipi Spa, e computando in 3.500 milioni di euro il valore complessivo delle sue imprese.

E dopo? La "riabilitazione" è andata avanti a suon di operazioni multimiliardarie e di proclami a effetto. Per 69 milioni di euro, Coppola è riuscito a far proprio il Grand Hotel di Rimini, celebrato da Fellini, vincendo tutte le remore che, in un primo tempo, erano insorte negli ambienti rivieraschi. Ha assunto poi l'impegno, che va concretizzandosi, di trasferire la Tikal e la controllata Gruppo Coppola, che hanno dato adito a molte voci, dal Lussemburgo a Roma. Infine, facendo proprio l'80 per cento del pacchetto azionario, attraverso la finanziaria Tikal, l'immobiliarista ha potuto acquisire il gruppo, primo per importanza nell'ambito dell'informazione economica, Perlafinanza, comprensivo del quotidiano "Finanza & Mercati", diretto antagonista di "Milano Finanza" e del "Sole 24 ore". E il dissenso in tale testata si è espresso con le dimissioni del direttore Osvaldo De Paolini e di altri giornalisti, come Paolo Fior, Fabio Dal Boni, Filippo Buraschi.

Evidentemente, tali mosse non sono in grado di contraddire il quadro di allarme che si è espresso negli ultimi anni. Ma gli avalli dei salotti "buoni" vanno facendo la differenza. E' come se tutti gli "incidenti" di percorso del Coppola non fossero mai esistiti, come se quel tanto che risultava oscuro si fosse chiarito a suo vantaggio, come se tutte le considerazioni fatte in precedenza, pure dal versante giudiziario, fossero state effetto di un abbaglio. In realtà nulla è stato mai sufficientemente spiegato. Non si è verificata alcuna svista sostanziale perché gran parte degli addebiti mossi all'imprenditore risultano certificati. Permangono quindi gli elementi perché il caso venga mantenuto sotto osservazione. E, in assenza di risposte plausibili, rimane soprattutto legittimo il quesito di fondo: da dove provengono tutti questi soldi?

In definitiva, da "integrato", Coppola ha pensato utilmente di riposizionarsi e di rilanciare, attraverso una varietà di iniziative, divise appunto fra convenienza finanziaria e immagine. E in tale quadro di tessiture, che includono profili meno visibili, si colgono delle novità pure dalla prospettiva siciliana. Emerge in particolare che l'immobiliarista romano ha allontanato, almeno ufficialmente, il suo maggiore collaboratore dell'isola, Giancarlo Tumino, intestatario negli anni scorsi di operazioni finanziarie fra le più disinvolte che il gruppo ha realizzato fra Italia e Lussemburgo. Secondo alcune voci, il siciliano sarebbe stato "licenziato" perché avrebbe tentato di inserire dei tornaconti propri negli affari che stava trattando per conto del romano. Appare tuttavia più attendibile l'ipotesi di un distacco concordato, nel quadro dell'operazione "trasparenza" che il gruppo va ostentando. Il posto d'onore occupato dal Tumino è stato assunto comunque, e la cosa potrebbe essere sintomatica, da un altro siciliano, Giovanni Licitra, già venditore d'acqua, dotato di proprie risorse finanziarie, ex cognato dell'immobiliarista. E a quanto pare, al Licitra, che risiede a Roma, è passato l'incarico di investire lungo la fascia trasformata dell'isola, mentre Coppola rimane preso dalle complesse situazioni della capitale finanziaria, da piazzetta Cuccia a piazza Affari.




01.03.2007 - dal leinchieste.com
Danilo Coppola e la legge
Gli "incidenti" di percorso dell'immobiliarista romano,  che ha conquistato, con avalli ai massimi livelli,  i salotti "buoni" della finanza italiana
di Carlo Ruta

Danilo Coppola è stato arrestato per riciclaggio con diversi suoi collaboratori, fra cui il siciliano Giancarlo Tumino. Di Coppola e del Tumino ci si era occupati nei mesi scorsi di concerto con il portale di Peacelink e con www.wema.it di Tito Gandini. Nella tarda serata del 28 febbraio, poche ore prima cioè che scattassero gli arresti, su www.leinchieste.com era stata ripresa l'inchiesta sul caso, su cui vigeva ormai dagli inizi del 2006 un diffuso silenzio, a tutto beneficio dell'immobiliarista romano, che è riuscito a insediarsi intanto nel massimo consesso di Mediobanca. A questo punto non ci resta che continuare, con una inchiesta no stop, ancora di concerto con Peacelink, offrendo sul caso e sui retroscena che abbiamo potuto accertare negli ultimi mesi tutta l'informazione possibile.

E' il caso di prendere le mosse allora da alcuni elementi certi. Da diverse prospettive, sono divenute di dominio pubblico delle storie "minime". E' emerso per esempio che Coppola, abituato verosimlmente a girare armato, ha subìto un procedimento giudiziario, finito con il ritiro del porto d'armi, per aver sparato in aria con la propria pistola per spaventare dei ROM, da cui si sarebbe sentito disturbato. E' stata poi accertata una condanna penale, una multa di diverse migliaia di euro, comminatagli per la manomissione di un contatore dell'ENEL. Sollecitato a rispondere, Coppola ha ribattuto che tali "precedenti" sono stati ingigantiti ad arte, su istigazione di determinati circoli finanziari, per contrastarne il cammino, quando era riuscito a violare, con una partecipazione del 5 per cento, addirittura Mediobanca, il salotto più esclusivo ed emblematico della finanza nazionale. I fatti portati all'evidenza pubblica, per quanto eterogenei e privi di nessi con le manovre del presente, restano in ogni caso indicativi della personalità del Coppola. D'altra parte, taluni atteggiamenti dell'immobiliarista romano non mancano di persistenze. Di certo la sua passione delle armi non finisce con quella disavventura giudiziaria se, riavuto il porto d'armi, non disegna di circolare con i suoi revolver, e circondarsi di gente armata fino ai denti. Ha fatto impressione, in pieno scandalo Antonveneta una sua vacanza in Sardegna, accompagnato da un nugolo di guardie del corpo armate fino ai denti sul tetto giorno e notte, ad armeggiare e scrutare sui tetti delle ville di Porto Cervo e Porto Rotondo.

Sono stati documentati d'altra parte, e si tratta di storie non propriamente "minime", rapporti di livello societario del Coppola con due persone: il calabrese Roberto Repaci, già segnalato dalla Guardia di Finanza quale commercialista dei Piromalli, potenti boss della 'ndrangheta di Gioia Tauro, e Giampaolo Lucarelli, strettamente legato al boss della Magliana Enrico Nicoletti. Di certo ciò non dimostra che Coppola ha avuto nessi sostanziali con la 'ndrangheta e con la banda della Magliana; offre nondimeno ulteriori dettagli sull'indole del romano, sicuramente avventurosa.

Riguardo alle situazioni che hanno fatto subodorare o permesso di acquisire anomalie importanti, la magistratura si è mossa a vari livelli. Nel quadro dell'istruttoria avviata dalla procura di Milano sulle trame per il controllo dell'Antonveneta, pure per Danilo Coppola, partecipe alla concertazione, con Emilio Gnutti, Giampiero Fiorani e Stefano Ricucci, è scattato il sequestro delle azioni possedute, per 24,5 milioni di euro. Ma l'immobiliarista romano, accorto nell'assumere una posizione defilata, ha potuto evitare i rovesci avuti dai compagni. Non ha subìto in quei frangenti l'onta del carcere, e la cosa lo ha agevolato nel portarsi oltre lo scandalo. Comunque, la quota Antonveneta sopra detta, una volta definiti i nuovi assetti dell'istituto, a tutto vantaggio di Abn Amro, è stata poi, come quelle ben più cospicue degli altri concertisti, dissequestrata. Una seconda iniziativa giudiziaria si è avuta nel gennaio 2006, quando la Direzione distrettuale antimafia di Roma ha aperto un fascicolo su società e persone legate al gruppo Coppola, sei dei quali ritenuti prestanome, ipotizzando giri di fatture false e transazioni dubbie fra società del medesimo e di Ricucci. E tuttavia, quando la sorte di Fiorani e Ricucci è ormai fatalmente segnata, il caso Coppola muta vorticosamente, aprendosi a veri e propri colpi di scena.




03.03.2007 dal leinchieste.com
Coppola e i club finanziari. Amicizie e affari nel solco di una tradizione
di Carlo Ruta

Danilo Coppola non ha operato da out sider.Tutto quel che ha realizzato negli ultimi anni, a eccezione di alcune brevi interruzioni, lo ha fatto bensì di concerto con i massimi circoli della finanza nazionale. E non poteva essere altrimenti. I lavori del mega-progetto immobiliare di Porta Vittoria a Milano, che avrebbe dovuto celebrare il trionfo dello stile Coppola nella capitale del capitalismo padano, non sarebbero mai partiti se non fossero venuti favolosi finanziamenti dall'Unicredito di Alessandro Profumo, e da altri istituti amici: su cui è opportuno che i magistrati concentrino adesso la loro attenzione. L'operazione Lingotto, emblematica dei nuovi corsi della finanza nazionale, sulle ceneri del vecchio capitalismo, di cui erano stata espressione storica gli Agnelli, quasi certamente sarebbe rimasta una segreta aspirazione del casertano se non fosse intervenuta in soccorso del medesimo un istituto di assoluto prestigio come la Banca Intermobiliare e, conseguentemente, lo Studio Segre di Torino. Allora le cose stanno come stanno: il caso Coppola, come già il caso Antonveneta, che del resto ha visto nell'immobiliarista uno dei protagonisti, è solo la parte tangibile di un male, di certo espressione di un modo d'essere della finanza odierna, e di quella italiana in particolare, che, con più impeto di un tempo, non disdegna i patti con chicchessia, con ambienti opacissimi e addirittura contigui alle mafie, a dispetto del decoro nazionale e delle leggi, quando si tratta di centrare i propri affari.

Tante, troppe cose sono uscite allo scoperto, quando Coppola e i suoi amici hanno cercato di estendere le proprie mire in direzione delle maggiori testate del paese. Nell'infuriare dello scandalo Antonveneta sono venute inchieste battenti e inchiodanti, a partire da quelle di Claudio Gatti sul Sole 24 ore, cui va riconosciuto di avere dato per primo i tratti essenziali del fenomeno Coppola. Sui retroscena di tali operazioni è scattata in quei mesi una vera e propria mobilitazione da parte di numerosi organi di stampa, in grado addirittura di fare da volano e da supporto all'attività della magistratura. Ma dopo la débacle di Fiorani e Ricucci il clima è improvvisamente cambiato, con le repentine condivisioni che Coppola ha potuto incassare, contestualmente all'ingresso in Mediobanca, da quegli ambienti finanziari che adesso appaiono disorientati dai provvedimenti giudiziari e che cercano, vanamente, di giustificarsi come possono.

Negli iter dei potentati forti si evidenziano in definitiva passaggi che accentuano in modo preoccupante una tradizione eminentemente italiana. Nel "book" di Coppola non mancava nulla che non suggerisse prudenza e soprattutto la legittimità del dubbio. Pure le storie "minime" emerse, alcune se vogliamo di colore, abbondavano di aspetti sintomatici. Basti dire della curiosa tipologia di amici di cui il casertano ha amato circondarsi: ristoratori, baristi, garzoni, ruspisti, camerieri, pensionati già nullatenenti, divenuti tutti intestatari di patrimoni da capogiro, ovviamente per suo conto. Eppure questo imprenditore, diversamente da Ricucci e da altri, rimasti infossati a metà del guado, non ha incontrato ostacoli significativi, e ha potuto anzi proporsi ai club economici più esclusivi come un mattatore, bruciando le tappe con la presa appunto del Lingotto, l'espugnazione morbida di Mediobanca, l'acquisizione di alcuni fra i più prestigiosi alberghi del paese, infine l'arrembaggio, si direbbe propedeutico, su un segmento della stampa finanziaria.




05.03.2006 dal leinchieste.com
L'uomo siciliano di Danilo Coppola
Giancarlo Tumino e le tracce affaristiche che dalla capitale portano all'est dell'isola
di Carlo Ruta

Dalle vicende dell'Antonveneta, come dal contestuale assalto alla BNL e al "Corriere della Sera", viene un esaustivo compendio di quanto possano celare oggi i sipari, in apparenza rassicuranti, della grande finanza nazionale. Sono avvenuti fatti sconvolgenti, che hanno turbato a fondo l'opinione pubblica. E in tale quadro convulso, sono andate definendosi le movenze di alcuni giovani immobiliaristi, ben arroccati nella capitale e non solo, capaci di porre in gioco capitali immensi, tali da riuscire a mettere a soqquadro i poteri forti del paese, e a proporsi addirittura negli assetti della carta stampata, che rimangono un terreno strategico per i club che intendono assumere un controllo largo sulle cose. Tali voci recano movenze per certi versi inedite, e tuttavia s'incasellano senza sforzo in una tradizione lunga, legandosi, non soltanto sottotraccia, ad assi finanziari recanti un nome riconoscibile e, soprattutto, una storia. I romani Danilo Coppola e Stefano Ricucci, ambedue titolari di patrimoni di miliardi di euro, per quanto significativamente privi di risorse originarie, solo in apparenza vengono dal nulla: è assodato che recano importanti nessi con i Caltagirone, recanti appunto un passato, lungo, aggrovigliato, ancora oggi non del tutto dipanato; hanno intessuto accordi con i vertici di Bipielle; hanno operato a contatto di gomito con il milanese Gnutti, grande manovratore di Hopa, e con l'emiliano Consorte, che con una disinvoltura tutta propria ha fatto il nuovo corso di Unipol; hanno lambito infine i territori off limits di Mediobanca. Avrebbero potuto osare di più, in così poco tempo?

Si tratta evidentemente di disegni avventurosi, nella stessa misura in cui lo potevano essere, fatti i dovuti distinguo, quelli del primo Berlusconi, o di altri scalatori finanziari della penisola. Ponendo insieme una serie di tasselli, si ricava comunque che tali arricchimenti sono esito di interessi multilaterali, di storie riservatissime, di patti reconditi, che, secondo tradizione, vanno percorrendo il paese tutto, dalla Padania alla Sicilia. E proprio la Sicilia , che nella vicenda recita beninteso una parte discreta, permette di vagliare profili non indifferenti del Coppola, attualmente il meno colpito sotto l'aspetto giudiziario, per essersi tenuto vagamente defilato dai "concertisti" dell'operazione Antonveneta, e tuttavia elemento di primissimo piano di una matassa finanziaria ancora largamente da dipanare. Come è noto, negli affari dell'immobiliarista romano entrano in gioco un pugno di fedelissimi, ben piazzati in numerose società immobiliari, di cui alcune recanti, neppure a dirlo, la sede legale in Lussemburgo. Sono usciti, fra l'altro, i nomi di Gaetano Bolognese Bonaventura, Ernesto Cannone, Roberto Repaci: quest'ultimo già tirato in causa da una informativa della GdF per storie di 'ndrangheta. E in tale rete, occupa una posizione nodale appunto un signore siciliano poco più che quarantenne: Giancarlo Tumino. Va rilevato tuttavia un particolare: le strade praticate dal Coppola non portano a Palermo, né agli oscuri meandri del Trapanese, come poteva avvenire comunemente ai tempi dei Rimi, dei Lima, dei Liggio, dei Ciancimino, dei Vassallo, e anche in tempi meno lontani. Il contatto con l'isola non passa attraverso famiglie e cordate tradizionalmente legate a gruppi delinquenziali riconosciuti come tali. Le strade praticate dall'immobiliarista romano portano invece all'est dell'isola, più precisamente nella dimessa Ragusa, la città che, di reticenza in reticenza, è riuscita a porre la pietra tombale sul caso Tumino-Spampinato.

Un po' come negli iter di Coppola e Ricucci, il ragusano Tumino reca un passato economico di nessun rilievo. Proveniente da una famiglia di contadini poveri, fino a quasi tutti gli anni novanta conduce personalmente una serra, saltuariamente fa il ruspista, perlopiù per conto terzi, per alcuni anni gestisce un bar, con modesti risultati. L'incontro con l'immobiliarista romano, avvenuto a Ragusa, gli cambia tuttavia la vita. A renderlo possibile sono del resto alcune circostanze. Negli ultimi anni novanta una sorella del Coppola si trasferisce nel capoluogo ibleo per avere sposato un ragusano, tale Ferreri, a sua volta imparentato per via di un matrimonio con il Tumino. Il contatto fra l'operatore economico romano e il barista siciliano è quindi nelle cose, agevolato da importanti affinità di carattere, dalla medesima cultura edonistica, dal comune senso del denaro. Da quel momento, mentre la sorella dell'immobiliarista si dà da fare localmente, assumendo una cospicua quota del Caffè Sicilia, uno dei più raffinati ed esclusivi della città, l'ex ruspista diviene l'uomo di Coppola nell'isola, e non solo nell'isola, se si considera che a lui il finanziere romano delega il controllo laterale di alcune società strategiche, divise fra Lussemburgo e Roma, come la Gabbiano Immobiliare , e la Immobilbi srl.

Come è ovvio, da Marina di Ragusa il Tumino si trasferisce a Roma, ma i rientri a Ragusa sono frequenti e piuttosto visibili. Lo si vede in giro in BMW, ma non disdegna di esibire un paio di Bentley e una Ferrari. Si tratta del resto di rientri motivati, in sostanza di lavoro a tutti gli effetti. L'uomo di Coppola si assume infatti il compito di investire negli Iblei capitali ingenti, in terreni, in serre, che a sua volta dà in gestione ad amici fidati, e come è nelle logiche dell'immobiliarista romano, in appartamenti, soprattutto nella frazione di Marina, dove i prezzi degli immobili sono da anni e si prospettano ancora in notevole rialzo. Attraverso il Tumino, il Coppola finisce con il ricavare quindi dal Ragusano delle convenienze finanziarie. Ma è mosso pure da tutt'altri interessi, in una chiave spiccatamente edonistica, se è vero che l'area iblea, in particolare quella ragusana, da alcuni anni è divenuta una tappa irrinunciabile dei suoi viaggi nel Mediterraneo, con il suo Yacht da nababbo. E non mancano aneddoti al riguardo, perfettamente intonati con quello che si conosce già del personaggio, che ama farsi fotografare in un certo modo, e che, al pari dell'amico Ricucci, ma assai diversamente dai Caltagirone, si mostra piuttosto sensibile alle seduzioni della mondanità.
(Fonte: "L'isola possibile", Catania, febbraio 2006)



03.05.2007 dal leinchieste.com
Soldi & cemento.
Considerazioni a margine del caso Coppola

Come si saldano, sul terreno dell'affare immobiliare, gli interessi della grande finanza e dell'imprenditoria più mossa. La trama che regge le bolle speculative e le colate lungo il paese, dalle Alpi alla Sicilia. Le inadeguatezze, le aree di condivisione, i silenzi.
di Carlo Ruta


Il caso Coppola può essere assunto da diverse prospettive. A partire dai circuiti più influenti è invalso un modello definitorio rassicurante, che può essere bene riassunto dalla categoria del "furbetto". Secondo tale interpretazione in fin dei conti siamo davanti alla solita deviazione, alla degenerazione di alcune frange del capitalismo nazionale che, di là dalla tormenta, per contrasto dovrebbe far risaltare una normalità finanziaria di un certo decoro, civilmente motivata, del tutto rispettosa delle regole. Tale considerazione minimalistica, in sé già debole, non regge alla prova dei fatti. Non può immaginarsi Danilo Coppola senza i finanziamenti di Unicredit e le contiguità di Emilio Gnutti, senza le condiscendenze del governatore di Bankitalia Antonio Fazio e il sostegno di Franca Bruna Segre, presidente di Banca Intermobiliare di Torino. Il romano non avrebbe potuto volare tanto in alto se gli Agnelli si fossero posti di traverso e avessero posto in gioco quanto regge della loro della loro autorità per impedirgli l'acquisizione del Lingotto. E tanto meno avrebbe potuto muoversi così scioltamente se le istituzioni della città di Milano avessero opposto la ragione pubblica ai mega-disegni di "riqualificazione immobiliare" da lui intrapresi a partire da Porta Vittoria. Senza intrecci di elevatissimo profilo, insomma, Coppola avrebbe potuto costruire parcheggi e asili nido nella borgata Finocchio, di certo non sarebbe approdato con sogni e aspirazioni di grandeur a Piazza Affari.

I fatti dimostrano che l'imprenditore romano, in questo momento perdente di turno, immolato al buon nome della finanza nazionale, incarna la normalità del capitalismo, di questo paese e non solo. Di là dalla débacle giudiziaria, il metodo che lo ha ispirato, di cui è stato e rimane un importante interprete italiano Silvio Berlusconi, costituisce infatti il percorso maestro, innovativo in senso shumpeteriano, della finanza del nostro tempo, nella tradizione comunque del capitalismo predatorio che, con regole o senza, con legittimazioni a priori o a posteriori, ha fatto secoli di storia. Al minimo di regole o addirittura oltre si organizzano i grandi affari nell'età delle economie globali. E in virtù di questo taluni spregiudicati capitalisti russi e di altre aree slave, legati ai governi come ai poteri criminali dei loro paesi, possono guadagnare i primi posti al mondo per ricchezze possedute, al pari dei giovani nababbi della new economy statunitense. Il post-moderno, sulle ali di una economia senza centro e senza confini, rifluisce verso i passati più tristi. Non è un caso il risorgere imponente delle schiavitù. Coppola, ottimamente piazzato nella colonna dei più ricchi del paese, è quindi un "furbetto" nella stessa misura in cui lo sono tutti gli altri.

Nello specifico italiano, il dato che sempre più va stabilizzandosi, con accorte combinazioni di vecchio e nuovo, è quello di una convinta saldatura fra settori importanti della finanza, corroborati da gruppi bancari di interesse nazionale, e l'industria del mattone. E tutto questo trova un corollario nella trama speculativa che serra oggi il mondo dell'edilizia. Esiste beninteso una componente endemica, che ha accompagnato l'intera storia della Repubblica, ma la tensione speculativa di questi anni è indubbiamente anomala. I Coppola, i Ricucci, gli Statuto, interessati dalle cronache giudiziarie di questi anni, costituiscono solo il momento eruttivo di un fenomeno diffuso. Se la finanza è votata infatti all'avventura, e, come si diceva, è questo un motivo ritornante della storia, l'Eldorado è costituito proprio dai grandi affari immobiliari. E il continuo rialzo dei prezzi degli immobili, che ha sancito la travolgente fortuna economica di Coppola e di tutti gli interpreti della cultura del cemento, noti e meno noti, ne è a un tempo il presupposto e il risultato.

Fatti significativi si registrano in effetti in tutto il paese, da Monza, dove l'onda speculativa, mossa da una società che fa capo a Paolo Berlusconi, va stringendosi su quasi 1 milione e 800 mila metri cubi di verde, a Ragusa, dove la giunta municipale ha deliberato un piano edilizio che interessa un'area di quasi due milioni di metri quadrati, da cui dovrebbe uscire di fatto una seconda città, mentre si mette pesantemente mano al centro storico. In Toscana è allarme a Campiglia Marittima, Piombino, San Vincenzo, Sassetta e Suvereto. A Roma le colate costeggiano il Laurentino con danni enormi per i quartieri Giuliano Dalmata, Fonte Meravigliosa, Prato Smeraldo, Colle di Mezzo e Cecchignola Sud. In Campania viene invasa dal cemento l'isola di Capri. Dalla Calabria emergono i casi di Cosenza, Marano Principato, Mendicino, Rende, Montalto Uffugo. A Catania insiste l'assalto alla collina dell'ospedale Cannizzaro. Tutto lascia percepire insomma l'ampiezza del fenomeno, malgrado ne restino indefiniti i numeri, per i silenzi e le aree di condivisione che sovente lo accompagnano. Ed è nelle cose che vengano seguiti determinati corsi, tanto più nelle città del Sud, dove più agevolmente il piglio post-moderno va agganciandosi con date tradizioni. In tal senso, del resto, i segnali non mancano.

Se la speculazione costituisce l'eldorado degli immobiliaristi e della finanza più "innovativa", ugualmente o forse più lo è per i poteri ostentatamente criminali e per coloro, sovente commercialisti di "buon nome", che ne amministrano i proventi. E questo fa pensare che gl'imprenditori e i finanzieri del cemento, anch'essi attraverso studi di "buon nome", sempre più in Italia, e soprattutto nel sud, svolgano quel ruolo di collettori di capitali anomali da reimpiegare che negli anni settanta-ottanta svolgevano con zelo un discreto numero di sportelli bancari, sovente d'occasione. Si è detto in questi mesi dei possibili nessi di Coppola con imprenditori legati alla banda della Magliana, con commercialisti legati alla grande malavita calabrese, con mafie di altre aree. Nel caso specifico nulla è stato accertato beninteso, tuttavia degli indizi esistono e vanno nella direzione di cui si va dicendo, come del resto va in tale senso quanto emerso da una recente operazione della GdF di Roma: una imponente speculazione edilizia nell'area di Nettuno condotta da imprenditori legati al crimine organizzato del litorale. Come è noto, nei decenni scorsi la legge La Torre ha permesso di varcare i santuari bancari e di colpire situazioni del grande riciclaggio. Adesso, con strumenti idonei, si potrebbe fare altrettanto dal versante degli studi immobiliari, disseminati nell'intero paese e perfettamente incasellati nella "bolla" speculativa in atto. Ma restano esigue le iniziative in tale senso, mentre, come si diceva, rimangono determinanti le aree di tolleranza e di sostegno.

 

I nuovi oligarchi padroni di Milano

Domenica 28 Gennaio 2007 01:00 Curzio Maltese
Stampa PDF

28.01.2007 - Repubblica
L'INCHIESTA/ Chi comanda nelle città
I nuovi oligarchi padroni di Milano

di CURZIO MALTESE


"Vuoi vedere come siamo ridotti?". Dario Fo apre la finestra del suo studio, indica l'orizzonte e domanda: "Dov' è Porta Romana?". Guardo fuori e Porta Romana non c' è più. Non si vede, cancellata da un mega cartellone pubblicitario. I milanesi che non guardano mai in alto, tanto c' è poco da vedere, forse non se ne accorgono. Ma qui è sparita la porta più antica della città, il simbolo di duemila anni di storia. "Porta Romana bella" strangolata dai cartelloni, circondata dai buchi dei lavori in corso.

"A Roma coprirebbero il Colosseo con le mutande di Dolce & Gabbana?". Dolce & Gabbana bella~ la metrica tiene ma è un'altra cosa. Il Nobel più snobbato della storia estrae un suo magnifico disegno di palazzi e canali: "Questo si dovrebbe fare, scoperchiare i navigli, tornare ai tempi di Stendhal. Invece stanno vuotando la Darsena per farci i garage. Milano è così, si pugnala da sola".

Una città senza più splendore. È sempre stata trasformista, capace di adattare il corpo e l'anima al potere dominante. Scriveva Guido Piovene nel ' 56, "è una città utilitaria, demolita e rifatta secondo le necessità del momento, non riuscendo perciò mai a diventare antica".

Ma ora il grigiore e la noia delle periferie hanno invaso il centro: la città non è mai stata così anonima e invivibile come oggi. Nessun grande progetto o evento, la convivialità consumata nel rito dell'happy hour, il dibattito cittadino confinato alla rissa annuale per l'assegnazione dell'"Ambrogino d' oro" il gusto della modernità ridotto a una maniaca opera di lifting urbano. Più brutta e più ricca di sempre, avvelenata dall'aria più irrespirabile d' Europa. Senza identità né memoria. Un mese fa, per la ricorrenza della strage, la Cgil ha chiesto agli studenti delle superiori se sapevano che cosa era successo in piazza Fontana il 12 dicembre del 1969. Il sessanta per cento ha risposto "non so", il venti "un attentato delle Br", un altro dieci "una bomba islamica".

Per farsi coraggio, occorre guardare oltre la nebbia del presente, verso la Milano di un futuro da scegliere ma che può diventare grandioso. I soldi ci sono, quelli non sono mai mancati. Si produce sempre qui un decimo del Pil, un terzo se si considera la grande Milano di sette milioni e mezzo d' abitanti, la seconda megalopoli d' Europa dopo Parigi-Ile de France. La città brulica di cantieri dove lavora il Gotha dell'architettura. Renzo Piano a Sesto San Giovanni, Norman Foster a Santa Giulia, Daniel Libeskind, Arata Isozaki e Zaha Hadid alla vecchia Fiera, Santiago Calatrava all'alta velocità, Bolles e Wilson alla nuova biblioteca europea, Pei e Cobb al grattacielo della Regione che manderà in pensione il Pirellone, oltre alle opere già realizzate, la Fiera di Fuksas, la Bicocca di Gregotti.

Non si progettava tanto dai tempi degli Sforza. Milano ha raccolto il testimone di laboratorio urbanistico dalla Parigi degli anni Settanta, dalla Barcellona degli anni Ottanta e dalla Berlino dei Novanta. La Triennale si prepara a diventare una Mecca per l'architettura, come fu nel boom per il design. Ma fra il Luna park degli orrori del presente e la città futuribile e meravigliosa manca un ponte, una classe dirigente. Chi comanda oggi a Milano?

L'ultimo padrone della città è stato Bettino Craxi. Berlusconi, con tutto il suo potere, in città non ha mai fatto sistema. Oggi per capire chi comanda bisogna inseguire l'unica sicura traccia nel caos cittadino: i danèe. Dalla bufera di Mani Pulite in poi è successo questo, che una montagna infinita di soldi e di potere è passata di mano. Dal vecchio capitalismo industriale e familiare, governato da Enrico Cuccia e legato a doppio filo con la politica, alla nuova finanza globalizzata e immateriale, giovane e cosmopolita, che non ha bisogno né di salotti né dei palazzi romani né di televisione. In questa città oligarchica per natura e struttura, nell'ultimo decennio ha conquistato il cuore del potere una schiera di oligarchi quarantenni.

Il nuovo Cuccia potrebbe allora essere il banchiere Alessandro Profumo, genovese di nascita ma milanese da sempre, che scherza sulla definizione "io sono molto più banale, le azioni non sono capace di pesarle, le devo contare e basta". A trent' anni ha preso la guida di Credit e dal ' 94 a oggi ha portato la capitalizzazione da un miliardo di euro ai 70 del gruppo Unicredito, sesta o settima banca continentale. Non s' è mai visto in televisione o dalle parti del Parlamento considera i salotti "una vera jattura cittadina" e se ha una serata libera preferisce la mensa della Casa della carità di don Colmegna, rifugio di rom e immigrati, alle cene della Milano bene.

Per dire il personaggio, se n' è appena andato dal più ambito dei salotti cittadini, il patto di sindacato del Corriere della Sera, sbattendo la porta alle troppe battaglie per comprarsi un altro pezzo di Polonia o Turchia. Come molti nuovi oligarchi milanesi, vota a sinistra ma non ha contatti diretti con i leader o i partiti. "Il fatto è che per fare lobby il Parlamento italiano a noi non serve. Due terzi delle nostre attività sono all'estero, 60 mila dipendenti fuori Italia e un settanta per cento d' investitori stranieri. Il vecchio capitalismo era autarchico e cresciuto alla sottana dei partiti. Noi abbiamo con la politica un rapporto laico. Non chiediamo favori, appalti, rottamazioni ma progetti ambiziosi, regole per competere e servizi a livello europeo. A me piacerebbe per esempio che Malpensa non fosse uno dei peggiori aeroporti del mondo. Ma ci è andato?".

Ci sono andato. Un'ora almeno di coda fra check-in e controlli, la metà dei voli in ritardo, il maresciallo che mi ha mostrato negli schermi le facce degli addetti ai bagagli già licenziati per furto e tutti riassunti: un suk. Fra i ricchi milanesi non se ne trova più uno che ammetta d' aver votato Berlusconi. Non è soltanto il trasformismo secolare delle classi dirigenti e del popolo milanesi. E' che la nuova razza padrona, Profumo e il mondo che lo precede e lo circonda, da Giovanni Bazoli a Corrado Passera, i nuovi dirigenti di Mediobanca guidati dal quarantenne Alberto Nagel, è antropologicamente lontana dal modello arcitaliano di berlusconiano. Respinto l'ultimo assalto restauratore dei "furbetti del quartierino", guardano a un futuro internazionale. Sono i protagonisti del boom della borsa milanese, al quarto anno di crescita consecutivo, con un più 16 per cento nel 2006 e una capitalizzazione che ha ormai raggiunto 777 miliardi, la metà del Pil nazionale. Umberto Maiocchi, veterano di piazza Affari per 60 anni, era stato il primo a predire nel ' 93 all'Herald Tribune la fine delle grandi famiglie.

Visto che ha azzeccato la prima, gli chiedo un'altra profezia sulla Milano del futuro. "Il paese si sta internazionalizzando a un ritmo spaventoso. E a Milano dieci volte di più, perché qui arriva quasi la metà degli investimenti stranieri in Italia. La fine di Tangentopoli, vissuta all'epoca come un lutto, si è rivelata al contrario un volano formidabile per l'economia. I milanesi non sono mai stati tanto ricchi". Il vento della globalizzazione soffiava in realtà già prima delle inchieste. "È stato anzi la vera causa storica di Mani Pulite, quello che l'ha resa possibile" riflette oggi Saverio Borrelli, il mitico capo del pool.

Ora quel vento ha attraversato e scompaginato l'intera economia cittadina, perfino nei settori più simbolici dell'epopea craxiana: la pubblicità e la moda. Delle dieci grandi aziende di moda del pianeta, quattro hanno sede a Milano: Dolce & Gabbana, Prada, Armani e Versace. Ma per le due dominanti, Prada e Dolce & Gabbana, che negli anni Novanta hanno superato tutti per vendite, fatturato, quote di mercato internazionale, il celebrato rito Modit non significa molto: Prada è stata lanciata dalle sfilate newyorkesi, Dolce & Gabbana dalla star rock Madonna. "Per la prima volta da quarant' anni le sfilate milanesi sono deserte" testimonia Krizia . "Non solo la produzione ma anche i simboli sono andati altrove". Un altro effetto della globalizzazione è che tutto è diventato immateriale. La città stessa appare immateriale, avvolta in una nuvola d' affari che portano altrove, alla City londinese o a Pechino. Non si produce più nulla di concreto e la vecchia città fabbrica ha lasciato orbite vuote, crateri di buio e fango. Ma se si sale all'ultimo piano del Pirellone la prospettiva cambia, la sensazione fisica è travolgente. Gru, gru e ancora gru, a perdita d' occhio. Una foresta, un esercito di giganti al lavoro. Un cantiere di sei milioni di metri quadrati, l'area delle vecchie fabbriche, una ricostruzione da dopoguerra, più che dopo i bombardamenti. È l'affare del secolo, il grande Monopoli. Tutti, vecchi e nuovi, si sono catapultati a mettere le mani sul corpo della città.

L'intramontabile Ligresti s' è preso la testa dell'ex Fiera, gli americani del gruppo Hines le viscere commerciali fra fra Garibaldi e Isola, dove sorgerà la Città della Moda, le cooperative e Bazoli di Banca Intesa, in società con EuroMilano, hanno preso il cuore della Milano operaia, la Bovisa , destinata a diventare la sede del Politecnico. "Una città di studenti e professori al posto delle tute blu, il primo vero campus italiano" spiega l'amministratore delegato di EuroMilano, Alessandro Pasquarelli, altro quarantenne d' assalto come il suo rivale e amico di Hines, Manfredi Catella. La fetta più grossa, i polmoni a Nord e a Est, sono toccati al più misterioso dei nuovi oligarchi, Luigi Zunino.

In un'inchiesta sulla Milano dei Settanta Giorgio Bocca si chiedeva: ma chi è questo Berlusconi venuto dal nulla che a quarant' anni apre cantieri da mezzo miliardo di lire al giorno? Oggi nessuno si domanda chi sia questo piemontese di Nizza Monferrato, classe 1959, che quindici anni fa era registrato alla Coldiretti come viticultore e ora fa shopping comprando interi palazzi a Champs Elysèes e il leggendario Badrutt' s Palace Hotel di Sainkt Moritz, e soltanto a Milano ha avviato due progetti di città nella città con Renzo Piano e Norman Foster, l'ex area Falck e Santa Giulia, per due milioni e mezzo di metri cubi.

Città ideali, con grattacieli trasparenti sospesi come palafitte su immensi parchi, case iper tecnologiche, sedi universitarie, centri congressi, vivai d' impresa, moderni agorà, teatri, multisala, sistemi di trasporti e di riscaldamento a idrogeno: il Rinascimento prossimo venturo. "I più ambiziosi progetti urbanistici mai visti in Italia dal dopoguerra" si vanta lui, e non esagera. Qualcosa al cui confronto Milano 2, il microcosmo fondante dell'ideologia berlusconiana, appare come un modellino di Lego. Ma chi è Zunino? Una specie di Berlusconi "rosso", ex iscritto alla Cgil dell'agricoltura, buon amico di D' Alema e Bassolino, amicissimo di Alfio Marchini, l'ultimo dei famosi costruttori romani detti "calce e martello", circondato da parenti militanti nel Pci e ora in Ds e Rifondazione. Bel caso davvero, eppure è uno dei pochi italiani più o meno illustri dei quali è sconosciuta perfino la scheda biografica. Di persona è un tipo affascinante di visionario, un autodidatta dai mille talenti, un affabulatore capace di lunghe digressioni sul modo giusto di allevare cavalli e usare le barche.

Cerco allora di andare al sodo e gli chiedo perché mai un milanese dovrebbe comprare una casa a Sesto San Giovanni o vicino a Linate, per quanto splendide e griffatissime, al prezzo di un appartamento a via Montenapoleone. "Perché vive meglio che in centro, fa un investimento e forse perché non è un milanese. Voglio dire, sa qual è il vero problema di Milano? Che attira soldi da cinque continenti ma non persone. Gli uomini d' affari vengono, concludono e scappano. Il quaranta per cento degli appartamenti di Santa Giulia è già prenotato da business-men stranieri, inglesi, francesi, tedeschi, americani, giapponesi, cinesi. Berlusconi vendeva sicurezza a una borghesia milanese spaventata dagli anni di piombo. Noi vendiamo un investimento e uno stile di vita ai manager internazionali".

Ora, se si mette sul piatto della bilancia la silenziosa e potente ascesa degli oligarchi, lo spessore di un Profumo, le ambizioni di uno Zunino, e sull'altro piatto il vanitoso e rissosissimo agitarsi della classe politica locale, affamata di talk show, si capisce che non c' è partita, che il divorzio fra "danèe" e politica è consumato. Il declino della politica milanese è cominciato da tempo, dal folgorante esordio del primo sindaco "nuovista", Marco Formentini, a Palazzo Marino: "Dobbiamo tornare a essere una grande capitale europea" annunciò e aggiunse: "Come Boston!". "Politica e affari viaggiano ognuno per suo conto" dice Umberto Veronesi, memoria storica della città "Ma non è questo gran vantaggio. Il vecchio sistema è franato nel disonore ma all'origine aveva un suo slancio mecenatesco, una visione d' insieme dell'interesse generale e perfino una certa tempra etica, quasi giansenistica. Sa com' è nato l'istituto dei tumori? Sono andato a casa di Enrico Cuccia e gli ho esposto il progetto. Lui ha fatto dieci telefonate e in un'ora c' erano i soldi. Adesso ho da anni il progetto di una città della salute che renderebbe Milano capitale europea delle biotecnologie. Ne ho parlato con tutti, politici e imprenditori. Entusiasti. Ma non c' è uno solo che abbia il potere di dire: questa cosa si farà".

L'ultimo contatto diretto del professor Veronesi con il Comune risale a quindici anni fa: "Volevano un'idea per migliorare la salute dei milanesi e gliel'ho data: costruite trecento chilometri di piste ciclabili, come ad Amsterdam. Fantastico! Hanno urlato e poi Formentini ha riaperto il centro al traffico". Il risultato è che Milano, con la migliore rete di metropolitana nazionale, ha un traffico levantino, peggiore di Roma e Napoli. Qui avvengono un quarto degli incidenti stradali di tutta Italia e sono settecento i ricoverati d' urgenza per smog ogni anno. I parametri d' inquinamento rimangono fuori controllo per trecento giorni su 365. Il traffico è una tragedia materiale e una metafora sociologica delle "quattro Milano" che vivono l'una accanto all'altra e non s' incontrano mai.

Le ha individuate Guido Martinotti: la prima, i residenti veri e propri, ormai minoranza sempre più anziani ("tre nonni per ogni bambino"); la seconda, i pendolari; la terza, i consumatori della città che vengono per divertirsi e comprare; la quarta, gli uomini d' affari. E poi c' è il quinto stato, gli immigrati. Sono la forza lavoro del nuovo boom, gli operai dei cantieri edili e delle centomila "fabbrichette" dell'hinterland, i camerieri, lavapiatti, baby sitter, domestici, il 15 per cento della popolazione, un quarto dei bambini milanesi. Eppure non è mai stato costruito un solo nuovo quartiere per loro, come furono per i meridionali le deprecate ma oggi invidiabili "coree" degli anni Cinquanta. Se la politica ne parla è soltanto per "l'allarme criminalità", le famose "bande straniere" che in verità esistono ma sono composte da semplici manovali, agli ordini dei calabresi che da dieci anni comandano la Milano "nera" e ne hanno fatto la capitale europea della cocaina.

In galera, naturalmente, ci finiscono soltanto i manovali stranieri. Così è facile tenere comizi sull'allarme immigrati, le bande slave o maghrebine, i fantomatici "finanziamenti di Al Qaeda" alla moschea. Tanto del resto si occupa don Colmegna. C' è un campo rom da sgomberare? Ci sono duecento profughi da accogliere? Ci pensa don Colmegna. La città che ha inventato in Italia la solidarietà laica e socialista, che ha fondato l'Umanitaria copiata da tutte le socialdemocrazie europee, oggi delega l'intero ramo "problemi sociali" a un ex prete operaio di Sesto San Giovanni che incarna l'antico mito cittadino del "sindaco dei poveri". Ma con un linguaggio da politico raffinato e colto, uno stile da manager e una premessa secca: "A me il buonismo fa schifo e poi non serve a niente".

La Casa della Carità, in fondo a viale Padova, ai confini della città con il deserto che una volta era la Marelli , è uno dei posti più allegri e vitali di Milano. Una bella cascina, un'oasi di vecchia Lombardia piena di suoni e canti, circondata da quei casermoni anonimi e muti dove si è scritta la vera storia di Milano, dove prima ci abitavano gli impiegati di Olmi, poi gli operai meridionali, ora marocchini e cinesi. Don Colmegna non si limita a risolvere i problemi pratici ma organizza mostre e feste di quartiere, porta la Scala qui e gli ottoni zingari al Piccolo, fa incontrare i ricchi con i paria della piramide cittadina. "Quello che manca a Milano è l'urbanità, la civiltà cittadina, l'arte dell'incontro". Alla sua mensa si ritrovano le vecchie famiglie aristocratiche e i nuovi oligarchi, la Scala e il Piccolo, la destra e la sinistra. Ci vanno Profumo e Bazoli e c' è andato Fedele Confalonieri che s' è quasi commosso: "Ho ritrovato lo spirito della Milano del dopoguerra. Massì, sarò retorico: il coeur in man. La capacità di accogliere e integrare, quelle piccole botteghe di pane che mi ricordano i prestinai d'una volta. Magari, con la scritta in arabo".

 

 

Il guru delle gru (il palazzinaro Luigi Zunino)

Giovedì 30 Novembre 2006 01:00 Marco Travaglio
Stampa PDF

dal giudiziouniversale.it

Il guru delle gru

di Marco Travaglio

Cinquecento euro al metro quadro: case economiche? E' il prezzo del solo pavimento (in rovere). Così il finanziere-immobiliarista Luigi Zunino sta ricostruendo Milano e facendo affari d'oro
"Milano è la città in cui un certo Berlusconi di 34 anni costruisce Milano-2, cioè mette su un cantiere che costa 500 milioni al giorno. Chi gliel'ha dati? Non si sa... Noi saremmo molto curiosi di sapere dal signor Berlusconi la storia della sua vita: ci racconti come si fa a passare dall'ago al milione o dal milione ai cento miliardi". Così scriveva Giorgio Bocca del futuro Cavaliere nel marzo 1976. Le stesse parole si potrebbero usare oggi per Luigi Zunino, l'immobiliarista-finanziere piemontese del gruppo Risanamento Spa che nel 2003, a 44 anni, è diventato il più giovane cavaliere del lavoro, poi il più giovane inquilino del salotto buono di Mediobanca e intanto, pezzo per pezzo, si sta comprando non Milano-2: Milano-1. Cioè Milano. Scrive Curzio Maltese nella sua recente inchiesta per Repubblica sulla nuova Milano: "Se si sale all'ultimo piano del Pirellone, la sensazione fisica è travolgente. Gru, gru e ancora gru, a perdita d'occhio... Un cantiere di sei milioni di metri quadrati, l'area delle vecchie fabbriche, una ricostruzione da dopoguerra. È l'affare del secolo, il grande Monopoli... La fetta più grossa, i polmoni a Nord e a Est, sono toccati al più misterioso dei nuovi oligarchi, Luigi Zunino".
La sua biografia sta tutta in un biglietto da visita. Piemontese di Nizza Monferrato, classe 1959, quindici anni fa Zunino era registrato alla Coldiretti come "vitivinicultore". Ancora minorenne, comprava e vendeva cavalli. Poi le tenute agricole. A 24 anni ha già messo da parte il primo miliardo di lire. E inizia a collezionare una miriade di ipermercati, costruiti chiavi in mano per Esselunga e Unes. Il balzo in Borsa è del 1998, quando si accaparra la Bonaparte Spa e in seguito l'Aedes, entrambe quotate. Acquista l'area di Rogoredo- Montecity, che diventerà Milano- Santa Giulia. Da allora non si ferma più. Compra palazzi a Parigi sugli Champs Elysées e il famoso Badrutt's Palace Hotel di Sankt Moritz. Rileva l'Ipi e il Lingotto dalla Fiat. Intanto completa l'operazione Milano, con due progetti di "città nella città" nientemeno che con Renzo Piano e Norman Foster, rispettivamente nell'ex area Falck di Sesto San Giovanni e nel quartiere Santa Giulia. Una cosina da 2,7 milioni di metri cubi in tutto, che ancora Maltese descrive così: "Città ideali, con grattacieli trasparenti sospesi come palafitte su immensi parchi, case ipertecnologiche, sedi universitarie, centri congressi, vivai d'impresa, moderni agorà, teatri, multisala, sistemi di trasporti e di riscaldamento a idrogeno: il Rinascimento prossimo venturo". Lui, Zunino, li definisce "i progetti urbanistici più ambiziosi mai visti in Italia dal dopoguerra". E non esagera mica: solo i pavimenti dei megappartamenti, in rovere, costano 500 euro al metro quadro. Altro che Milano- 2. Troverà 20-60 mila persone disposte a svenarsi per acquistarli? Lui giura di sì. Ma perché mai un milanese dovrebbe comprar casa da lui a Sesto San Giovanni o a due passi da Linate, per giunta pagandola tanto oro quanto pesa? "Il vero problema di Milano - sentenzia - è che attira soldi da cinque continenti, ma non persone. Gli uomini d'affari vengono, concludono e scappano". Ma ora corrono da lui: "Il 40% degli appartamenti di Santa Giulia è già prenotato da businessmen stranieri. Berlusconi vendeva sicurezza a una borghesia milanese spaventata dagli anni di piombo. Noi vendiamo un investimento e uno stile di vita ai manager internazionali".
Finora gli è filato tutto liscio, anche se non ha sempre fatto tutto da solo. Da anni lavora in tandem con l'immobiliarista romano Danilo Coppola, col quale non fa che scambiare - in un vortice di vendite e acquisti - terreni e immobili, spesso gli stessi, da Porta Vittoria all'ex Falck, per un valore complessivo di un miliardo di euro. I due fanno lo stesso per l'area Fiat di Firenze-Novoli. E insieme finiscono nei guai con la giustizia: nel 2005 la Procura di Milano, indagando sull'affaire Antonveneta e dintorni, li incrimina per aggiotaggio. Al centro dell'inchiesta sui due reucci del mattone ci sono due immobili milanesi, in via Montenapoleone e via Manzoni, acquistati da Zunino con un finanziamento della Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani e rivenduti a Coppola in cambio di 3,9 milioni di azioni Antonveneta, proprio mentre infuriava la battaglia per la banca padovana e le azioni volavano alle stelle.
Qualcuno lo chiama "il Berlusconi rosso", perché un tempo Zunino era iscritto alla Cgil Agricoltura e ora è amicone di D'Alema e Bassolino, nonché del costruttore rosso Alfio Marchini. Con quest'ultimo, nel '99, ha acquistato da Bankitalia la Società Risanamento Spa di Napoli, padrona di 5 mila appartamenti nel centro città. Prezzo stimato: 821 miliardi. Prezzo pagato: 490. Il tutto ai tempi del governo dell'amico D'Alema, nella città amministrata dall'amico Bassolino. Altri solidi aiutini arrivano a Zunino dal suo consulente speciale Giuseppe Garofano detto "il Cardinale", già stratega della Ferruzzi- Montedison condannato per la maxitangente Enimont, tornato in affari nei primi anni 2000 e da sempre vicinissimo all'Opus Dei. E, per completare il quadro delle amicizie, ecco la cronaca su Dagospia della sua festa di compleanno del 2003 nella tenuta La Campana - mille ettari vicino a Siena, già di proprietà della Gemina: "Orchestra, buffet da mille e una notte e champagne a volontà con un centinaio di invitati, tra cui Vittorio Emanuele di Savoia, Marina Doria, Ubaldo Livolsi, Gianni Varasi, Arnaldo Borghesi e la famiglia Gancia". Si spiega anche così l'atterraggio morbido nel salotto buono di Mediobanca, di cui Zunino, con la moglie Stefania Cossetti, ha raggiunto il 3,8 per cento delle quote. L'ex vitivinicultore, in vent'anni, ne ha fatta di strada. Chi nasce bevendo, vive mangiando.   

LUIGI ZUNINO

> Anagrafe: nato a Nizza Monferrato (Asti) il 1° maggio 1959, sposato con Stefania Cossetti

> Professione: finanziere e immobiliarista ("lui dice "sviluppatore immobiliare")

> Hobby: vini, cavalli, barca

> Cariche: presidente e amministratore delegato di Risanamento Spa (di azionista di maggioranza); amministratore delegato di Milano Santa Giulia presidente e amministratore delegato Tradim Spa

> Amici: D'Alema, Bassolino, Marchini, Garofano, Coppola, Vittorio Emanuele Savoia

> Nemici: non pervenuti

> Portafoglio: un patrimonio immobiliare da 5 miliardi di euro

> Giudizio: tre soli (con riserva)  

 

Siena, la Banda dei Quattro che ha detto no

Mercoledì 26 Luglio 2006 01:00 Gianni Barbacetto
Stampa PDF
26.07.2006

Siena, la Banda dei Quattro che ha detto no

I Ds senesi hanno rifiutato gli inviti del segretario del loro partito, Piero Fassino, a entrare nel sudoku bancario a fianco di Unipol. Subito additati come isolazionisti e «medioevali», ora possono essere considerati accorti e lungimiranti. Ma perché lo hanno fatto? E quali saranno le loro prossime mosse?

di Gianni Barbacetto

Sarà Siena a salvare la sinistra? Saranno i Ds senesi a salvare il soldato Piero, assediato dagli alleati in nome della questione morale? Perché qui hanno detto no. Un no chiaro e pesante. Sono rimasti fuori dai giochi del gruppo bipartisan lanciato nel grande assalto che doveva conquistare, con una manovra a tenaglia, Antonveneta, Bnl, Corriere della sera. Possono così ambire a rappresentare, di fronte all’Italia intera, la sinistra e i Ds che hanno rifiutato le scalate occulte, le manovre sotterranee, le amicizie pericolose, le commistioni con personaggi poi finiti sotto indagine.
Per capire se Siena riuscirà a salvare il soldato Piero bisogna venire qui, in Piazza del Campo, che ha appena visto il trionfo al Palio della contrada della Torre, restata a becco asciutto per 44 anni. Come a dire: prima o poi, viene anche il tuo momento. Sta arrivando anche il momento dei senesi, finora criticati per il loro gran rifiuto?
In Piazza del Campo, o nelle immediate vicinanze, hanno i loro uffici quelli della Banda dei Quattro, quelli che hanno detto no. Sono i quattro quarantenni che governano Siena: il sindaco Maurizio Cenni, il presidente della provincia Fabio Ceccherini, il segretario dei Ds Franco Ceccuzzi, il presidente della Fondazione Montepaschi Giuseppe Mussari. Sono quattro molto attivi, determinati, potenti. Tutti democratici di sinistra doc. Anche Mussari, che oggi veste impeccabili completi tasmanian da grande banchiere e lavora nel trecentesco Palazzo Sansedoni, ha in comune con il più informale Ceccuzzi una storia tutta di sinistra: entrambi, da studenti, hanno occupato l’università, negli anni della Pantera, quando rettore era Luigi Berlinguer (esistono anche foto che ritraggono Mussari con la kefiah palestinese, raccontano a Siena). Tutti e quattro hanno avuto in tasca la tessera della Fgci, poi quella dei Democratici di sinistra.
E come potrebbe essere diversamente? Qui il partito di Fassino raccoglie senza troppa fatica il 38 per cento dei voti in città e addirittura il 45 in provincia. Di conseguenza, esprime tutte le cariche che contano e tiene insieme, miracolosamente, uno dei centrosinistra meno litigiosi d’Italia, dai socialisti ai bertinottiani. Ebbene, bisogna parlare con la Banda dei Quattro per capire che cosa è successo e che cosa potrebbe succedere. E per comprendere dove finisce la questione finanziaria e dove comincia la questione morale che si intrecciano in questa vicenda di soldi, politica, banche e potere. Di interviste vere e proprie, neanche parlarne. Qui l’ultima cosa che vogliono è riaprire polemiche e ferite dentro la sinistra e dentro i Ds. Sono e vogliono restare uomini di partito. Ma Siena è città ospitale e aperta, che ragiona, si confronta, discute, spiega. Dunque, prima di tutto, ecco i fatti, visti da Piazza del Campo.

Riassunto delle puntate precedenti. Giovanni Consorte detto Gianni – gran capo dell’Unipol, la compagnia assicurativa delle cooperative rosse – decide da Bologna, ma non senza forti sostegni a Roma, di partire alla conquista della Bnl. Per compagni di strada ha una variopinta compagnia di banchieri e finanzieri «padani» (Gianpiero Fiorani della Popolare di Lodi e Chicco Gnutti di Brescia) e di mattonari romani (da Stefano Ricucci a Danilo Coppola), impegnati a loro volta a scalare, a geometria variabile, Antonveneta e Corriere: forse con amici ricchi e potenti che stanno per ora nell’ombra; e non senza irregolarità e reati, almeno secondo la Consob e le procure di Milano e Roma. Ma questo lo si scoprirà solo in seguito.
Consorte vuole dare una grande banca al movimento cooperativo. Non può però farcela da solo: la preda è grande cinque volte il predatore. Infatti di fronte a Bnl (8 miliardi di euro di capitalizzazione in Borsa), Unipol (con i suoi 1,7 miliardi di euro) sembra un topolino che vuole ingoiare un elefante. In più, è in corso una regolare offerta pubblica d’acquisto (opa) delle azioni Bnl da parte di una grande banca catalana, il Banco di Bilbao (Bbva), con l’accordo della maggioranza degli attuali soci italiani. Che fare? Consorte non si dà per vinto e per realizzare la prima grande scalata a debito di una banca chiede aiuto alle banche. Ma prima spera in Montepaschi, che fa riferimento alla stessa area politica. Facendo insieme l’operazione, progettano Gianni e i suoi sponsor, si creerà un fortissimo polo di quella che viene comunemente chiamata «finanza rossa».
Il Monte dei Paschi di Siena non è solo la più antica banca del mondo, è anche un istituto grande e florido, è la più grande azienda della città, è la quinta banca italiana per capitalizzazione di Borsa (quasi 8 miliardi di euro), più di 1.800 sportelli, 27 mila dipendenti in Italia e all’estero, 513,7 milioni di utile netto nel 2004, 153 milioni di utile netto nel primo trimestre del 2005. Un gioiello. «E volevate che lo buttassimo in un’impresa in cui avevamo tutto da perdere e niente da guadagnare?», dicono oggi a Siena.
Sembra preistoria il passato recente, con la banca in mano alla massoneria e gli ingenti (e ingiustificati) finanziamenti a un giovane imprenditore lombardo iscritto alla P2 di nome Silvio Berlusconi. Oggi l’azionista di controllo del Montepaschi, con una maggioranza blindata (il 58 per cento, di cui 49 con diritto di voto nelle assemblee), è la Fondazione Montepaschi presieduta da Mussari, l’unico non senese di questa storia senese: è nato a Catanzaro e l’accento ancora lo ricorda.
La Fondazione , oltre a controllare la banca, è la grande benefattrice di Siena. Non c’è iniziativa culturale, ricreativa, di volontariato – dalle mostre più prestigiose all’ultima scuola di tango – che non sia finanziata dalla Fondazione. Ha un patrimonio di oltre 5 miliardi di euro e ormai solo il 40 per cento dei suoi utili li riceve dalla banca. Negli ultimi quattro anni ha distribuito «nel tessuto sociale» ben 500 milioni di euro, 145 dei quali nel 2004. Facendo i calcoli, fanno 26.700 euro per ogni chilometro quadrato della provincia di Siena.
Di chi è la Fondazione ? È controllata dal Comune di Siena (che nomina otto dei suoi 16 «Deputati generali») e dalla Provincia (che ne nomina cinque). Gli altri tre li nominano, uno a testa, la Curia , l’Università, la Regione. Che c’è di male, dicono a Siena? Il Monte è un bene collettivo, fin dalla sua nascita nel 1472, quando gli furono conferiti gli affitti dei pascoli (i «paschi») per poter finanziare le intraprese dei senesi. Dunque è la collettività a deciderne le sorti. Oggi lo fa attraverso i voti dati al Comune e alla Provincia, che di fatto governano la Fondazione che controlla la banca. Arcaico? «Ma per favore: ci sono fior di banche pubbliche anche in Germania, in Austria, in Francia, in Belgio, e nessuno grida allo scandalo...».
Ma torniamo al sudoku bancario. Consorte chiede aiuto a Siena. Ma Siena dice no. Dalla Fondazione, dal Comune, dalla Provincia, dal Partito, la Banda dei Quattro risponde come un sol uomo: non se ne parla nemmeno.

I conti e la morale. Perché no? «A Siena abbiamo i computer e le calcolatrici. Abbiamo fatto i conti e abbiamo visto che non ci conveniva», rispondono a Palazzo Sansedoni come a Palazzo comunale. «Costava troppo e ci portava in casa debiti e problemi per il futuro. Forse poteva essere conveniente per Bologna, ma non per Siena». Per Unipol, ma non per Montepaschi. «Se oggi, per ipotesi, facessimo una fusione con la più grande banca italiana, Unicredit, la Fondazione Montepaschi sarebbe il primo azionista della megabanca che ne nascerebbe. Nell’operazione con Unipol, invece, avremmo sborsato molti soldi e non avremmo avuto il controllo di nulla. Perché mai dovremmo portare acqua ai mulini di Bologna senza contare niente? Noi abbiamo il dovere di creare valore per i tutti i nostri azionisti, non possiamo inseguire operazioni politiche».
Al gran rifiuto sono seguite le critiche. Poi è successo quel che è successo: le indagini, le intercettazioni, la scoperta che il variegato gruppo degli scalatori stava facendo un gioco comune, le polemiche dentro la sinistra sulla questione morale, le accuse che fosse in corso una sorta di Bicamerale degli affari (questo a te e questo a me, il Corriere a destra, la Bnl a sinistra...). A Siena hanno tirato un sospiro di sollievo. «Non siamo contenti delle disgrazie degli altri, per carità. Né ci piacciono gli attacchi ai Ds, al nostro partito. Ma abbiamo riflettuto: dopo il nostro rifiuto a entrare nell’affare Bnl, da Roma i vertici del partito ci hanno segnati a dito, ci hanno detto che siamo localisti, chiusi, prigionieri della senesità. Eravamo isolati. L’ex ministro Vincenzo Visco ha addirittura dichiarato che siamo medioevali...». Così si sfogano qui, guardando di tanto in tanto Piazza del Campo occupata dai turisti. «Poi è scoppiato lo scandalo, tutti hanno potuto leggere le intercettazioni dei protagonisti delle scalate, comprese le telefonate degli scalatori di Bnl. E allora abbiamo pensato: eravamo medioevali noi, eh?».
«Non avevamo certo la percezione di che cosa ci fosse sotto», spiega Maurizio Cenni, ex funzionario del Montepaschi che si è messo in aspettativa per fare il sindaco, «ma poi leggi le intercettazioni, colleghi, comprendi, e ti detergi la fronte dicendo: meno male che siamo rimasti fuori!». Uno sguardo agli splendidi affreschi delle stanze municipali e poi: «Dicono che noi di Siena siamo presuntuosi: forse è vero, ma sa, qui abbiamo raggiunto un po’ d’esperienza sulle questioni della finanza...». Perché certo il gran rifiuto «è stato deciso con le calcolatrici», ribadisce il presidente della Provincia Fabio Ceccherini, «ma avevamo qualche preoccupazione a proposito dei compagni di viaggio. Li conoscevamo. E non ci convincevano». Aggiungono a Palazzo Sansedoni: «Che senso ha dare 2 miliardi e mezzo di euro a gente come Stefano Ricucci, Danilo Coppola, Giuseppe Statuto, Vito Bonsignore, Francesco Gaetano Caltagirone... Carburante per nuovi incendi». Due miliardi e mezzo: è quanto Unipol ha pagato le azioni di Bnl in mano agli scalatori.
«Lo ripetiamo, abbiamo detto no perché l’operazione per noi non era conveniente, ma la domanda che ci siamo fatti è: se ci fosse convenuto, avremmo detto sì? Non lo sappiamo. Non si può rispondere in astratto. Certo è che la Fondazione da tempo sta riflettendo sul rapporto tra etica e finanza. Il 3 settembre ci troveremo a Ravello proprio per continuare la riflessione. Ma noi crediamo che si debba continuare a distinguere tra produzione e lavoro da una parte e rendita finanziaria e pura speculazione dall’altra. Che non si debba premiare queste ultime a scapito dei primi. E siamo convinti che i comportamenti etici, a lungo andare, si trasformino in buona finanza, mentre le operazioni non etiche divengano, alla fine, cattivi affari». Lo ribadisce anche il segretario Ds Franco Ceccuzzi: « La Fondazione non può fare qualunque affare, anche perché una cattiva immagine finisce per produrre cattivi affari».

Flash back con morale (politica). Per capire il gran rifiuto, spiegano qui a Siena, è necessario ricordare che cosa è successo alla banca negli anni scorsi. Bisogna raccontare almeno due storie. La prima si snoda tra il 2002 e il 2003. «Il Montepaschi stava per comprare Bnl. Eravamo tutti d’accordo, Fondazione, Comune, Provincia. Per noi l’operazione era conclusa: le due banche si sarebbero fuse. Era davvero un affare: Siena non avrebbe sborsato una lira, ma avrebbe messo sul piatto le sue azioni; il concambio allora era favorevolissimo: una azione Bnl contro 0,60 azioni Montepaschi. Alla fine, la Fondazione avrebbe controllato il 30 per cento della nuova creatura, mentre i nostri alleati del Banco di Bilbao avrebbero avuto il 15. Poi si misero di mezzo il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e il governatore di Bankitalia Antonio Fazio, che bloccarono tutto».
Racconta un testimone diretto, area Ds: «Parlai con il governatore, che pretendeva che la Fondazione si fermasse al 20 per cento e gli spagnoli al 10. Mi disse: “È una buona operazione. Ma Bankitalia non la può autorizzare. Non può permettere che una banca ex pubblica come la Bnl , ora privatizzata, ridiventi pubblica finendo a una Fondazione controllata da un Comune e una Provincia”. Poi aggiunse: “Guardi che questa posizione trova consensi anche dentro la sua parte politica...”. Ora mi è venuto questo pensiero: vuoi vedere che quella sponda a sinistra evocata dal governatore sperava che il Montepaschi, invece di ingrandirsi a Roma con Bnl, finisse nell’orbita di Bologna, verso Unipol?».
La seconda storia è di poco precedente. Nel 2000 Montepaschi s’imbarca nell’avventura salentina. Compra a caro prezzo (2.300 miliardi di lire) la Banca del Salento. Ma erano tempi di bolla tecnologica e Banca 121 (così sarà ribattezzato l’istituto salentino) era considerata un gioiello di banca on line. Finì comunque maluccio: la bolla si sgonfiò, Banca 121 non portò profitti e a Siena arrivò come direttore generale lo stratega della Banca del Salento, Vincenzo De Bustis, sponsorizzato da Massimo D’Alema.
Oggi De Bustis se n’è andato da Siena ed è diventato il numero uno della filiale italiana di Deutsche Bank, grande finanziatrice di Stefano Ricucci e compagnia scalante. Ma la sua eredità a Siena pesa ancora: la Consob il 24 giugno 2005 ha comminato una maximulta a 40 manager (tra cui lo stesso De Bustis) per non essersi «comportati con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei clienti»: avevano venduto, attraverso Banca 121 e Montepaschi, prodotti bancari «strutturati» e complessi, mascherati sotto nomi rassicuranti (MyWay, 4You, Btp-tel, Btp-index, Btp-on line...). Non solo: al Monte dei Paschi è arrivata una doppia condanna, dal tribunale di Firenze e da quello di Brindisi, per mancata trasparenza proprio sui prodotti finanziari MyWay e 4You. Più in generale, la banca di Siena ha dovuto incassare una batosta sul piano della credibilità: per una banca retail, fondata sui piccoli clienti, è stato pesantissimo essere accusati di avere in sostanza imbrogliato i piccoli risparmiatori...
Che cosa s’impara da queste due storie? Morale numero uno: «Perché mai avremmo dovuto comprare Bnl oggi, pagandola il doppio di quanto eravamo pronti a sborsare tre anni fa, e per di più senza ottenerne il controllo?». Quello stesso Fazio che ieri aveva bloccato tutto, oggi è il gran tifoso dell’operazione. Ma Mussari lo aveva dichiarato all’Ansa già prima che la bufera iniziasse, il 30 aprile 2004, al termine dell’assemblea della banca, quando il concambio era alla pari: «Per noi la vicenda Bnl è irrevocabilmente chiusa». Non c’era più convenienza. Figurarsi oggi, con i valori di Bnl gonfiati dalle scalate. E con quei compagni di strada...
Morale numero due: attenti alle proposte che vengono da una certa area politico-finanziaria. «Abbiamo già dato». De Bustis a Siena, come capirete, non è proprio amato. E non è il caso di sostituirlo con un ancora più ingombrante Gianni Consorte. Qui sono tutti dalemiani, in politica, ma quando si tratta d’affari si guardano bene dai finanzieri sponsorizzati da Massimo D’Alema, il vero convitato di pietra di tutta questa vicenda: è lui il grande protagonista silenzioso, che resta nell’ombra mentre l’incauto Fassino dice, ripete, si espone, dichiara, chiede, parla, implora, pretende...
Dopo il gran rifiuto, è arrivata la vendetta. Così interpretano a Siena l’atteggiamento di due esponenti dalemiani, Massimo Bonavita e Nicola Latorre, che si sono astenuti in Parlamento sul cosiddetto «emendamento Eufemi» che vorrebbe porre un tetto del 30 per cento alle Fondazioni nelle banche. Una legge su misura per tosare Siena, che ora ha il 49 in Montepaschi. Latorre, ex segretario di D’Alema, è quello che gli ha fatto conoscere De Bustis. Dopo il voto ha dichiarato: «Le Fondazioni sono il simbolo della conservazione». Poi le intercettazioni telefoniche hanno rivelato (seppure con l’omissis di una telefonata segretata) che era in contatto con gli scalatori.
Ma erano davvero tutti d’accordo, a Siena, contro la scalata? Le intercettazioni hanno rivelato una piccola crepa: Stefano Bellaveglia, dalemiano doc, vicepresidente di M0ntepaschi, è stato registrato mentre l’8 luglio diceva a Chicco Gnutti: «È un’operazione che avrei voluto far fare al Monte, ma non ci sono riuscito, io sto con D’Alema e Fassino, ma bisogna tenere conto del fatto che qui c’è il Comune, la Provincia , e l’azionista, che non la pensano allo stesso modo». Bellaveglia, altro quarantenne simpatico con braccialetto, jeans e gomma americana, appena resa nota l’intercettazione ha smentito ogni disaccordo con la Banda dei Quattro. «A noi non ha mai espresso alcun dissenso», dicono i Quattro. «Certo, poi ha dato un’intervista a l’Unità in cui faceva intravvedere spiragli d’apertura nei confronti di Unipol. E così ci ha fatto perdere due punti in Borsa», commentano a Palazzo Sansedoni.

Fassino al telefono. Occorre a questo punto chiarire un paio di cose. A Siena non sono verginelle. Qui anche i Ds sanno bene, per lunga esperienza diretta, che cosa significhino il potere, la politica, la finanza. Non pensano mica che il denaro sia lo sterco del demonio: sono cresciuti a Palio e Montepaschi... E del diavolo sono perfino soci: il Montepaschi ha il 9,59 per cento di Hopa, la finanziaria di Gnutti, che è addirittura vicepresidente della banca.
Altra caratteristica dei «comunisti» senesi: non hanno alcuna vocazione eretica nei confronti del partito, sono per la gran parte schierati con la maggioranza dalemiana e fassiniana. Però... Però proprio per questo fanno bene i loro conti. E quando c’è da dire no, dicono no. Anche a Fassino in persona, come ha fatto il segretario Franco Ceccuzzi. Sì, Fassino ha telefonato a Siena, per caldeggiare l’alleanza con Gianni Consorte. E come ha fatto Ceccuzzi a disobbedire al numero uno del partito? «Gli abbiamo semplicemente spiegato che la risposta era no, perché l’affare non era conveniente per Siena. Per ragioni di mercato, non per isolazionismo, come hanno invece detto, o perché saremmo medioevali: non siamo affatto contrari alla crescita del Montepaschi, alla sua espansione, magari anche all’estero. Crescerà, la banca. Ma non così».

Chi ha detto no. Bravi ai senesi non l’ha detto ancora nessuno. Nessuno ha loro riconosciuto i meriti di essere rimasti fuori dai giochi sporchi, per intuito o solo per fortuna. Ma non sono soli, in questa scelta. Nei giorni scorsi Fassino – dopo aver ripetutamente difeso la eguale dignità imprenditoriale degli immobiliaristi rispetto agli industriali e aver per qualche giorno traccheggiato sulla richiesta di dimissioni di Fazio, «per non indebolire l’istituzione» – ha respinto al mittente tutte le critiche ricevute sulla questione morale, spiegandole con la concorrenza interna al centrosinistra: alcuni partiti dell’Unione, dalla Margherita all’Udeur, avrebbero alzato la voce per aumentare il loro peso nell’alleanza e rosicchiare voti al primo partito della sinistra. «Per spolpare l’osso dei Ds», come ha sintetizzato Vannino Chiti, il coordinatore del partito.
Ma la storia dell’osso non spiega le preoccupazioni di Romano Prodi, che per primo (in un’intervista al Corriere della sera già il 20 luglio) si è mostrato preoccupato della possibile apertura di una nuova stagione di commistioni tra politica e affari. E poi non spiega gli interventi preoccupati sulle scalate bancarie che sono venuti da dentro i Ds: da Franco Bassanini, senatore eletto proprio a Siena, ma anche da Giuliano Amato, da Roberto Barbieri, da Enrico Morando. Non spiega neppure le cautele di Lanfranco Turci, ieri presidente di Lega coop e oggi senatore Ds, che è venuto a Siena per un affollato dibattito su «Siena, città della finanza».
Non spiega le contrarietà di tanti dentro il sindacato, dal numero uno della Cgil Guglielmo Epifani fino al segretario regionale della Fisac (i bancari della Cgil) dell’Emilia-Romagna, Giorgio Romagnoli, che ha definito quella di Unipol «una cattiva soluzione, non certo un esempio di trasparenza. Un’operazione pericolosissima, azzardata, sbagliata». Non spiega la durezza di Domenico Moccia, che della Fisac-Cgil è il segretario generale, quando afferma che Consorte sta mettendo a rischio il patrimonio materiale e morale delle cooperative e che «la sinistra non può accettare il modello Pretty Woman, film in cui il finanziere interpretato da Richard Gere vuole distruggere un’impresa che sta finanziariamente strangolando per realizzare un’operazione puramente speculativa». La storia dell’osso da spolpare non spiega infine la freddezza nei confronti dell’operazione Unipol-Bnl di una parte dello stesso mondo cooperativo, da Turiddu Campaini di Unicoop Toscana, alle coop dell’Umbria, fino al lombardo Silvano Ambrosetti. C’è insomma tutto un mondo, interno alla Quercia, che non applaude neanche un po’ il boss dell’Unipol Giovanni Consorte, le sue scelte e le sue cattive compagnie. Anzi. Dentro questo mondo ci sono motivazioni e preoccupazioni diverse, ma tutti, con belle maniere, accenti differenti e modi gentili, sono preoccupati di una cosa sola: che la partita giocata da Consorte coinvolga tutto il partito. E magari finisca per trascinarlo nel fango. «È lui il baco», si spinge a dichiarare un Ds senese. Perché Fassino non fa un salto a Siena? In fondo qui di banche hanno esperienza. Fin dal 1472.
 

I futuri scalatori di Telecom, di Bnl, di Antonveneta...

Venerdì 13 Gennaio 2006 01:00 Gianni Barbacetto
Stampa PDF

13.01.2006

I futuri scalatori di Telecom, di Bnl, di Antonveneta,
del «Corriere della sera» s’incontrano nel 1998.

Quando la Banca agricola mantovana è assalita dal Monte dei Paschi di Siena

di Gianni Barbacetto

La scalata a Telecom è la prima operazione di quelli che poi diventeranno «i furbetti del quartierino». Emilio Gnutti, Giovanni Consorte, Gianpiero Fiorani hanno tutti una parte in commedia già nella «madre di tutte le opa». Gnutti è uno dei protagonisti di primo piano. Fiorani è più defilato, ma offre i servizi bancari (e i contatti all’estero) della sua Popolare di Lodi a un Consorte che, da un giorno all’altro, fa il grande salto e da assicuratore del mondo cooperativo diventa grande finanziere nazionale. Con loro c’è anche un giovanotto romano ancora sconosciuto: un certo Stefano Ricucci di cui non si accorge ancora nessuno, ma che, zitto zitto, ha stretto già ottimi rapporti con gli scalatori, visto che (come racconta Mario Gerevini sul CorriereEconomia del 12 settembre) tra il 1998 e il 1999 investe grosse cifre, guarda caso, in Olivetti e in Tecnost: due aziende che, coinvolte nella scalata Telecom, cresceranno rispettivamente del 500 e del 700 per cento. Quando si dice la preveggenza...

Pavarotti sotto il tendone. Ma la nascita del primo nucleo della Bicamerale degli affari è precedente. Il luogo è Mantova. L’anno è il 1998, alla vigilia della scalata Telecom, quando il Monte dei Paschi di Siena lancia un’opa per conquistare la Banca agricola mantovana (Bam). Il Montepaschi, oltre a essere la banca più antica del mondo, nata nel 1472, è anche il campione della finanza rossa, controllata dagli amministratori locali, tutti Ds. L’uomo forte di Siena, in quel momento, è Stefano Bellaveglia, dalemiano doc. È lui che conduce in porto l’operazione per la conquista della Bam. La Banca agricola mantovana è una solida banchetta di provincia ancorata al ricco territorio di Mantova. Dentro di sé ha due anime: quella cattolica e popolare, sostenuta dal tessuto dello cooperative bianche; e quella rossa ed ex comunista, agganciata alle amministrazioni di sinistra nell’unico lembo lombardo che il centrodestra fatica a espugnare. Dentro la banca, in più, ci sono alcune soggettività forti: Steno Marcegaglia, il più esuberante degli imprenditori mantovani; e Roberto Colaninno, grande manager della Olivetti di Carlo De Benedetti. Colaninno ha stretto alleanza con un gruppo di bresciani che hanno un sacco di voglia di far girare i soldi che si producono dalle loro parti: Chicco Gnutti, appunto, e i fratelli Ettore, Fausto e Tiberio Lonati.
Anche Ricucci era arrivato fino a Mantova, e già nel 1995. Ma soltanto come cliente. Come mai il romanissimo giovanotto era andato ad aprire un conto 480 chilometri più a nord, presso la Banca agricola mantovana? Lo spiega Gerevini: Ricucci aveva un rapporto molto intenso con Massimo Bianconi, che nel 1995 era condirettore generale della Bam. Il rapporto era così intenso che Ricucci segue Bianconi nei suoi spostamenti professionali: nel 1995 alla Banca mantovana, nel 1998 alla Banca nazionale dell’agricoltura di Roma (che apre a Ricucci la sua prima consistente linea di credito, da 15 miliardi di lire, per il trading di Borsa), nel 2000 alla Cariverona (dove Bianconi gli concede un prestito da 20 miliardi di lire). Ma ormai a Mantova Ricucci aveva incontrato Gnutti, e la sua vita era cambiata: nel 2001 il finanziere bresciano accoglie l’aspirante immobiliarista in Hopa, la sua cassaforte, la Bicamerale della finanza, dove Ricucci incrocia anche Fiorani e Consorte. Di lì a pochi anni, i furbetti del quartierino esibiranno la loro formazione definitiva, pronti alle scalate del 2005.
Ma torniamo alla scena primaria, all’alba dei furbetti. Il 9 dicembre 1998 il Montepaschi lancia la sua opa sulla Banca agricola mantovana. La città si spacca: da una parte l’anima bianca, che promette di alzare le barricate contro i conquistatori senesi; dall’altra l’anima rossa, che li vuole accogliere come liberatori. Il Montepaschi fa una grande campagna per conquistare il consenso dei mantovani. Viene montato un grande tendone dove viene chiamato a cantare, gratis per la città, Luciano Pavarotti.
Il giorno della verità è il 20 febbraio 1999: in un altro gigantesco tendone sono chiamati ad accorrere tutti i soci della banca, che sono migliaia e devono votare sì o no alla trasformazione da popolare in spa. È l’arzigogolo inventato da un funzionario di Bankitalia di nome Gennaro D’Amico. Funzionario di Bankitalia, D’Amico escogita la soluzione tecnica per permettere le acquisizioni di banche giuridicamente particolari come le casse di risparmio e le banche popolari: Bankitalia permette le opa anche su di esse, purché si trasformino in spa prima di essere incorporate. Un arzigogolo che è stato molto d’aiuto, per esempio, a Fiorani lanciato nella sua bulimica campagnia acquisti. E, nel 1998-99, al Montepaschi. Per la cronaca, bisogna segnalare che D’Amico nel 2003 ha lasciato la Banca d’Italia e, con grande stupore dei suoi ex colleghi, è andato a lavorare alla Hopa, la holding di Gnutti. Per poco: si è poi trasferito proprio alla Popolare di Lodi.
Dunque: nel tendone di Mantova, in una fredda giornata del febbraio 1999, si scontrano bianchi contro rossi. Oltre 9.500 persone, in rappresentanza di quasi 20 mila voti. Nelle assemblee delle banche popolari, vale il principio «ogni testa un voto», a prescindere dalle azioni possedute. La battaglia è epica. Interviene anche Bruno Tabacci, che è di Quistello, provincia di Mantova: pronuncia un appassionato discorso in cui dice che se passano i senesi, la banca sarà annullata, Mantova sarà cancellata dalle mappe dell’istituto e trionferà la logica del Palio. In alternativa, la Bam avrebbe dovuto sviluppare alleanze con le banche padane, la Cariparma , la Cassa di Verona, quella di Vicenza...
Discorso inutile. I mantovani presenti votano a maggioranza no, ma con i pullman sono arrivati soci da Abbiategrasso, Modena, Reggio, Parma, Piacenza, perfino dalla Toscana. «Avevano fatto, sotterraneamente, una bella campagna acquisti, anche offrendo azioni ai nuovi assunti della banca», sostiene oggi Tabacci. Alla fine, circa il 55 per cento è per il sì, circa il 45 per cento per il no. Nella folla del tendone non si notano, ma con i senesi si sono schierati, oltre a Colaninno, anche i bresciani, Gnutti, i fratelli Lonati. Gnutti entra nell’azionariato del Montepaschi. Stringe un patto di ferro con Bellaveglia, che è il punto di congiunzione con i bolognesi dello coop rosse e in primo luogo con Giovanni Consorte. Nasce così, sotto un tendone di Mantova, il gruppo bipartisan destinato a grandi imprese, dall’opa Telecom alle scalate dell’estate 2005. Perso per strada Colaninno (che mantiene interessi industriali e si sente tradito da Gnutti che vende Telecom a Tronchetti), i furbetti bianchi e rossi crescono, trafficano, scalano. E, infine, cadono.

 

I legami di Coppola con il consulente dei Piromalli

Martedì 03 Gennaio 2006 01:00 Claudio Gatti
Stampa PDF
03.01.2006 – Il Sole 24 ore


INCHIESTA

I legami di Coppola con il consulente dei Piromalli
di Claudio Gatti

Non c'è dubbio che Danilo Coppola, co-protagonista delle recenti scalate ad AntonVeneta e Bnl e azionista al 4% di Mediobanca, creda nella diversificazione.


Di immagine oltre che di business. E quella di prendere le distanze dal proprio passato sembra tratto distintivo di molti cosiddetti immobiliaristi. Ci ha provato per primo Stefano Ricucci, l'ex odontotecnico di Zagarolo. Ma è finita come tutti sappiamo. Danilo Coppola, ex borgataro di Finocchio, la periferia sudest di Roma, spera ancora di farcela. Ma la sua è una corsa contro il tempo, perché ha sul collo il fiato degli inquirenti. Che dopo aver scoperto passaggi societari che lo collegano con individui legati alla Banda della Magliana, stanno ora esaminando i suoi rapporti con personaggi in contatto con esponenti della 'ndrangheta. «Il Sole-24 Ore» è infatti in grado di rivelare che Coppola è oggi nel mirino degli inquirenti per i suoi affari con un professionista di Palmi emerso in più indagini come commercialista di fiducia del clan Piromalli.
L'ascesa di Danilo Coppola è stata tanto rapida quanto inspiegabile. Partito da una borgata romana, si è improvvisamente affermato come finanziere d'alto bordo, fino ad arrivare a soli 38 anni a gestire un gruppo che dichiara 2.378 milioni di beni immobiliari e 1.122 milioni di beni finanziari.
Ma come ha fatto? E soprattutto, sull'aiuto di chi ha potuto contare per arrivare dove è arrivato? In un'inchiesta durata circa sei mesi e pubblicata in più parti (la prima è del 18 dicembre scorso), «Il Sole-24 Ore» ha cercato di rispondere a queste domande.
Finora si era saputo solo che Coppola opera servendosi di una rete di parenti (in primis sua madre Francesca Garofalo e sua moglie Silvia Necci) e di collaboratori (tra i quali spiccano Andrea Raccis, Ernesto Cannone, Fabrizio Spiriti e Giancarlo Tumino), tutti privi di esperienze precedenti nel mondo degli affari. Come ha scritto il Nucleo Speciale di Polizia Valutaria della Guardia di Finanza in un suo rapporto: «Èragionevole pensare che Coppola Danilo abbia inteso costituire un'ampia rete di società... tali società risultano amministrate da persone sui cui documenti d'identità appare un'attività o non dichiarata, o estranea o comunque difficilmente compatibile con l'amministrazione di società (es. insegnanti, studenti, disoccupati, baristi etc). E ciò fa pensare che tali soggetti si prestino ad agire per conto di terzi».
Nel giro di persone con cui fa affari Coppola, che la Guardia di Finanza ritiene popolato da prestanomi, spicca un uomo che ha invece una lunga storia professionale: Roberto Repaci, presidente dell'ordine dei commercialisti di Palmi, provincia di Reggio Calabria. Il fatto è significativo perchè una decina di anni fa il nome di Repaci è emerso in più di un'indagine. Era stato infatti indicato come commercialista del clan dei Piromalli, una delle più potenti cosche della 'ndrangheta.
Fu una società di proprietà di Repaci, la Serin Srl , a introdurre Coppola alla fiduciaria della Bnl, Servizio Italia società fiduciaria e di servizi. Lo dimostra un fax di presentazione inviato alla Servizio Italia. Quel fax è stato trovato nel fascicolo di un'altra Srl registrata a Roma, l'Immobilbi, oggi al centro dell'attenzione degli inquirenti.
L'Immobilbi Srl fu costituita il 19 luglio 2001 dallo stesso Repaci (che ne possiede il 3%) con un socio che si era servito dello schermo della Servizio Italia per detenerne il 97%. La sede era all'epoca al numero 6 di Via Boezio, nel quartiere Prati, lo stesso indirizzo della succursale romana della Serin.
Dal fascicolo della Immobilbi depositato presso la Servizio Italia risulta che a partire dal 30 maggio del 2002 il titolare della pratica fiduciaria - e quindi socio di Repaci in Immobilbi con il 97% delle azioni - è Silvia Necci, moglie di Danilo Coppola. Il successivo 16 luglio, a prendere il timone della Srl è Giancarlo Tumino, braccio destro dell'immobiliarista di Finocchio.
«Èmolto semplice: in occasione dell'acquisto di un appartamento nel centro di Roma, ho acquisito una società precostituita da un commercialista», spiega in un'intervista telefonica Danilo Coppola, che nega di avere alcun rapporto di affari con Repaci. «Il dottor Repaci io l'ho visto nella mia vita due volte. O tre», dice.
Ma allora perché Repaci risulta tuttora suo socio, in quanto detentore del 3% della Immobilbi?
«Abbiamo comprato il 97% dalla fiduciaria ed evidentemente abbiamo lasciato al commercialista quel 3%, che doveva probabilmente anche passare di mano... Ma è solo il 3%», spiega Coppola.
L'Immobilbi potrebbe però non essere l'unica società che potrebbe vedere insieme, seppure indirettamente, Coppola e Repaci. Altra società di interesse per gli inquirenti è la Safimmobiliare , Srl costituita a Roma il 19 luglio 2001 (stessa data della Immobilbi). Anche questa ha inizialmente la stessa formula societaria, con Repaci al 3% e la Servizio Italia al 97%. Poco tempo dopo, quel 97% viene trasferito in gestione alla Finnat Fiduciaria, la fiduciaria della Banca Finnat, istituto romano poi divenuto titolare di 38 milioni di azioni della Banca Nazionale del Lavoro e schierato con il contro-patto diretto da Francesco Caltagirone (che siede nel consiglio di amministrazione di Banca Finnat).
A chi appartiene quel 97%? Nel già menzionato rapporto dalla Guardia di Finanza, citando l'Ufficio italiano cambi, si dice che la Safimmobiliare è una delle società «da ricondurre per il tramite di società fiduciarie o prestanome a tale Coppola Danilo».
Lui però smentisce: «Non appartiene al mio gruppo», dice.
Quel che è certo è che il 17 gennaio 2002, Repaci si recò nello studio notarile di Edmondo Capecelatro e Antonio Mosca - due notai di fiducia di Danilo Coppola (che singolarmente dall'anagrafe tributaria del 2000 risulta aver percepito dal loro studio un reddito di alcune decine di migliaia di euro) - dove firmò una delibera societaria in cui trasferì la sede della Safimmobiliare da Via Boezio 6 a Viale Guglielmo Marconi 440, indirizzo in cui risultano avere sede sociale svariate società del gruppo Coppola (e dove viene trasferita anche la Immobilbi ).
La stessa delibera nomina Ernesto Cannone, altro uomo di Coppola, amministratore unico di Safimmobiliare. Il verbale di un'assemblea tenuta da quella società il 15 maggio 2003, attesta inoltre la presenza in un ruolo chiave di un altro personaggio legato a Coppola, Andrea Raccis, che firma in qualità di presidente.
L'operazione immobiliare menzionata in quel verbale fa riferimento a 10 capannoni di un complesso industriale di Pomezia, a sud di Roma, ai quali viene attribuito un valore nominale di oltre 6 milioni di euro. Dalle stesse carte la Safimmobiliare risulta avere un debito di 218.000 euro con la Daniel's Srl , società di cui azionista di maggioranza è stato prima Danilo Coppola, poi sua madre e infine Ernesto Cannone.
Comunque sia, le visure camerali riportano inequivocabilmente che, perlomeno fino al 2005, Repaci è stato, seppur indirettamente, socio di Coppola.
«Quel 3% detenuto da Repaci in società del gruppo Coppola sembra essere una quota di presenza. Cioè una quota simbolica che permette a chi la detiene di vedere le carte societarie e di tenere nel mirino il socio di maggioranza», spiega un inquirente.
Il rapporto tra Coppola e Repaci è oggi ritenuto rilevante da chi indaga per il legame professionale che da anni lega il commercialista di Palmi ai Piromalli. Un dossier dei Carabinieri del 27 luglio 1998, sulla «piùblasonata associazione di tipo mafioso operante a Gioia Tauro, riconducibile alle famiglie Molé-Piromalli» cita tra i personaggi centrali Gioacchino Piromalli, descritto nelle carte di un altro procedimento «esponente di un'organizzazione criminale operante nella Piana di Gioia Tauro e nella Calabria intera, dedita al traffico di sostanze stupefacenti» e condannato dal tribunale di Palmi a 14 anni di reclusione (poi ridotti a 4) perchè giudicato colpevole di tentata estorsione aggravata e partecipazione ad associazione di stampo mafioso.
Tra le società riconducibili a Piromalli, il dossier menziona la Babele Publi Service Srl: &la ditta è rappresentata da un insegnante di educazione fisica, personaggio vicino alla cosca Piromalli. La contabilità è tenuta dalla Serin Srl, di Repaci Roberto, la quale si occupa anche della contabilità della ditta di Mazza Annunziata, moglie del Piromalli Gioacchino».
Il nome di Repaci era emerso precedentemente in una testimonianza resa il 3 luglio 1995 da Angelo Sorrenti, uno dei principali testi d'accusa nel procedimento contro la cosca Piromalli. Sorrenti disse in quell'occasione di aver accompagnato Gioacchino Piromalli a sbrigare una commissione di estrema delicatezza: temendo l'arresto, voleva far preparare al suo commercialista di fiducia una procura a favore del figlio.
Ecco cosa riporta l'atto giudiziario:
«Piromalli era molto preoccupato del suo stato di libertà, che da un momento all'altro poteva non essere più tale, quindi stava facendo una procura a favore del figlio affinché potesse muoversi liberamente nell'attività dell'azienda».
PM: Chi era il commercialista?
Sorrenti: Il dottor Repaci.
PM: Dottor?
Sorrenti: Roberto Repaci».
Non è finita. Il nome del presidente dell'ordine dei commercialisti di Palmi ritorna anche in un interrogatorio condotto il 31 maggio 2002 dal sostituto procuratore Roberto Pennisi. A parlare questa volta è Roberto Spanò, arrestato con un carico di stupefacenti e reo confesso al quale viene chiesto di riconoscere alcuni individui in fotografia. «Alla foto numero 02», dice, «riconosco Repaci, il commercialista da cui si servivano i Piromalli ed i Molé».
Nonostante il suo nome sia emerso più volte, prima di ora l'autorità giudiziaria non aveva mai focalizzato la propria attenzione investigativa su Repaci. «Nella lotta alla 'ndrangheta le priorità sono state date alle strutture organiche e agli omicidi dei clan», spiega l'inquirente. «Ma un fatto è certo: Piromalli non si sarebbe mai avvalso delle attività professionali di un commercialista che non avesse ritenuto affidabile».
Il Sole 24 Ore ha contattato telefonicamente Antonio Repaci, figlio di Roberto, anche lui commercialista e oggi gestore dello studio appartenuto al padre (il quale era invece irraggiungibile perché in vacanza all'estero). Repaci ha confermato che il rapporto del suo studio con Gioacchino Piromalli non è mai stato interrotto: «Facciamo noi il suo modello unico. A lui e a due suoi fratelli». Non solo: è stato il suo studio a fare le perizie per conto degli avvocati di Piromalli in occasione del sequestro dei beni.
Uno dei motivi per cui Repaci è finora riuscito a sfuggire all'attenzione di tutti è il fatto che alcuni anni fa si è trasferito da Palmi a Roma, dove nel circuito delle sue conoscenze si dice disponga tuttora di significativi mezzi finanziari.
Sulla provenienza delle sue disponibilità economiche e sulle eventuali "co-interessenze" con Danilo Coppola si sta focalizzando l'attenzione degli inquirenti, ancora alla ricerca dell'enorme patrimonio dei Piromalli. Solo una minima parte di quel patrimonio è stata infatti finora sequestrata.
Da parte sua, Coppola ci tiene a prendere le distanze: «Io con Roberto Repaci non ho mai fatto alcuna transazione (finanziaria). Non c'è un bonifico, un assegno, un euro che sia mai passato dai miei conti ai suoi. O viceversa».

 

Quando il palazzinaro rischiò il crac

Venerdì 23 Dicembre 2005 01:00 Giuseppe Fanti
Stampa PDF
23.12.2005 - L'inchiesta vecchio stile/5

Quando il palazzinaro rischiò il crac

Compagni di strada/3. Danilo Coppola. Un prestito da 80 milioni di euro garantito da un prestigioso immobile milanese. Le banche premono, altre banche subito soccorrono. Piove sempre sui furbetti

di Giuseppe Fanti

Per un attimo c’è stata la possibilità che Danilo Coppola s’infilasse nel tunnel di un crac. È una storia minore, nel gran cinema delle scalate di questi mesi. Ingredienti: un palazzo al centro di Milano, alcune banche straniere che chiedevano la restituzione dei loro prestiti, un immobiliarista che tirava per le lunghe. Dopo l’intervento di un paio di banchieri vicini ad Antonio Fazio è finita bene con soddisfazione di tutti. Ma questa piccola storia, chissà, poteva portare fino allo scoppio della bolla immobiliare.
Danilo Coppola, tra i furbetti del quartierino, è quello con la pettinatura più bizzarra. «Quei capelli lunghi à revers sulle spalle», come ha scritto Gad Lerner su Vanity Fair. Viene dalla borgata romana di Finocchio, eredita una società edile dal padre e poi grazie al suo «fiuto» – spiega lui nelle numerose interviste rilasciate nell'estate 2005 – diventa in pochi anni proprietario di alcuni alberghi di lusso, vari palazzi e aree edificabili tra Roma e Milano, controlla una società quotata in Borsa, la Ipi , è titolare di varie partecipazioni azionarie, tra le quali il 4,66 per cento di Mediobanca e viene fatto il suo nome come possibile acquirente della Roma di Totti dalla famiglia Sensi. Da ultimo, in un’intervista a Panorama nel mese scorso, dice di essere stato contattato per rilevare una parte del 15 per cento di Rcs che fu di Stefano Ricucci e che adesso è in mano alla Popolare italiana, a copertura dei prestiti fatti dalla banca di Fiorani al marito di Anna Falchi.
Quanto valga il suo gruppo è però difficile dirlo con esattezza: le sue attività fanno capo a tre finanziarie lussemburghesi dai nomi impegnativi – Cheope, Sfinge e Tikal plaza – e la trasparenza non è certo il suo fiore all’occhiello. Secondo quanto dichiara lui stesso prima delle note vicende dei furbetti, il suo impero vale 1,2 miliardi di euro e i debiti ammontano a circa 120-130 milioni. Dopo gli accertamenti della Consob, si scopre che gli affidi della sola Popolare di Lodi al suo gruppo passano da 75 milioni a circa 400 nel periodo che va tra novembre 2004 e aprile 2005. Secondo la Consob è tra i soci occulti di Lodi nella scalata ad Antonveneta. La procura di Milano lo indaga per aggiotaggio insieme a Chicco Gnutti, Stefano Ricucci e Tiberio Lonati e sequestra le azioni della banca padovana in mano alle sue Finpaco project e Tikal plaza.

Il default che non conviene a nessuno. Coppola è coinvolto anche nella vicenda Bnl, per la quale è indagato il presidente di Unipol Giovanni Consorte. Coppola fa parte del cosiddetto «contropatto» che si oppone all’opa degli spagnoli del Bbva. Insieme agli altri «controppattisti» (Francesco Gaetano Caltagirone, Stefano Ricucci, Giuseppe Statuto, Ettore Lonati, Giulio Grazioli e Vito Bonsignore) vende in luglio il suo 4,9 per cento all’Unipol. Un pacchetto accumulato nel tempo, con acquisti iniziati nel 2003 quando le azioni della banca romana valevano 1 euro e ceduto con una plusvalenza di 230 milioni, secondo quanto da lui stesso dichiarato. Un sacco di soldi, ma che evidentemente non bastano a mettere al riparo l’immobiliarista dalle richieste dei creditori.
Alla fine di maggio, infatti, con le guerre parallele per il controllo di Bnl e Antonveneta in pieno svolgimento, gli uomini di Danilo Coppola firmano un «waiver», una modifica a un contratto di finanziamento: c'è da rimborsare una grossa rata di un prestito concesso da un gruppo di banche, ma i soldi faticano ad arrivare. La vicenda era iniziata con un prestito di poco più di 80 milioni di euro concesso da un pool di banche guidato da Societé generale nel maggio del 2004 alla Frala srl, una società che allora faceva capo al gruppo di Luigi Zunino, garantito da un’ipoteca su un prestigioso palazzo d’epoca in corso Magenta, a Milano. Dal maggio del 2004 al maggio del 2005 la Frala è passata prima sotto il controllo di Ipi, una società immobiliare quotata in Borsa controllata dallo stesso Zunino. Poi, quando Coppola compra Ipi, il palazzo di corso Magenta, con i suoi prestiti e le sue ipoteche, passa sotto l’ombrello di quest’ultimo insieme al patrimonio immobiliare che comprende anche il complesso del Lingotto di Torino.
Ai primi di maggio, i suoi uomini contattano le banche e chiedono di rinegoziare il prestito. SocGen e gli altri istituti non sono proprio entusiasti, ma si può negare fiducia a un uomo che in quei giorni rappresentava il nuovo che avanza della finanza italiana? La risposta è no. Accettano quindi una cifra più bassa per la rata in scadenza a maggio ma, dato che le banche straniere non vengono qua a fare beneficenza, chiedono che alla prossima scadenza, prevista per la fine di agosto, il prestito venga estinto. Alla fine di agosto però le cose sono cambiate. La battaglia per Antonveneta è stata vinta dagli olandesi, Gianpiero Fiorani ha i suoi bei guai e anche il governatore di Bankitalia, lìamico Antonio Fazio, non se la passa tanto bene. Certo, c'è la ricca plusvalenza incassata con la cessione a Unipol della partecipazione in Bnl. Ma da lì iniziano una serie di rinvii. Il rimborso infatti non arriva e le banche iniziano a preoccuparsi. Mandare Coppola in default non conviene a nessuno. E non conviene neppure fare dei passi formali per ottenere il pagamento, come una diffida o altri atti che potrebbero portare pubblicità alla vicenda e magari far venire qualche sospetto alle banche che devono rifinanziarlo. Al punto che quando SocGen a Londra inserisce Coppola in un elenco di crediti «difficili», a Milano saltano sulla sedia e invitano i colleghi a ripensarci, spiegando che c’è una trattativa in corso e fare la voce grossa rischierebbe solo di peggiorare la situazione. Alla fine i soldi arrivano: li mette un nuovo gruppo di banche, questa volta tutte italiane. Si tratta della Popolare dell'Emilia, del Banco di Sardegna, di Meliorbanca e di Banca delle Marche. Le prime tre fanno tutte riferimento a Guido Leoni, amministratore delegato della Popolare dell’Emilia-Romagna, che a sua volta controlla il Banco di Sardegna ed è il primo azionista di Meliorbanca. Leoni è il banchiere che dopo il crollo di Fiorani viene indicato come il più vicino all’ex governatore Antonio Fazio ed è anche al fianco di Unipol nella sua scalata a Bnl.
Banca delle Marche è invece guidata da Massimo Bianconi, un manager di lungo corso che ha avuto anche lui la sua piccola ribalta nelle storie di questa estate, quando si è scoperto, grazie a un articolo di Mario Gerevini sul Corriere della sera, che le banche da lui via via guidate (Agricola mantovana, Banca nazionale dell’agricoltura, Cariverona) sono le stesse che hanno nel tempo finanziato i primi passi e la crescita del giovane Ricucci, prestando all’odontotecnico di Zagarolo, dal 1995 al 2001, i denari per le sue scorribande borsistiche.
Con i soldi di Leoni e Bianconi, Coppola paga e l’affaire si chiude il 2 novembre scorso. Alla fine, tutti contenti. Le banche straniere hanno riavuto i loro soldi, il finanziere romano è ancora in sella e, forte del suo 4,66 per cento di Mediobanca, va all’assemblea dei soci della banca che fu guidata da Enrico Cuccia e stringe la mano al direttore generale Vincenzo Nagel. Non se la prende più con i salotti buoni «arroganti e spocchiosi», anzi. Il patto di sindacato di Mediobanca, il salotto buono della finanza italiana per antonomasia, dice alle agenzie, «è la massima espressione che c'è oggi in Italia».

 

Benvenuti a Furbettopoli

Venerdì 23 Dicembre 2005 01:00 Gianni Barbacetto
Stampa PDF

23.12.2005 - L'inchiesta vecchio stile/1

Benvenuti a Furbettopoli


Paura che torni Mani pulite. Mutazioni genetiche dei partiti, al servizio degli affari. La Lega trasformata in Guardia di Ferro della coppia Fiorani-Fazio. E i disagi segreti che agitano i Ds, preoccupati del «loro» Giovanni Consorte, il «furbetto rosso»

di Gianni Barbacetto

Uno spettro s’aggira per l’Italia. La paura di una nuova Tangentopoli. Anzi, a essere precisi con le parole, di una nuova Mani pulite che riapra una stagione d’indagini sull’illegalità come sistema, che riprenda gli arresti in serie, che arrivi ai piani alti della politica. Le manette scattate ai polsi del banchiere Gianpiero Fiorani e dei suoi sodali e le indagini sui furbetti del quartierino hanno innescato una sindrome Mani pulite che serpeggia nei palazzi romani del potere. A leggere certi resoconti dei più attenti tra i cronisti politici, sembra di essere tornati al 1992, al totomanette, all’attesa del disastro. Tanto che il direttore del Corriere della sera si è sentito in dovere di tranquillizzare il Paese, rassicurando, nell’editoriale del 16 dicembre, che non siamo alla vigilia di una nuova Tangentopoli.
Si passerà dai furbetti ai loro padrini di partito? Le celle si apriranno anche per chi aveva dei conti molto speciali nella banca di Lodi e per chi da Roma sosteneva, tifava, tramava? Oppure la bufera passerà lasciando solo i soliti strascichi di polemiche tra i partiti? Per ora sappiamo solo che Donato Patrini, l’assistente di Fiorani, in un interrogatorio davanti ai magistrati di Milano ha spiegato: «Fiorani indicava il nome del politico, i recapiti, l’importo del finanziamento o del fido che Popolare di Lodi doveva erogare. Io compilavo i documenti, raccoglievo la firma del parlamentare, aprivo il conto ed erogavo i denari. Ero l’ufficiale di collegamento con i politici. Per due anni siamo andati avanti così». È l’evoluzione della tangente, senza quella sgradevole sensazione delle buste che passano o delle valigette che girano.
Quanto s’allargherà lo scandalo lo sapremo nelle prossime settimane. Ma comunque vada, il problema resta: non soltanto perché è curioso che una vicenda giudiziaria semini il panico in Parlamento, ma perché le vicende dei furbetti hanno reso visibile una nuova specie di Tangentopoli ancora senza nome, un inedito sistema di rapporti perversi tra affari e politica, una Partitopoli, una Furbettopoli che non può certo essere lasciata come problema da risolvere alla magistratura.
Anzi, i giudici non hanno alcuna competenza sulle omissioni, sui sostegni silenziosi, sulle complicità inconfessate, sui patti non scritti tra la finanza e i politici. Eppure sono questi ultimi che nobilitano le illegalità dei furbetti, le innalzano dal quartierino e le fanno diventare sistema. A destra come a sinistra. Le indagini giudiziarie potranno indicare le illegalità più evidenti, potranno al massimo rendere visibili le connessioni più esplicite, ma poi dovranno essere la politica e la comunità degli affari a rompere il sistema, a fare pulizia, a cambiare rotta: se vorranno.

Profezie realizzate. Manette o no, la nuova Furbettopoli comincia a delinearsi. Uno che se ne intende, Sergio Cusani – finanziere di Tangentopoli, imputato di Mani pulite e oggi impegnato nel volontariato nonché consulente finanziario del sindacato – l’aveva profetizzata. Lo va dicendo da qualche anno: altro che 1992, i veri intrecci di potere sono quelli che oggi la finanza e le banche hanno costruito proprio sulla base della debolezza di imprese e partiti usciti sfiancati da Tangentopoli.
Intendiamoci, le antiche, gloriose tangenti continuano a esserci, anche se governate da un diverso sistema: ai vecchi partiti-dogana, con le loro regole inflessibili, i loro imprenditori di riferimento, i loro cassieri segreti, si sono sostituiti – dice Cusani – centri più informali, sistemi più flessibili. Come dimostrano le mille storie di corruzione venute alla luce negli ultimi tempi (pur senza alcun clamore mediatico), i nuovi protagonisti sono i feudatari che presidiano i valichi di passaggio della spesa pubblica, i tanti vassalli e valvassori di una nuova corruzione che, al passo con i tempi, non è più «centralista» ma «federalista».
Al di sopra di questa rete, però, resta l’iperuranio dei grandi affari, dei grandi intrecci, dei grandi poteri. Le banche, le telecomunicazioni, il gas... È questo l’ancora inesplorato mondo della nuova Partitopoli su cui le indagini Fiorani cominciano a mostrare qualche elemento.
Un altro che Tangentopoli, quella vera, l’ha conosciuta, l’ex democristiano Bruno Tabacci, oggi esponente dell’Udc e presidente della commissione Attività produttive della Camera, da tempo va ripetendo che si sta affermando una nuova degenerazione dei rapporti tra affari e politica. Tabacci la racconta così: la politica ha perso peso, la finanza ha preso il comando. Risultato: i furbetti del quartierino fanno quello che vogliono. Sulla pelle di milioni di risparmiatori raggirati e derubati. Bipop Carire, Banca 121, Cirio, Parmalat, i bond argentini... Ora la Popolare di Lodi.
«Massimo D’Alema dice che questa storia delle banche non interessa alla gente, agli elettori. Ma com’è possibile continuare a minimizzare così?», s’indigna Tabacci. «Stiamo vivendo una stagione vergognosa in cui la politica non esiste più e i furbetti da anni fanno ciò che vogliono. Dall’opa Telecom a oggi, i nomi che girano sono sempre quelli».
Già. Da subito Chicco Gnutti, Giovanni Consorte, poi Gianpiero Fiorani, Stefano Ricucci e la nuova compagnia di giro degli immobiliaristi. Tutti all’ombra del Number One, come lo chiamavano confidenzialmente, l’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio che voleva diventare il nuovo Cuccia, ma suonando la carica della finanza cattolica contro laici e massoni.
Oggi la magistratura è arrivata a indicare quella del banchiere di Lodi come un’associazione a delinquere. E sono scattati gli arresti. «Un epilogo inevitabile. Doveroso. Ma non mi rende allegro», commenta Tabacci. «Non si volta pagina con le inchieste della magistratura, con i rinvii a giudizio. Serve la politica. Salterà Fiorani, salterà Ricucci, salterà Consorte. Ma fin quando D’Alema dirà che queste cose non importano alla gente, non si cambia».
Già nel luglio 2005 era possibile capire l’essenziale sulle gesta della banda Fiorani e sulle distrazioni del governatore Fazio. Lo scrivevano i giornali (compreso Diario). Lo poteva capire la politica. Ma nessuno si mosse per raddrizzare la situazione, prima che fosse costretta a intervenire la magistratura.
Bruno Tabacci, implacabile, retrodata i tempi in cui era possibile intrevenire: già nel gennaio 2005. Il Parlamento era al lavoro per approvare la riforma sul risparmio, che conteneva anche il mandato a termine per il governatore e il passaggio all’Antitrust del controllo sulle concentrazioni bancarie. Nelle commissioni parlamentari le novità passarono, con il consenso determinante della Lega. «Poi venne da me Fiorani», racconta Tabacci a Diario. «Mi disse che il salvataggio che stava facendo di Credieuronord, la banca della Lega, aveva spostato gli equilibri. Io andai avanti per la mia strada, ma effettivamente, quando la riforma arrivò nell’aula della Camera, la Lega votò contro e tutto si fermò». Ma, secondo Tabacci, anche i Ds avevano intanto cambiato atteggiamento: «Fiorani era passato anche da loro, come ha confermato il capogruppo alla Camera Luciano Violante. I Ds sono rimasti incerti fino all’ultimo su come votare: avevano annunciato l’astensione, poi votarono con me, quando videro che tanto ero stato messo in minoranza e che le riforme erano bloccate».
I furbetti hanno rapporti e coperture a destra e a sinistra e padrini in tutti i partiti. Le indagini su Furbettopoli sembrano dare ragione alle intuizioni di Cusani e alle denunce di Tabacci: nel sistema, in primo piano sono gli uomini degli affari; i politici ci sono, ma al servizio dei primi. Un tempo era la politica a decidere la strategia. Sceglieva gli affari e le imprese, poi passava a riscuotere. Oggi è l’economia a mettere al suo servizio (e a volte a libro-paga) la politica.
Evidentemente Silvio Berlusconi ha fatto scuola. Ma ora il partito-azienda non è più uno solo. Così la Lega si è legata mani e piedi e si è consegnata ai disegni di Fiorani e Fazio. E, anche a sinistra: quanto hanno pesato le decisioni di Consorte sulle prese di posizione di Piero Fassino e dei Ds? Proviamo a fare una prima analisi, incrociando indagini giudiziarie e cronaca politica.

La Lega transgenica La Lega nord di Umberto Bossi non c’è più. È finita. Lo scandalo Fiorani ne ha decretato la fine. Non nel senso dei voti e del potere: per i voti, vedremo tra qualche mese; quanto al potere, la Lega non ne ha mai avuto tanto come oggi. Però si è trasformata in qualcosa di diverso. Dov’è finito il movimento che tuonava contro Roma ladrona, che in nome del popolo del Nord e del suo lavoro criticava il sistema dei partiti e i poteri forti? Dopo pochi anni di vita «romana» (e di governo), la Lega in trasferta nella capitale è diventata l’ancella di un progetto finanziario altrui, la Guardia di Ferro del Bel Banchiere di Lodi, anzi peggio: il braccio armato del romanissimo governatore Fazio.
L’hanno convinta il sogno «politico» della banca padana, certo, ma hanno aiutato molto i soldi. Quelli con cui Fiorani, con la regia di Fazio, ha salvato la Credieuronord , per esempio, la traballante banchetta della Lega affondata dall’incompetenza e dalle illegalità con cui è stata gestita, fino a conquistarsi il record di unica banca al mondo che in soli tre anni è riuscita a perdere quasi per intero il capitale sociale. Soldi prestati senza alcuna garanzia a pochi clienti eccellenti, che li hanno dissipati. Finanziamenti alla Bingo.net di Maurizio Balocchi, il tesoriere della Lega, finiti in un buco senza fondo.
Poi è arrivato Fiorani a salvare l’onore padano. Ma non a restituire i soldini dei tanti leghisti che ci avevano messo l’anima e i loro risparmi. Curioso: la piccola banca della Lega ha fatto, in piccolo, quello che tante potenti banche italiane hanno fatto, in grande, nei crac Cirio e Parmalat: salvare la faccia ai numeri uno e lasciare nella melma i piccoli risparmiatori. Come la signora Estella Gabello, il socio Adriano Rossi, la socia Corinna Zanon e infiniti altri leghisti che nel gorgo Credieuronord hanno perso, in un colpo solo, due cose uniche nella vita: il loro piccolo capitale e il grande amore per la Lega di Bossi. Da questa brutta storia il partito padano esce geneticamente mutato. Il suo popolo ha perso l’innocenza, per sempre. E basta leggere i verbali dell’ultima assemblea dei soci Credieuronord per convincersene. In più, non aiuta sapere che il ministro Roberto Calderoli aveva avuto dal Fiorani un bel fido di 13 mila euro, uno di quegli specialissimi fidi lodigiani che sembrano tanto un regalo. Certo, secondo quanto è emerso finora, il Calderoli non ne ha mai approfittato e fino a oggi ha lasciato dormire i soldini nel generoso conto della Popolare di Lodi.
Ma resta il fatto – ed è perfino più grave di un eventuale uso personale – che il partito ha subìto proprio una mutazione genetica: la Lega ha perso la sua autonomia di giudizio e di comportamento, ha dimenticato quanto era stata dura con Fiorani e Fazio in occasione dei crac Cirio e Parmalat, ha dimenticato i tanti piccoli risparmiatori del Nord imbrogliati non solo – diceva allora la Lega – da Sergio Cragnotti e Calisto Tanzi, ma anche dai banchieri che hanno scaricato sui risparmiatori la loro esposizione nei confronti di Cirio e Parmalat.
Tra quei banchieri c’era anche Fiorani, ma la nuova Lega se l’è dimenticato. La nuova Lega è la Lega di governo che ha preso il posto di quella Lega di lotta che oggi non c’è più. I nuovi politici padani hanno modulato gran parte delle scelte degli ultimi mesi sulle esigenze degli ex nemici Fiorani e Fazio. Da loro si sono fatti imporre l’agenda. Fino a farsi diventare sopportabile persino il Ricucci Stefano, che più romano non si può: ma, si sa, gli amici dei miei amici sono anche miei amici...
Negli altri partiti del centrodestra, i furbetti si erano garantiti, grazie ai conti molto speciali, il sostegno di alcuni uomini. Sono già emersi i nomi di Ivo Tarolli dell’Udc, di Luigi Grillo e Romano Comincioli di Forza Italia, di Aldo Brancher, ufficiale di collegamento tra Forza Italia e la Lega e «reclutatore» di Fiorani... «Lobbismo puro», spiega in un interrogatorio Fiorani a proposito di Grillo.
Ma anche qui: al di là della valutazione morale sui soldi accettati dagli uomini dei partiti, la novità è costituita dal fatto che la politica è ridotta a mero apparato di sostegno, pubbliche relazioni e lobbismo, dei progetti di qualcun altro. Con Silvio Berlusconi che, nell’ombra, sta a vedere come vanno a finire le scalate e se si riesce a destabilizzare il Corriere...

Il furbetto rossoQuanto ai Ds, è paradossale, ma s’intravvede qualcosa di simile, di speculare a quella che appare come la mutazione genetica della Lega. Saltando in tutt’altro contesto, cambiando schieramento, storia, ideologia, cultura politica, sembra purtuttavia di notare l’irresistibile attrazione che scelte fatte altrove (in via Stalingrado a Bologna) esercitano sul Botteghino. Una parte del vertice Ds – il presidente Massimo D’Alema, il segretario Piero Fassino, l’ex ministro Pierluigi Bersani, oltre a esponenti di rilievo come, tra gli altri, il senatore Nicola Latorre e il tesoriere Ugo Sposetti – hanno passato molto tempo degli ultimi mesi a difendere, spiegare, sostenere, giustificare le decisioni di Giovanni Consorte.
Ed è mai possibile che l’intero vertice di un partito politico abbia come prima preoccupazione quella che si rilasci in fretta l’autorizzazione a un’opa? Nel bel mezzo della bufera mediatica seguita alla notizia che anche Consorte è indagato, Pierluigi Bersani, Gavino Angius, Vannino Chiti sono andati avanti per giorni a insistere: ma quando ci dite se quest’opa si può fare o no?
Una volta, ai tempi del vecchio Pci, era il partito a decidere: la linea politica, ma anche i comportamenti negli affari e finanche la moralità degli iscritti. Ora soprattutto Fassino sembra invece affaticato alla rincorsa di una materia che pare non padroneggiare del tutto. Ha passato l’estate 2005 a difendere il partito dagli attacchi: in realtà a difendere Consorte e le sue scelte finanziarie. Ha dovuto moltiplicare le interviste e gli interventi anche perché doveva via via rettificare, precisare, spiegare, correggere se stesso. Con il mal di pancia crescente di settori del partito e di elettori del centrosinistra che non capivano perché tante parole ed energie fossero spese dal segretario per affermare che un misterioso odontotecnico con tanti soldi e strani giri immobiliari ha la stessa dignità imprenditoriale di chi rischia il suo capitale per creare ricchezza e posti di lavoro.
Certo, Stefano Ricucci è alleato di Giovanni Consorte e Consorte è forse il più grande finanziatore del partito. Le iniziative dei Ds e i festival dell’Unità sono sponsorizzati da Unipol. Ma basta questo per far diventare buona ogni sua scelta? E questo al netto della correttezza e a prescindere da eventuali reati commessi. Nel partito, nel sindacato, nel movimento cooperativo, molti dirigenti e militanti non capivano e continuano a non capire perché, visto che il movimento cooperativo ha dei soldini, li deve mettere proprio in una banca.
E non per pregiudizio anticapitalistico, per ingenua e antimoderna paura della finanza, quasi si trattasse di uno strumento del demonio. Non è affatto in discussione la legittimità di fare finanza, di farla anche a sinistra, né tantomeno il diritto per Unipol di comprare una banca. No. Le domande che sono maturate dentro il mondo dei Ds – anche se faticano a trovare espressione pubblica per paura di danneggiare il partito in una fase ormai già pre-elettorale – sono di tutt’altra natura. Non riguardano la legittimità della finanza in generale, ma da una parte la specificità dell’operazione in corso e la sua opportunità strategica e industriale, dall’altra l’eventuale illegalità dei metodi usati. Ecco le domande.
La prima: perché il movimento cooperativo, in un momento di declino e di grave crisi industriale del Paese, punta tutto su un investimento finanziario?
La seconda: perché rischiare così tanto in un investimento (Bnl) che, come hanno sostenuto i «cugini» del Montepaschi già nella primavera scorsa, potrebbe non dare i risultati sperati e anzi appesantire di debiti l’intero movimento cooperativo?
La terza: ma siamo sicuri che la scalata di Consorte a Bnl non sia stata fatta violando le regole, in una concertata partita doppia con l’assalto ad Antonveneta di Fiorani e sotto la benevola ala protettiva di Fazio?
La quarta: come mai Consorte e il suo vice, Ivano Sacchetti, hanno ricevuto affidamenti milionari dalla Popolare di Lodi e hanno realizzato strane plusvalenze da operazioni sui derivati?
Per rispondere a queste domande, conviene cominciare ad ascoltare il ragionamento di uno che non solo si sente Ds fin nel midollo, ma che si dice anche innamorato del movimento cooperativo: Carlo Ghezzi, ieri sindacalista e oggi presidente della Fondazione Di Vittorio della Cgil.

1. Perché proprio una banca? «L’Italia è il Paese di Silvio Berlusconi, imprenditore anomalo, rentier senza mercati. I suoi settori d’intervento sono la televisione, l’edilizia, le assicurazioni... Mercati protetti, fuori dalla vera competitività internazionale». La prende larga, Ghezzi. «Dunque è normale che il governo di Berlusconi attui una politica favorevole alla rendita. Così aggrava sempre più la crisi dell’Italia, che esce via via dai settori produttivi e dalla competizione internazionale. Invece, per cercare d’invertire questa tendenza, la politica dovrebbe interessarsi di dove va la nostra economia e dovrebbe favorire lo sviluppo delle forze produttive. Il programma del centrosinistra va in questa direzione. Cambia la direzione di marcia. Ma allora, in quest’Italia in declino, è un errore strategico per il mondo cooperativo puntare sulla finanza, invece di progettare un piano di sviluppo per il Paese. È una sciocchezza dire che tutti i settori sono uguali, che tutti gli operatori economici sono uguali, purché rispettino le regole. Chi produce e crea ricchezza per tutti non è uguale a chi vive sulla rendita. E un governo di centrosinistra dovrà premiare chi produce e crea ricchezza per il Paese e non, come ora, chi si arricchisce con la speculazione senza rischi di competizione».
Ghezzi prosegue il suo ragionamento: «È poi un errore tattico quello di puntare – in odio al capitalismo italiano, straccione, assistito, furbacchione – su personaggi che sono il peggio della finanza italiana. Regalando ad altri i rapporti con il capitalismo dei cosiddetti salotti buoni». Più in generale, continua poi Ghezzi, «una riflessione vera dovrà essere fatta, in questo contesto, anche dentro il mondo dell’economia cooperativa. È un mondo che va meglio del resto dell’economia italiana. E allora, io sono convinto che sia giusto che cresca. Che faccia finanza. Che si doti anche di una banca. Ma come crescere? Con gli stessi trucchi, le stesse furbizie, le stesse scatole cinesi del capitalismo familiare italiano? Mettendosi nelle mani di un Cuccia di sinistra che blinda, rastrella, s’indebita? Dicendo che i vecchi salotti del capitalismo fanno schifo e poi facendo noi le stesse cose?». Tutto questo, naturalmente, al netto di eventuali irregolarità. «Do per scontato», conclude Ghezzi, «che se ci sono illegalità e reati, allora il discorso cambia».
«Ma anche a prescindere da eventuali reati, per cominciare dobbiamo almeno farla finita con il cesarismo di manager che diventano padri padroni della loro cooperativa o della loro impresa, manager che non rispondono a niente e a nessuno. Dobbiamo inventarci una nuova governance e un nuovo rapporto tra soci e manager».
Le cooperative, che sulla carta sono le strutture produttive più democratiche del mondo, si sono trasformate nella realtà in entità monarchiche dove il carisma del manager pesa più di ogni altra cosa. L’architettura societaria di Unipol è un castello dei destini incrociati di cui, alla fine, solo il presidente riesce ad avere l’effettivo controllo. Consorte, certamente, ha il merito di aver salvato la compagnia dal fallimento, di averla risollevata e lanciata nell’empireo della finanza italiana. Tutto il mondo cooperativo (e tutti i Ds) gli devono molto. Ma basta questo a mandar giù ogni sua scelta?

2. Un’operazione antieconomica? Sono stati i Ds di Siena, che controllano la Fondazione che a sua volta controlla il Montepaschi, a dire che il re è nudo: l’operazione Bnl non conviene. È troppo costosa e rischia di appesantire di debiti il compratore. Certo, i senesi parlavano della loro convenienza a entrare nell’operazione. Ma, sotto, il ragionamento è questo: quella di Consorte è più un’operazione di potere che un business. Lancia Consorte al centro della finanza italiana, ma all’italiana: con una banca non proprio florida da ristrutturare e con debiti da pagare per anni. Ne vale la pena? Fa davvero bene al mondo cooperativo? Appena la scalata Bnl si profilò all’orizzonte, il presidente di Unicoop Firenze Turiddo Campaini sentenziò: «Non mi piace, è un’operazione inutile e rischiosa».
Ma a questo punto le domande sull’opportunità dell’operazione Consorte lasciano posto alle domande sulle eventuali illegalità.

3. Una scalata contro le regole? L’ordinanza del giudice preliminare Clementina Forleo parla chiaro: Fiorani e la sua «associazione a delinquere» «si erano da anni impadroniti del controllo della banca... gestendo il loro complessivo operato in pieno arbitrio». Per fare questo, aggiunge, «erano occorsi l’appoggio di importanti finanzieri italiani», «quali Consorte Giovanni e Sacchetti Ivano, rispettivamente presidente e amministratore delegato di Unipol». Basta rileggere i resoconti delle telefonate intercettate ai protagonisti delle scalate estive per rendersi conto che qualcosa non quadra. I rapporti Consorte-Fiorani sono strettissimi. Le due scalate, su Antonveneta e su Bnl, sembrano una cosa sola. Un unico, grande concertone. «Gianni, io mi sento sangue del tuo sangue... Tu sai che io sono sempre pronto e disponibile e lavoro anche un po’ sott’acqua, come tu hai capito bene», dice Fiorani a Consorte il 19 luglio 2005.
I giochi erano cominciati molti mesi prima, nel dicembre 2004. Consorte e Sacchetti avevano ottenuto un prestito da 4 milioni di euro ciascuno, senza garanzie, il 28 dicembre, tra Natale e Capodanno. Subito dopo parte il rastrellamento sotterraneo e incrociato delle azioni Antonveneta e Bnl. Unipol compra il 3,5 per cento di Antonveneta, mentre Lodi mette insieme l’1,4 di Bnl. Ben prima che le due scalate fossero dichiarate al mercato: miracoli della preveggenza. Le azioni Bnl – proprio come quelle Antonveneta – sono rastrellate dagli «amici» ben prima delle autorizzazioni. E Consorte fa parte del gruppo dei rastrellatori di Antonveneta, ricorda l’odinanza di custodia cautelare del giudice Forleo, che aggiunge: «Si trattava di persona particolarmente fidata, tant’è che ci si era rivolti a lui anche per la vicenda Earchimede...». Cioè la più importante delle operazioni fittizie messe in piedi da Fiorani per far apparire a posto i coefficienti patrimoniali della banca, che invece a posto non erano affatto.
Non solo. Fiorani, come dimostra la telefonata con bacio in fronte a Fazio della notte del 12 luglio, ha una linea diretta con l’arbitro che in realtà è il capo della tifoseria. Ma anche Unipol, pur con meno smancerie, ha la sua linea diretta con la Banca d’Italia. Lo stesso 12 luglio il vice di Consorte, Ivano Sacchetti, riferisce al capo che ha parlato con Francesco Frasca, il capo della Vigilanza di Bankitalia, per dirgli che è tutto a posto, «che nessuna banca ha dei problemi». Poche ore dopo, Consorte in persona chiama direttamente Frasca. Sono le 18.21: «Gianni gli dice che ha bisogno di lui», annota il brogliaccio della guardia di finanza. Alle 19.01 è Frasca a chiamare Consorte per dirgli che «il governatore voleva incontrarlo per capire bene tutta la struttura». Il giorno seguente, altri contatti per fissare il primo incontro, che sarebbe avvenuto alle 19 del 13 luglio.
Rastrellamento delle azioni condotto in modo sotterraneo e fuori dalle regole. Complicità nella falsificazione dei coefficienti patrimoniali della Popolare di Lodi. Rapporto privilegiato con Bankitalia. In che cosa, allora, la «scalata buona» (Bnl) si differenzia dalla «scalata cattiva» (Antonveneta)? Anzi, Consorte aveva anche l’asso nella manica: una «talpa» dentro il palazzo di giustizia, un giudice che (almeno a quanto dice Consorte, intercettato, ai compagni di scalata) avrebbe pensato lui ai giudici di Roma...

4. Operazioni personali? Non occorre essere geni della finanza per capire subito che i conti molto speciali di Consorte e Sacchetti (come quelli di tanti altri clienti molto speciali di Fiorani) erano regali mascherati, tangenti postmoderne. Che brutte le buste piene di soldi, le valigette 24 ore, le banconote impacchettate nella carta di giornale (come ai tempi di Mario Chiesa...). Sorpassati anche i conti all’estero e le società offshore (una volta si chiamavano Levissima, o Gabbietta, o All Iberian...). Ora i soldi arrivano con operazioni sui derivati. Agli amici si apre un conto a Lodi. Lo si riempie con un bell’affidamento senza garanzie. Lo si rimpingua con soldi provenienti da complesse operazioni finanziarie fatte dalla banca (sui derivati, appunto) senza che il cliente muova neanche un dito. I derivati sono strumenti delicati, fanno guadagnare, ma anche perdere (Raul Gardini, per dirne uno che ci sapeva fare, ci si è rovinato). Ma niente paura: i clienti speciali vincono sempre.
Consorte e Sacchetti ricevono 4 milioni di euro a testa, così, esattamente un anno fa. Soldini impiegati per vendite di opzioni put, di cui si occupano Akros e Barclays, su incarico della Popolare di Lodi. Ma nessun rischio, nessuna preoccupazione: i clienti stanno tranquilli a casa loro, e alla fine Fiorani fa arrivare sui due conti gemelli un guadagno di circa 1,7 milioni di euro a testa. Consorte affida il malloppo a Teti finanziaria, gestita da un prestanome. Sacchetti ripara il suo presso la Im immobiliare. Operazioni finanziarie personali e perfettamente lecite, sostengono i due in una nota diffusa il 14 dicembre dal loro legale Filippo Sgubbi. Non sembra pensarla così il giudice preliminare, che scrive di «clienti privilegiati», di «anomali affidamenti», di «operazioni parallele e sovrapponibili»... Appare davvero strano che i guadagni siano stati realizzati con vendite di opzioni put a prezzi molto più alti di quelli di mercato e con prelievo dei premi molto prima della scadenza dell’operazione. Insomma: c’era qualcuno che garantiva il guadagno, comunque fosse andata a finire l’avventura delle opzioni.
E comunque Consorte solo sette giorni prima, il 7 dicembre 2005, al Sole 24 ore aveva dichiarato tutt’altro: «Quelle sul mio conto sono operazioni di trading azionario che risalgono al 2001 e 2002... Noi con la Lodi , sia come azienda che come persone, non abbiamo fatto mai nessuna operazione. Neanche una». Ma quali sono, allora, le operazioni di trading azionario fatte nel 2001 e 2002? E perché ha negato i giochi sui derivati del 2005? Fatti i conti in tasca al numero uno di Unipol, si può calcolare che abbia portato a casa 14 milioni di euro, in quattro anni di operazioni sui titoli realizzate nella banca di Fiorani. Nel 2002 aveva raggiunto, senza garanzie, un fido di 7 milioni di euro: quanto l’utile mensile della Popolare di Lodi.
Le carte poi raccontano di altri giochi di sponda. Come quello che potremmo chiamare «operazione Quarto Oggiaro»: un favore fatto all’amico Fiorani, un giochetto senza perdite né guadagni. Nel marzo 2003 un prestanome di Fiorani, Eraldo Galetti, amministratore della società Liberty, ottiene dalla Popolare di Lodi, senza garanzia alcuna, un fido di 2,4 milioni di euro. Lo usa il 1 aprile per finanziare Liberty, che acquista la villa di Fiorani a Cap Martin. Ma così provoca uno scoperto di conto. Ripianato il 29 aprile con un assegno di 2,9 milioni di euro proveniente da Unipol, agenzia di Quarto Oggiaro. Che cos’era successo? Fiorani aveva telefonato a Consorte, chiedendogli di concedere al suo prestanome un affidamento di 2,9 milioni. Consorte aveva subito eseguito: ironia della sorte, aveva scelto, per facilitare l’acquisto della villa di Fiorani in Costa Azzurra, l’agenzia Unipol di uno dei più noti e meno attrezzati quartieri periferici milanesi.
Qualche giorno dopo, dicono le carte, il braccio destro di Fiorani, Gianfranco Boni, compiva la magia: faceva transitare sul conto di Galetti cinque operazioni di compravendita titoli, che fruttavano un capital gain, al netto, di 2,915 milioni. Da lì, bonifico verso il conto Unipol, per rientrare dell’affidamento concesso da Consorte. Con tanti ringraziamenti da Lodi.
Appare ben più discutibile, anche se ancora sotto giudizio, l’operazione realizzata da Consorte nel 2002 sulle obbligazioni Unipol: un episodio sul quale è in corso a Milano un processo per insider trading, in cui sono imputati, insieme a Consorte, il suo vice Ivano Sacchetti e il finanziere bresciano Emilio Gnutti. Un caso mai visto nella storia della finanza italiana: nessuna azienda vorrebbe mai rimborsare le obbligazioni emesse, la compagnia assicurativa bolognese invece aveva deciso di rimborsarle tre anni prima della scadenza naturale. Perché questa scelta apparentemente inspiegabile?
Consorte risponde: volevamo ridurre l’indebitamento, è stata la compagnia stessa a ricomprare, per risparmiare. «Ma l’unica spiegazione possibile è che si voleva favorire qualcuno, che sapeva del rimborso imminente», ribatte Beppe Scienza, autore del volume Il risparmio tradito. «Sono andato a spulciare le compravendite di quei titoli e ho scoperto movimenti interessanti. I due titoli in questione erano poco trattati, con volumi giornalieri bassissimi. Il 28 febbraio 2002 viene annunciato il rimborso, a 100 lire al titolo. Nelle settimane precedenti, le transazioni s’impennano. Passano di mano volumi per milioni di euro di uno dei due titoli (il 24 gennaio 2002 addirittura 20 milioni). L’altro titolo aveva ancora meno mercato, ma il 28 gennaio ne passano di mano 9,8 milioni. Curioso che in quelle settimane siano spuntati come funghi misteriosi investitori che hanno comprato milioni di euro di queste obbligazioni che prima non voleva nessuno. Chi comprava quei titoli, a prezzi inferiori alle 100 lire, doveva sapere in anticipo dell’imminente rimborso a 100 lire. Così chi ha comprato ha realizzato buone plusvalenze, mentre a perderci sono stati i risparmiatori che avevano comprato le obbligazioni e i soci dell’Unipol, che hanno perso 14 milioni di euro».
Se in quell’operazione del 2002 c’è stato insider trading, lo deciderà il tribunale. Certo è che, dal 2002 a oggi, Consorte si è sempre più integrato nel gruppo dei furbetti, con Gnutti e la sua corte bresciana prima, poi con Fiorani e i suoi amici lodigiani e poi ancora con i mattonari romani alla Ricucci. Di quel gruppo pronto a nuovi arrembaggi, per rinverdire i fasti dell’opa Telecom del 1999, è diventato la sponda a sinistra: il «furbetto rosso».


 

La nuova Tangentopoli? Nasce in Val di Susa

Venerdì 16 Dicembre 2005 01:00 Gianni Barbacetto
Stampa PDF
16.12.2005
La nuova Tangentopoli? Nasce in Val di Susa


Un'intera valle in rivolta. Perché la superlinea e il supertunnel sono inutili: non ci sono né merci né passeggeri sufficienti a giustificare un'opera che costerà come quattro ponti sullo Stretto. Ma sono utili invece per distribuire appalti:
a Marcellino Gavio, all'azienda di famiglia del ministro Lunardi.
e alle cooperative rosse...


di Gianni Barbacetto

Il più grande scontro mai avvenuto in Italia tra interessi generali e interessi particolari. Tra i bisogni del Paese, anzi dell’Europa, e le richieste dei Nimby (“not in my backyard”), quelli che dicono: ovunque, ma non nel mio cortile. Questo è Valsusa, secondo la vulgata corrente. C’è da fare una grande opera utile per il Paese, anzi per l’Europa. Il più lungo tunnel ferroviario del continente. La meraviglia – nome in codice: Corridoio 5 – che permetterà di unire Lisbona a Kiev. La soluzione che passando sotto le Alpi ridurrà da quattro ore a un’ora e mezzo i tempi di percorrenza tra Torino e Lione. Ma di più: il miracolo che permetterà di togliere un fiume di camion inquinanti dalla strada e di convogliarli su rotaia; il portento che quadruplicherà le capacità della ferrovia.
Di fronte a queste meraviglie, che dovrebbero far gongolare anche i verdi più verdi, un manipolo di oppositori si schiera invece inspiegabilmente contro, rifiuta il progresso, minaccia di fare le barricate. Nemici della modernità, Nimby, inguaribili egoisti: dal vescovo ai sindaci, dal presidente della Comunità montana all’ultimo dei valligiani. In questi chiari di luna, compito delle forze politiche responsabili, di destra e di sinistra, da Berlusconi a Fassino, è far capire che gli egoismi localistici non possono fermare i grandi progetti. Tutto chiaro, dunque, e fine dell’inchiesta vecchio stile.
Ma è proprio così? No. Perché chi voglia capire senza preconcetti che cos’è l’Alpetunnel del Frejus, chi provi senza partito preso né preclusioni ideologiche ad addentrarsi nel mare di cifre, tabelle, disegni, cartine, progetti, rapporti, finisce per scoprire che l’operazione Valsusa è (anche) una grande manovra di disinformazione. Ma procediamo con ordine.

Una valle paziente. Nimby? Venite qui a spiegarglielo, a quelli che in Valsusa ci abitano, che sono egoisti. Vivono da vent’anni in un cantiere. Ne hanno visti, di funzionari romani e di burocrati torinesi. Ne hanno sentite, di mirabolanti promesse. Hanno assistito al raddoppio della ferrovia (concluso nel 1977), che nei progetti doveva avere un traffico di 15 milioni di tonnellate di merci l’anno (mai raggiunto). Hanno visto crescere l’autostrada (aperta al traffico nel 1992), costruita nel loro fondovalle, ricavata nel letto della Dora. Hanno aspettato l’edificazione dei nuovi argini, che ancora non sono finiti. Hanno visto scavare le gallerie autostradali sul fronte di frana. Hanno subìto l’alluvione del 2000, perché il fiume si è alla fine vendicato. Hanno visto sorgere l’elettrodotto di Venaus. La centrale elettrica di Pont Ventoux. E hanno constatato che cos’è successo a Bardonecchia: l’unico Comune del Nord sciolto per mafia, perché i cantieri e i subappalti all’italiana hanno portato la ’ndrangheta al potere, con seguito di richieste di pizzo e traffici di eroina e cocaina e occupazione delle istituzioni.

Con tutto ciò, alcuni abitanti della Val di Susa stanno ancora aspettando i rimborsi degli espropri compiuti vent’anni fa per tracciare l’autostrada: molti soldi non sono ancora arrivati... Ne hanno viste di cose, ne hanno sentite di promesse, ne hanno conosciute di facce di bronzo. E oggi non si fidano più, racconta Claudio Giorno, ambientalista e sindacalista, per anni considerato troppo verde dai rossi e troppo rosso dai verdi. Aggiungeteci un piccolo particolare: nell’area tra Borgone e Bussoleno, dove dovrebbe essere costruito l’interscambio tra la vecchia e la nuova linea ferroviaria, continua a funzionare la Beltrame , un’acciaieria di seconda fusione, che ricicla cioè rottame e materiali ferrosi e che provoca tassi d’inquinamento (e di mortalità) tra i più alti d’Italia. È un giocattolino che pesa sull’ambiente 80 volte l’inceneritore di Brescia. E che libera nell’aria non soltanto diossina (prodotto dalla combustione), ma anche Pcb: da dove viene questo veleno? Non certo dal ferro: ma allora qualcuno sta facendo il furbo e usa la vecchia Beltrame per smaltire rifiuti proibiti? Questa però è un’altra storia e un’altra inchiesta.

Ma la pazienza dei valsusini è una, e i loro polmoni solo due. Come stupirsi se si allarmano quando vengono a sapere che, oltre alla diossina e al Pcb, nel loro cielo potrebbe arrivare anche l’amianto? A Balangero c’è la più grande cava d’amianto a cielo aperto d’Europa, ora naturalmente inattiva. Ora si viene a sapere che i detriti di scavo estratti dalle montagne (lo “smarino”) saranno oltre 15 milioni di metri cubi: come dieci piramidi di Cheope. Dove metterle? Anche perché, secondo uno studio ufficiale dell’università di Siena, potrebbero contenere significative quantità d’amianto: “La possibilità che si verifichino condizioni di rischio sanitario è assolutamente rilevante”, scrive l’oncologo Edoardo Gays dell’Azienda ospedaliera San Luigi d’Orbassano. L’amianto potrebbe infatti finire per essere disperso nell’aria.
Infine c’è l’uranio. Il cuore della montagna che, in futuro, sarà trivellata è radioattivo. Ma qui siamo fin troppo avanti. Meglio tornare al presente.

Una linea (abbastanza) inutile. La nuova linea ferroviaria del Frejus è una superopera che inizia a nord di Torino, imbocca la Valsusa , scompare per due volte nella montagna, ad Alpignano e a Bussoleno, con due gallerie (di 21 e 12 chilometri ). Poi vola sul viadotto di Venaus, per infilarsi infine nel supertunnel, quel “tunnel di base” di 53 chilometri che sbuca in Francia, a Saint Jean de Maurienne. Poi altre due gallerie sul versante francese, Belledonne e Chartreuse, portano la linea a collegarsi con l’alta velocità che arriva a Lione.

Il tutto costa come quattro ponti sullo Stretto di Messina. Spiega Andrea Debernardi, di Polinomia, consulente della Comunità montana della Valsusa: il preventivo è di 2,4 miliardi di euro per la tratta nazionale italiana, 6,7 per il “tunnel base”, 6,1 per la tratta nazionale francese. Totale: 15,2 miliardi di euro. Previsione dei tempi di realizzazione: 15 anni. Ma in letteratura, spiega il professor Marco Ponti del Politecnico di Milano, costi e tempi si dilatano almeno del 20 per cento. Viste le prevedibili difficoltà, la superlinea potrebbe costare una ventina di miliardi di euro ed essere pronta, se tutto andrà bene, nel 2023. Finché non sarà posata l’ultima traversina, la ferrovia sarà solo un costo, senza apportare alcun beneficio almeno parziale, senza poter aver alcuna utilizzazione intermedia. E poi che cosa succederà?

Il tunnel sotto la Manica è costato meno, 13 miliardi, ed è fallito non una, ma due volte. Per mancanza di traffico. E serve a unire Parigi e Londra, non (con tutto il rispetto) Torino e Lione. La superlinea che scavalcherà le Alpi è del tutto sovradimensionata, rispetto ai bisogni. Potrebbe convogliare su rotaia merci addirittura per 100 milioni di tonnellate l’anno, con previsione di farne passare 40 milioni: ci vorrebbero 350 treni al giorno, uno ogni quattro minuti, alla velocità di 120 chilometri all’ora, alternati a treni passeggeri da 220 chilometri all’ora. Così il gioco varrebbe forse la candela.
Peccato però che il traffico ferroviario transalpino sia in calo costante dal 2000, fatta eccezione per il Sempione e il Gottardo. Dal Frejus oggi passano merci per appena 7 milioni di tonnellate l’anno (erano 10 milioni nel 1997) e non c’è alcun segnale di svolta, né realistiche previsioni di una crescita così vertiginosa. Gli scambi Italia-Francia sono da lungo tempo consolidati, sono un business maturo in cui non si prevedono nuovi, clamorosi sviluppi. Del resto è già in corso il potenziamento della linea esistente che porterà a triplicare la sua capacità, fino a oltre 20 milioni di tonnellate: a che cosa servirà, allora, la nuova linea? E comunque, perché far arrivare le merci dalla Francia a 120 chilometri all’ora, quando poi, arrivate in Italia, si fermerebbero in qualche stazione e riprenderebbero la velocità media nazionale per i treni merci, che è di 19 chilometri all’ora?

E poi il 70 per cento delle merci che ora passa dal Frejus non corre lungo la direttrice est-ovest, ma quella nord-sud: vanno e vengono da e per Digione, Bruxelles, Londra. Su questa direttrice, le nuove linee svizzere del Gottardo e del Sempione sono più competitive. Quanto agli scambi continentali sull’ipotetica linea Lisbona-Kiev, tranquilli: si spinge tanto sulla Val di Susa come se da essa dipendessero per intero le gloriose sorti e progressive dello sviluppo continentale, ma a est di Trieste non si mette giù neppure un metro di rotaia.

Niente paura, dicono i fautori della Grande Opera: non ci sono solo le merci, ci sono anche i passeggeri. E così la linea nata come “alta velocità” per i passeggeri e poi diventata “ad alta capacità” per le merci ridiventa magicamente una linea “ad alta velocità” capace di spostare le persone lungo il mitico “Corridoio 5” . Ma la grande corsa Lisbona-Kiev sarà difficile da fare, non foss’altro per il fatto che le ferrovie spagnole hanno uno scartamento diverso dal resto d’Europa. “E poi l’alta velocità c’è già. E non costa un centesimo allo Stato: si chiama Ryan Air”, taglia corto il professor Marco Ponti. “Un biglietto aereo low cost ha un prezzo inferiore ai biglietti ferroviari, ma soprattutto non richiede denaro pubblico, quello che le ferrovie invece inghiottono in dosi pantagrueliche”.

Difficile infine poter definire “ad alta velocità” una linea quasi tutta in galleria, intasata dai treni merci, che correrà non a 300, ma al massimo a 120 chilometri all’ora. Alla fine, come dimostra Debernardi, la tanto sbandierata “alta velocità” tra Lione e Torino farà risparmiare soltanto un’oretta. Anche perché – udite udite – per poter entrare in Torino i treni veloci dovranno correre non sulla nuova superlinea, ma sulla vecchia ferrovia già esistente.

In compenso, il nodo torinese entro cinque anni scoppierà. Anche Milano non sta benissimo quanto a sistema dei trasporti. Ma per risolvere il problema Torino e il problema Milano non ci saranno soldi: tutti impegnati nel supertunnel che piace tanto al ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi.

Treni? No, tunnel.
L’architettura societaria per fare l’Alpetunnel è un’invenzione che supera perfino quella dell’alta velocità o del ponte sullo Stretto, con apparenza privata e soldi tutti pubblici. Per il nuovo Frejus si sono alleate le ferrovie francesi (Rff) e quelle italiane (Rfi) che insieme, al 50 per cento, hanno costituito la Ltf , Lyon Turin Ferroviaire, con il compito di progettare la superlinea e appaltare i lavori. In questo caso non hanno fatto neppure finta di tirare in ballo investimenti privati, project financing, redditività futura: paga Pantalone e basta. Con quali soldi, visti i conti dello Stato, resterà un mistero.

Ma l’importante è mettere in moto la macchina dei finanziamenti, che poi si autoalimenterà. A nessuno interessa veramente il risultato, che arriverà (forse) tra vent’anni. “Treni? Qui non si parla di treni, ma di tunnel”, ripetono i funzionari delle ferrovie. L’importante è scavare, e cominciare il più presto possibile. Aprire cantieri. Far girare i soldi. Oggi, subito. Che cosa importa che il tunnel sotto la Manica sia già fallito due volte? E che l’Alpetunnel ( 200 chilometri complessivi) costi 15 miliardi di euro, mentre il molto più utile Gottardo ( 270 chilometri ) ne costi solo 12? In tutto ciò, Ltf è il Pantalone che pagherà. Un Pantalone asimmetrico: benché il controllo della società sia al 50 per cento dei francesi e al 50 per cento degli italiani, per decisione presa da Lunardi gli italiani pagheranno di più, il 63 per cento della tratta internazionale (4,2 miliardi) più l’intera tratta nazionale (2,4 miliardi), per un totale di 6,6 miliardi di euro; eppure la supergalleria è solo 8 chilometri in territorio italiano e 45 in suolo di Francia.

Ma che importa? A incassare, tanto per cominciare, sarà la Rocksoil della famiglia Lunardi, incaricata dei “sondaggi” (le prime trivellazioni) in Francia: così sarà ipocritamente aggirato il conflitto d’interessi del signor ministro delle Infrastrutture. In Italia incasserà la Cmc di Ravenna, già pronta a iniziare i “sondaggi” sul territorio nazionale. Con la Cmc , cooperativa rossa, la Grande Opera diventa bipartisan. Benedetta anche dai vertici dei Ds, da Piero Fassino in giù, fino all’uomo degli affari della Quercia a Torino, il molto attivo capogruppo alla Provincia Stefano Esposito. E benedetta malgrado la fiera opposizione dei diessini della Valsusa, sindaci compresi e con in testa Antonio Ferrentino, presidente della Comunità montana Bassa Valle di Susa. Ma, del resto, responsabile nazionale delle Infrastrutture per i Ds è quel Cesare De Piccoli che fu indagato e processato (e poi salvato dalla prescrizione) per aver incassato mazzette dalla Fiat, ai bei tempi di Tangentopoli, sui conti Accademia, Carassi, Linus...

Costi (tanti) e benefici (pochi). Dunque il (poco) tempo risparmiato dai (pochi) passeggeri non giustifica un investimento così massiccio. Il promesso incremento delle merci che potranno essere trasportate con i treni non combacia con previsioni attendibili su un reale aumento delle merci da trasportare. Che cosa resta, allora, della grande impresa? Ci saranno grandi benefici ambientali, ribattono i sostenitori del tunnel, perché le merci potranno passare dai camion (inquinanti) al treno. Illusione, sostiene più d’uno studioso. Il professor Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino, consulente dei comitati NoTav, ricorda che in Italia soltanto il 17 per cento delle merci viaggia su rotaia e la quota non è purtroppo molto incrementabile. Per spostare piccoli numeri dalla gomma al ferro, bisogna sopportare costi pubblici immensi. Le ferrovie, del resto, nel loro complesso sono costate in 15 anni all’Italia quanto il Progetto Apollo agli Stati Uniti. E non abbiamo mandato nessuno sulla Luna.

Marco Ponti taglia corto: “La ferrovia è una tecnologia dell’Ottocento, è ottima per trasportare per lunghi tratti merci pesanti, che produciamo sempre meno, o grandi numeri di passeggeri nelle aree metropolitane; legname, non microchip o abiti di Armani. E poi ha bisogno di immensi finanziamenti dello Stato, che oggi non ci sono più. Ora, invece, varrebbe la pena di ridurre le emissioni differenziando i pedaggi e le tassazioni per i camion: far pagare molto quelli che inquinano di più, così da rendere economico il rinnovo del parco mezzi circolante. Così il beneficio ambientale sarebbe diffuso, non limitato a una sola tratta. Se proprio poi si volesse aumentare la capacità di trasporto merci, allora converrebbe realizzare il raddoppio del tunnel stradale del Frejus: costa un decimo e le emissioni possono essere ridotte con i pedaggi fortemente differenziati”.
Non ci saranno neppure grandi benefici occupazionali: lo scavo di tunnel è un lavoro ormai molto automatizzato. “Si metterebbe molto di più in moto l’economia e l’occupazione con un grande piano di ristrutturazione delle periferie urbane”, valuta Ponti.

I furbetti del tunnellino.
Tangentopoli ci ha insegnato che quando girano soldi pubblici, spesso c’è chi ne approfitta. L’alta velocità è la Tangentopoli del futuro, prevedeva in un suo libro, qualche anno fa, lo studioso bolognese Ivan Cicconi. Il futuro è già qui, anche se ancora non conosciamo nei particolari il nuovo sistema della corruzione. Conosciamo però il curriculum di alcuni degli uomini impegnati nella grande festa dei tunnel e delle linee ferrate. Di Lunardi, ministro e progettista, sono pubblici i coinvolgimenti nei lavori (mediante società di famiglia), anche se la Ltf li nega decisamente. Alcune inchieste giudiziarie, poi, evidenziano l’attivismo negli appalti di Ugo Martinat, esponente di An e viceministro delle Infrastrutture, gran burattinaio degli affari piemontesi ora indagato per turbativa delle gare per la Torino-Lione , oltre che per i Giochi olimpici. L’inchiesta sta evidenziando la regia discreta, negli appalti sabaudi, del costruttore Marcellino Gavio, attorniato da una cupola di ex funzionari di una delle sue aziende, la Sitaf , che oggi hanno fatto carriera in proprio e da democristiani o socialisti si sono “riposizionati” in area An.

Le intercettazioni telefoniche realizzate dalla Guardia di finanza svelano i retroscena dei maneggi compiuti da questi ex uomini di Gavio, tra cui Vincenzo Procopio, oggi titolare della Stef, la società che ha progettato l’autostrada Torino-Bardonecchia, Walter Benedetto, responsabile della direzione lavori di Ltf, e Gianni Desiderio, del comitato direttivo dell’Agenzia olimpica. Non sospettando di essere intercettati, parlano tra loro e con Paolo Comastri, numero uno italiano della società mista Ltf: chiacchiere tutte da verificare, da furbetti del tunnellino. Desiderio, per esempio, racconta al telefono che la società Stone è del ministro (vorrà dire Lunardi?) e che si è alleata con l’Alpina di Milano, una “scatola vuota” che sarebbe stata messa in campo da Gavio: “Ci ha fottuti, vi ha fottuto”, dice Desiderio a Benedetto. Procopio, che nelle conversazioni telefoniche viene definito “il cassiere di Martinat”, s’arrabbia nei confronti di Gavio, lo sospetta di brogli nelle gare e progetta di far arrivare contro di lui interpellanze in Parlamento. Poi lo va a trovare, si tranquillizza e il giorno seguente spiega la situazione a Benedetto. Infine riferisce a Desiderio “di aver appreso dai comuni amici della Metropolitana milanese che non è stato fatto un bel lavoro e che si aspettavano un aiuto più concreto”. Prosegue il rapporto dei finanzieri: “Vincenzo (Procopio) aggiunge che “serve una botta” e si rende necessario “fare un intervento”. Gianni (Desiderio) gli dice di andare a parlare con Walter (Benedetto), dato che lui è il presidente della commissione, per verificare se è necessario intervenire presso Comastri, per poi passare la cosa a Ugo (Martinat)”.

Quando Benedetto riferisce a Martinat che teme grane giudiziarie “per il cantiere di Modane” e lo informa che c’è di mezzo la Rocksoil della famiglia Lunardi, Martinat risponde: “Uh, cacchio!”. E poi: “Vabbe’, pazienza, nella vita non si vince sempre...”. Comastri e Benedetto brigano per far vincere a Procopio la gara d’appalto per la “discenderia” di Venaus (una delle gallerie d’accesso ai tunnel). Quando appare ben piazzata, invece, la società Geodata, i due sospendono la gara: “Geodata ha la maglia rossa, è vicina alla sinistra”. La Guardia di finanza va allora nella sede di Ltf a sequestrare i documenti dell’appalto, ma i due li fanno sparire: “Li mandiamo su a Chambery”. Comodo, lavorare alla frontiera.

Dalle intercettazioni emerge una certa arietta d’intese bipartisan per gli appalti ferroviari e stradali piemontesi, con Gavio ben introdotto anche negli affari che dipendono da Comune, Provincia e Regione, tutti di centrosinistra. Ma in questa storia d’appalti di rito sabaudo spunta anche l’ambasciatore Umberto Vattani, che ha contribuito a definire in sede internazionale l’architettura societaria per la gestione della Torino-Lione. E spuntano anche alcuni protagonisti della vecchia Tangentopoli. Quell’Ercole Incalza che fu travolto dallo scandalo di Lorenzo Necci (a lungo numero uno delle Ferrovie italiane), ma che fu poi subito riciclato nientemeno che come responsabile del gruppo Economia della commissione intergovernativa italo-francese che ha preparato l’iter per l’approvazione del supertunnel da parte dei rispettivi governi: oggi Incalza è consigliere del ministro Lunardi e membro del “gruppo Van Miert” in sede Ue. E quell’Emilio Maraini che insieme a Incalza fu il dirigente Fs più vicino a Necci, per anni numero uno della Italfer, la società incaricata della progettazione e della vigilanza sull’alta velocità.

Nel 1993 Maraini fu arrestato a Milano dal pool Mani pulite e negli interrogatori ammise le tangenti pagate come amministratore delegato di Ansaldo Trasporti per partecipare ai lavori delle metropolitane di Roma e di Milano. Poi, con un paio di rinvii a giudizio sul groppone, fu messo da Necci al vertice dell’Italfer, finché finì di nuovo in cella, nel 1998, per ordine dei magistrati di Perugia, in una delle tante inchieste sull’alta velocità. Forte di questo know-how, oggi Maraini è consigliere di Lunardi per gli affari internazionali.
Martinat e Gavio sospendono ogni conflittualità e fanno fronte comune quando si tratta di pretendere soldi pubblici. Martinat: “Tremonti vuol tagliare le spese. Noi sosteniamo la tesi opposta, bisogna sfondare ulteriormente. Andiamo a Bruxelles e diciamo affanculo... Abbiamo bisogno di soldi da investire quest’anno, il prossimo e quello seguente, se vogliamo vincere le elezioni! Secondo Tremonti, questo ministero dovrebbe spendere il 10 per cento in meno in strade, ferrovie eccetera”. Gavio: “Roba da matti!”. Così si decidono le grandi infrastrutture e le sorti del Paese. Le teste calde della Valsusa sono avvisate: non fermeranno il Progresso.



Tangenti ad alta velocità

La vera storia dell’appalto Tav numero uno. Gara truccata, soldi al viceministro, blocco dell’appalto. Finché non spunta la “rossa” Cmc, alleata con il costruttore “bianco”...

di Gianni Barbacetto


Egoismo localistico contro interesse nazionale. Nimby (quelli che dicono: dovunque, ma non nel mio cortile) contro i paladini della modernità e del progresso. Ma a ben guardare i conti, proprio l’interesse nazionale dovrebbe far accantonare l’alta velocità in Valsusa. Una spesa colossale (oltre 15 miliardi di euro, quattro volte l’investimento per il ponte sullo Stretto di Messina) per ottenere risultati modesti. Un’opera sostanzialmente inutile: il traffico merci tra Francia e Italia è da anni in calo costante. Se l’interesse nazionale è dunque sostenuto, in realtà, dai cittadini della Valsusa che si oppongono al più grande spreco della storia d’Italia, la parte degli egoisti è ben interpretata dalla lobby politico-affaristica del supertunnel. Che sulla Valsusa, oltretutto, ha già impiantato una nuova Tangentopoli.
Lo dimostra la storia del primo appalto per l’alta velocità in Valsusa. Importante «non tanto per l’importo», scrivono i giudici che hanno già dovuto occuparsene, «ma perché si tratta della fase iniziale di lavori ben più vasti».

Appalto pilotato. Tutto comincia a Venaus, la località della Valsusa dove dovrebbe iniziare il supertunnel di 53 chilometri che dovrebbe passare sotto la montagna e sbucare in Francia. La società che guida le danze è l’appositamente costituita Ltf (Lyon Turin ferroviaire), impresa pubblica controllata a metà dalle ferrovie francesi (Rff) e a metà da quelle italiane (Rfi). Il primo appalto Ltf è per la progettazione della discenderia di Venaus, cioè la galleria di servizio del supertunnel. Per accaparrarselo, si mette in moto una variopinta compagnia di furbetti del tunnellino.

Vincenzo Procopio, titolare della società Sti, è il vincitore designato. Ugo Martinat, viceministro delle Infrastrutture e uomo di An, è il suo santo in paradiso. Paolo Comastri, direttore generale di Ltf, e Walter Benedetto, responsabile della direzione costruzione di Ltf, sono gli angeli che scendono dal paradiso per far avverare i desideri di Procopio e Martinat.

Le indagini della procura di Torino sulla gara truccata di Venaus nascono per caso. Nel dicembre 2003, infatti, arrivano per posta quattro buste contenenti strani auguri di Natale: una cartuccia Smith & Wesson calibro 40. Due sono recapitate a Procopio, agli indirizzi di casa e dell’ufficio, una a Gianni Desiderio, del comitato direttivo dell’Agenzia olimpica, la quarta a un tale Arcidiacono. Per scoprire chi è il mittente della minaccia e proteggere i quattro destinatari, la procura mette sotto controllo i loro telefoni: non l’avesse mai fatto! Dalle conversazioni registrate, i magistrati capiscono che i quattro si stanno dando molto da fare, insieme ad altri, per gli appalti piemontesi. Ascoltano in diretta, esterrefatti, la vera storia della gara di Venaus.

Gli uomini della Ltf, Comastri e Benedetto, ma anche Desiderio, spifferano a Procopio tutti i segreti dell’appalto. Gli raccontano che alla gara è interessata la Stone , «società del ministro» (Pietro Lunardi?), che si è alleata con l’Alpina del costruttore Marcellino Gavio. Smaniano per farlo vincere.

Un regalo ad An. Procopio trova il modo di sdebitarsi. Il 19 marzo 2004 parte un bonifico di 23 mila euro. «Procopio mi ha detto di fare un versamento ad An, dicendo che il partito aveva bisogno di fondi», racconta tal Casalegno, che si occupa materialmente dell’operazione. La conferma arriva dalla stessa segreteria di Martinat: il 7 maggio 2004 Alfredo Calvani, dello staff del ministro, chiama Procopio e gli conferma che il bonifico è arrivato.

Intanto Procopio e Comastri s’incontrano anche di persona, mercoledì 24 marzo 2003. Commentano i magistrati: «È un grave indizio di turbativa e di collusione. Non vi è altro modo di valutare l’incontro riservato, pochi giorni prima della chiusura del termine per presentare le domande, tra uno dei potenziali concorrenti a un’asta pubblica e il più alto dirigente del committente».

Nella riunione, Comastri spiega a Procopio che per vincere deve associarsi con un’altra impresa, la Mm di Milano. Detto, fatto: Procopio telefona a Maria Rosaria Campitelli, della Mm, e le dice che devono unire le forze, che non può spiegare tutto al telefono, ma che la gara si può vincere. «Io volevo solamente dirti questo, siccome io ho parlato stasera e so tutto... e l’idea è venuta anche da lì... Dice: mettetevi insieme». Le fa capire che la cosa è fatta: «So tutto... ma so tutto... so tutto, perché ho parlato con persona giusta!». Insiste: «Se ti dico di farla con me, vuol dire... che ho qualche motivo...». Certo, i tempi sono stretti, le offerte devono essere presentate entro il 2 aprile, ma non c’è da preoccuparsi, perché il termine sarà prorogato.

Intanto anche Benedetto chiama Procopio e gli dice di «sposarsi con quei signori di Milano», perché il capo (Comastri) vede di buon occhio quell’unione. Poi, il 25 marzo, la previsione si avvera. Benedetto annuncia: «Scusami se ti disturbo, la scadenza è stata spostata a mercoledì 14 aprile». Procopio, riconoscente, esclama: «Madonna, vi abbraccerei tutti e due!».

A questo punto, l’allegra compagnia mette a punto l’offerta. Benedetto, nominato da Comastri presidente della commissione tecnica di gara, si mette a disposizione di Procopio. Gli spiega come fare la relazione tecnica, come calcolare i prezzi, come rispettare le regole francesi per le offerte, diverse da quelle italiane. Per evitare sorprese, la presidenza della commissione per l’aggiudicazione della gara, che dovrà far vincere la Sti di Procopio associata all’Mm, viene affidata ad Adolfo Colombo, che dell’Mm è stato direttore generale dal 1994 al 2000 e, in passato, presidente del consorzio Malpensa construction (Sea-Mm) per la costruzione del nuovo aeroporto della Malpensa nonché presidente del consorzio Mm-Sogemi per il potenziamento dei mercati all’ingrosso di Milano.

Ma il diavolo ci mette la coda. Malgrado tante cautele, l’intrallazzo naufraga: un banale errore di redazione della domanda fa escludere dalla gara l’associazione Sti-Mm. Passa avanti un’altra società, la Geodata : «Invisa al ministro perché appartiene all’opposta corrente politica» e dotata però anch’essa dei suoi santi in paradiso (l’ingegner Alessandro Macchi, membro della commissione per la gara di Venaus). Benedetto è sconfortato: «Piuttosto che far vincere Geodata e giocarci le mie palle col ministro, preferisco che vinca un altro...».

Procopio viene allertato subito: «Lo so, lo so, abbiamo fatto un po’ di corse... Ah», sospira, «conviene fare qualcosa...». Anzi: «Serve una botta». Un giro di telefonate, e la botta arriva: la gara viene annullata e si comincia tutto da capo. Così Procopio corregge gli errori e s’appresta a presentare la sua domanda. Peccato che, a questo punto, scatti la magistratura. Intervengono i sostituti procuratori Paolo Toso e Cesare Parodi, che mandano la guardia di finanza nella sede torinese della Ltf. Invano: l’impiegata presente dice di non essere in grado di trovare alcun documento sulla discenderia di Venaus. Possibile? Subito dopo, al telefono, Comastri chiama Benedetto, lo avvisa dell’inchiesta, gli ordina di far sparire al più presto il dossier chiuso nel suo armadio e di portarlo nella sede Ltf di Chambery.

Allora i magistrati torinesi provano a chiedere nei confronti di Procopio una misura cautelare meno punitiva dell’arresto, ma economicamente più efficace: chiedono che gli sia impedito di partecipare, per un periodo di tempo, alle gare d’appalto. Il giudice per le indagini preliminari dice no, anche perché ritiene che non si possa procedere nei confronti di personaggi coinvolti in una gara indetta dalla Ltf, società di diritto francese con sede a Chambery. Blindati e intoccabili, dunque, gli appalti della Valsusa: non c’è corruzione, non c’è tangente che tenga, ci pensino i francesi, se ne hanno voglia.

Ma il tribunale del riesame nel settembre 2006 ribalta la decisione. Ltf è stata incaricata dal governo italiano, oltre che da quello francese, di essere «stazione appaltante» e di indire pubbliche gare, dunque è a tutti gli effetti parte della pubblica amministrazione. È «del tutto irrilevante verificare il luogo in cui la gara è stata indetta e la legge di quale dei due Stati regolamenterà l’esecuzione dell’appalto». Se la Cassazione confermerà questa decisione, salterà la garanzia d’impunità sugli appalti della Valsusa.

Il tribunale del riesame, stabilito che la trasparenza e la correttezza delle gare devono valere anche per la Ltf , accoglie il ricorso della procura di Torino e blocca l’attività dell’ingegner Procopio. Con una motivazione durissima nei confronti della «disinvolta spregiudicatezza dimostrata e in particolare la pervicacia con la quale ha continuato a insistere nella turbativa della gara per la discenderia di Venaus, anche quando era stata quasi assegnata ad altro concorrente».

Indagato anche il santo in paradiso di Procopio, il viceministro Martinat. Ma è un parlamentare. La procura, per continuare l’indagine, ha chiesto alla Camera l’autorizzazione a utilizzare le intercettazioni telefoniche in cui compare la voce di Martinat. Ma la Camera si guarda bene dal rispondere.

Nel frattempo, però, la gara è stata rifatta e a vincere è stata una new entry: la Cmc , cooperativa rossa di Ravenna. Cambia così anche l’atteggiamento dei vertici Ds nei confronti del supertunnel della Valsusa. Mercedes Bresso, la presidente della Regione, è oggi una moderata ma ferma sostenitrice dell’alta velocità. Eppure nel 2000 dichiarava: «Non barattiamo e non spezziamo il nostro tracciato. La soluzione Alpetunnel ha un impatto sulla valle a dir poco devastante. È prevista un’uscita del tunnel che avrà effetti disastrosi. Così come la stazione di sorpasso di Bruzolo e la stessa occupazione dei terreni della parte bassa della valle. Vogliamo che ci sia un confronto tecnico e politico che vada fino in fondo. E che porti a una decisione definitiva». Parole oggi dimenticate.

Accanto a Cmc, nello stesso raggruppamento d’imprese, si trova la Cogeis. Titolare Giovanni Bertino, indagato in passato per reati ambientali a Ivrea e arrestato, nel 1991, per corruzione ad Aosta (insieme a Bruno Binasco, il braccio destro del costruttore Marcellino Gavio). L’inchiesta era quella della procura d’Aosta sugli appalti truccati per il raccordo dell’autostrada Torino-Aosta e per la statale del Gran San Bernardo. Nel corso di quella indagine, ricevette un avviso di garanzia anche il protettore politico di Bertino, Giuseppe Botta, gran signore delle tessere ai bei tempi della Dc, quando era anche presidente della commissione Lavori pubblici della Camera. Tutto finì con Botta assolto e Bertino, invece, condannato in appello a 1 anno e 6 mesi.

Oggi Giuseppe Botta ha passato il testimone politico al figlio, Franco Maria Botta, esponente dell’Udc, molto vicino a Pierferdinando Casini. Dope essere stato assessore nella giunta regionale di Enzo Ghigo, si è candidato, per il centrodestra contro Antonio Saitta, alla presidenza della Provincia di Torino. Una sfida che sapeva persa in partenza, ma che lo ha comunque portato a mantenere alta la sua visibilità. Oggi è consigliere regionale. E Giovanni Bertino? Il costruttore «bianco» è tornato agli appalti, in alleanza con i «rossi» della Cmc.
Le indagini continuano. E s’intrecciano con quelle dei lavori olimpici e autostradali piemontesi. La nuova Tangentopoli sta prendendo forma.

(Diario, 16 dicembre 2005)

La Camera ha poi risposto ai giudici: le intercettazioni di Martinat non potranno essere utilizzate.
 

«Aggiotaggio per Zunino»

Martedì 08 Novembre 2005 01:00 Il Giorno
Stampa PDF

08.11.2005 - Il Giorno

Il principe degli immobiliaristi entra nell’indagine Antonveneta. Nel mirino i rapporti con Danilo Coppola
«Aggiotaggio per Zunino»

di Marinella Rossi

MILANO — E’ il principe degli immobiliaristi. E’, anche, l’uomo che ha più comprato e ristrutturato e rivoluzionato Milano negli ultimi dieci anni. Ex area Porta Vittoria, ex area Carlo Erba di via Imbonati, ex area Falk di Sesto San Giovanni, e la città del futuro, la periferia di lusso automatizzata e robotizzata di Montecity Rogoredo, con la griffe di Norman Foster. Un curriculum d’autore, un uomo bipartisan, che negli affari mette d’accordo tutti: coop bianche, rosse, gialle. «Nasce», per così dire, negli anni 80, quando questo ragazzo che ora ha appena 46 anni, è iscritto alla Coldiretti come vitivinicultore. Ma l’ascesa è più che «ricucciana»: in un decennio dai filari d’uva a rappresentante legale di grappoli di società. Ora, sia pure con passi felpati, e proprio quando l’inchiesta pare appena declinare, Luigi Zunino, nel frattempo principe assoluto di Risanamento, con quel suo curriculum di immobiliarista di razza milionaria (in euro), entra nell’inchiesta Antonveneta che proprio dei palazzinari sembra fare strame. Entra, magari solo marginalmente, nel concerto per la scalata taroccata alla banca padovana che dei re del mattone sembra il tallone d’Achille. Anche lui, sia pure di fresca nomina, è indagato per aggiotaggio (un’ipotesi di concorso). Complici gli intrecciatissimi rapporti — di mattoni in continua compravendita — con altro reuccio palazzinaro, il romano Danilo Coppola, che in Antonveneta è implicato sin dalla prima ora.
L’ipotesi di reato sulla quale i sostituti procuratori Eugenio Fusco e Giulia Perrotti sono chiamati a indagare viene da un rapporto della Consob che affronta uno degli affari Zunino-Coppola, trait d’union le azioni Antonveneta. E’ infatti dalle carte Consob che emerge la sottolineatura all’operazione targata marzo 2005: nel pieno della scalata della Bpi di Gianpiero Fiorani ad Antoneventa, contro gli olandesi di Abn Amro, la Bpi si dichiara disponibile a concedere a Coppola una fideiussione da 44 milioni, necessaria per lanciare l'Opa sulla Ipi, ex gioiello immobiliare di casa Fiat quotato in Borsa e messo in vendita da Luigi Zunino. Grazie ai prestiti di Fiorani, a febbraio Coppola ha comprato titoli Antonveneta per circa 100 milioni, che poi rivende a metà aprile proprio a Zunino. Ma due giorni dopo la vendita (il 21 aprile), Coppola ricompra lo stesso stock di azioni appena cedute, a un prezzo del 25 per cento più elevato. Un comportamento in apparenza irrazionale. In apparenza. Perché in realtà assai spesso l’uomo di Risanamento e l’immobiliarista romano si scambiano i ruoli, da compratore a venditore e viceversa. Solo che stavolta, c’è di mezzo il pacchetto galeotto, Antonveneta.
«Siamo stati chiamati per dare chiarimenti sull'acquisto di azioni Antonveneta in merito a un operazione immobiliare della società del gruppo Zunino Nuova Parva con il gruppo Coppola», dichiara laconicamente un portavoce del gruppo Zunino. Certo è che l’operazione Ipi pare il punto di partenza e di arrivo: nel febbraio, chiuso l’affare Ipi, Zunino, attraverso società personali ha venduto al gruppo Coppola anche due immobili a Milano per 80 milioni di euro. Coppola paga in parte cash e in parte, 50 milioni di euro, con titoli Antonveneta.
A proposito di titoli: la guardia di finanza ha sequestrato altri 4 milioni e 600mila azioni Antonveneta sfuggite al sequestro del luglio, per un controvalore di circa 110 milioni di euro. Le azioni sono state trovate presso la sede milanese di Bnp Paribas, dove erano depositati in due fondi, Generation Fund e Momentum, entrambi collocati alle isole Cayman e riconducibili a Bpi, all'ex ad Fiorani e al suo entourage. Entourage che si arricchisce di dimissioni: ieri è toccato a Gianfranco Boni, oramai ex direttore finanziario, già sospeso dalla magistratura.

 

 

Antonveneta, Zunino indagato per aggiotaggio

Martedì 08 Novembre 2005 01:00 Corriere
Stampa PDF
08.11.2005 – Corriere

La compravendita degli immobili in via Montenapoleone e via Manzoni pagati con azioni della banca padovana.
Sotto esame un’operazione con Coppola. La difesa: «Per Consob era tutto regolare»

MILANO - Aggiotaggio. Con questa ipotesi di reato Luigi Zunino, uno dei più importanti imprenditori immobiliari italiani, è stato iscritto nel registro degli indagati della Procura di Milano, nell'ambito dell'inchiesta sulla scalata Antonveneta. Inchiesta che ieri ha portato alla luce (e sequestrato) altri 4,6 milioni di titoli dell'istituto padovano, nascosti dietro lo schermo dei due fondi di Cayman, Generation e Momentum, utilizzati da parcheggio «clandestino» nell’epoca della gestione Fiorani. L’iscrizione di Zunino è avvenuta circa una settimana fa e dovrebbe essere duplice: la persona giuridica, ovvero la Nuova Parva , holding di famiglia, e il suo legale rappresentante nonché presidente e proprietario, Luigi Zunino. Pochissimo si sa sui motivi della decisione dei pm Eugenio Fusco e Giulia Perrotti, che hanno già indagato (con vari livelli di responsabilità e di reato), Gianpiero Fiorani (ex numero uno di Banca Popolare Italiana, Bpi), Gianfranco Boni (ex direttore finanziario, appena dimessosi), Stefano Ricucci, Emilio Gnutti e Danilo Coppola.
Per quanto riguarda Zunino le indagini si sarebbero concentrate sulla compravendita con Coppola, per 80 milioni, di due immobili nel centro di Milano, in via Montenapoleone 15 e via Manzoni 44. A chiudere l’affare sono state società private dei due imprenditori: la Nuova Parva di Zunino e la lussemburghese Milano Properties di Coppola.
Coppola, dopo qualche slittamento dei termini, avrebbe pagato in azioni Antonveneta. Una prima tranche già il 19 aprile. Con questi titoli, intestati fiduciariamente a Intermobiliare, la società di Zunino è andata in assemblea Antonveneta il 29 aprile (quella del primo ribaltone) votando la lista Bpi, vincente. Ma forse i magistrati potrebbero essere interessati anche ai rapporti con la Bpi di Fiorani che ha «sponsorizzato» finanziariamente (con pegno sui titoli) l’investimento personale di Zunino in Mediobanca (circa il 2%).
Uno dei legali di Zunino, Giovannandrea Anfora dello studio Chiusano di Torino, ricorda che l’imprenditore «è già stato sentito dalla Consob a inizio maggio», quando fu istruita la pratica sul «concerto» Antonveneta. E in quell’occasione, « la Commissione ha riconosciuto la correttezza dell’operato di Zunino e non ha mosso rilievi, escludendo il concerto». L’immobiliarista «dichiara la sua completa estraneità - conclude il legale - a qualsiasi ipotesi di non corretto comportamento sia a titolo personale sia riguardo a società a lui riferibili». Ci sono già contatti con la procura e nei prossimi giorni i legali di Zunino dovrebbero produrre un dossier sull’operazione degli immobili milanesi e sulla contropartita in azioni Antonveneta. Intanto a Roma c’è stato un vertice tra i pm e la Guardia di Finanza per fare il punto sulle tre inchieste aperte nella capitale.
 

Giuseppe Statuto, storia del primo miliardo

Venerdì 21 Ottobre 2005 01:00 Domenico Marcello
Stampa PDF

21.10.2005 - L'inchiesta vecchio stile

Giuseppe Statuto, storia del primo miliardo

È più defilato di Stefano Ricucci. Più presentabile di Danilo Coppola. Meno provvisorio di entrambi. Ma non meno misteriosa è l’origine della sua improvvisa ricchezza. Che ha una data: 22 maggio 2003. E un luogo di nascita: le Isole Vergini Britanniche. Ecco, società per società, come è avvenuto il parto

di Domenico Marcello

Non porta stivali texani e chiome alla spalla come Danilo Coppola. Non ha le frequentazioni patinate del socialite de noantri Stefano Ricucci. Eppure è amico, e socio, di entrambi. La stampa finanziaria, che apprezza il basso profilo, lo tratta con rispetto. Gli evita le insinuazioni che, a volte, riserva ad altri immobiliaristi scalatori di banche. Lui è serio. Lui si sa da dove viene. Lui non si paragona a Bill Gates, come è incredibilmente riuscito a fare il Magiste elegantiarum in un’intervista al Corriere. Lui ha un modello che incute reverenza e si chiama Francesco Gaetano Caltagirone, uomo fra i più liquidi d’Italia con 2 miliardi di baiocchi in contanti, padrone di giornali che non parla coi giornali, suocero del successore politico di Silvio Berlusconi, Pierferdinando Casini. Direbbero a Roma: uno che mena.
Giuseppe Statuto, di anni 38, ha molto in comune con il costruttore ed editore del Messaggero. Come le origini dei Caltagirone sono sicule, così quelle di Statuto si trovano a Casaluce, nell’agro aversano, dove nacque il capostipite Raffaele, appaltatore. Gli Statuto sono arrivati nella capitale in tempi recenti. Hanno incominciato a costruire, cose piccole. Ma non è questo l’importante. A Roma, l’importante è parlare latino, la lingua per niente morta del potere. E il latino, o lo sai o non lo impari. Gli Statuto lo sapevano per dono di natura, soprattutto Giuseppe. E lui, secondo di tre figli, ha saputo conquistarsi i canali giusti. Una volta consolidatosi a Roma, è sbarcato in forze nella capitale morale del mattone, Milano.
Tutto questo è successo in poco più di dieci anni in totale, contando dalla scomparsa del capofamiglia. Quando Raffaele Statuto è morto, nel 1992, le redini dell’azienda sono passate a Giuseppe, non al primogenito Domenico, maggiore di tre anni. Laureato in Filologia musicale all’università di Pavia ed esperto suonatore di clavicembalo, Domenico oggi si dedica principalmente alla ristorazione (Il bicchiere di Mastai e la Cappa Manzoniana a Roma, la Città della scienza a Napoli), mentre il minore, il trentenne Ivan, fa esperienza in società minori del gruppo Michele Amari.

Soldi Amari. Michele Amari: è così che si chiama la holding romana o, per esattezza, la ex holding della famiglia Statuto con sede in piazza San Bernardo, in cima a via Barberini. La società era stata fondata nel 1991 da un altro costruttore poco più anziano di Giuseppe Statuto ma, al tempo, molto più noto. A vendere la Michele Amari nel 1994 fu la Fimar dell’allora trentenne Alfio Marchini, il nipote di Alfio senior, detto il palazzinaro rosso perché era così comunista da regalare il palazzo di Botteghe Oscure al Pci. Ma non così comunista da disdegnare i soldi di Italcasse, banca dei palazzinari bianchi per eccellenza, i fratelli Caltagirone. Il rapporto si è conservato nelle generazioni. Marchini e Caltagirone a Roma sono un asse di ferro negli affari, confermato dalla tentata opa sulla spagnola Metrovacesa.
Ai tempi della cessione da parte della Fimar, Michele Amari era poco più che una scatola. Oggi è un prodigio dell’economia italiana del duemila, periodo che conta ben pochi miracoli. Alla fine del 2001, l’immobiliare degli Statuto era una piccola società che portava a casa 79 milioni di euro di ricavi con una perdita di bilancio di 1,4 milioni. Nel 2002 il fatturato era passato a 100 milioni con un utile di 10. Nel 2003, l’anno in cui inizia la scalata alla Banca nazionale del lavoro, ci sono vendite più che raddoppiate: 269 milioni di euro. L’anno scorso, il gruppo ha incassato 531 milioni di euro con 20 milioni di utile. Nel giro di tre esercizi, dal 2002 al 2004, Statuto è passato da piccolo imprenditore a Mister 1.000 miliardi di vecchie lire con un ruolo strategico non solo nella vicenda Bnl, ma in una serie di salotti e salottini finanziari dove si costruiscono plusvalenze di Borsa e bolle speculative assortite. Le ultime stime riferite al 2005, ed elaborate da lui stesso, parlano di un patrimonio che sfiora il miliardo di euro. L’ascesa di Statuto è di certo fulminante, ma non sembra provvisoria come quelle di Ricucci e Coppola, che sono emersi in cronaca prima del collega casertano e però oggi hanno il fiato corto. Coppola tenta di farsi perdonare le origini lussemburghesi e piuttosto oscure dei suoi investimenti portando le società in Italia. Ricucci si è visto presentare il conto dalle banche che lo hanno finanziato e che sono le vere vincitrici di questi anni di vacche magre.
Statuto, uno che sa stare al suo posto, continua invece ad andare d’amore e d’accordo con gli istituti di credito. Compra e vende a getto continuo, tanto che le immobiliari controllate dal gruppo Michele Amari sono diventate 19 nel bilancio consolidato dell’anno scorso. Come ha fatto? La sua versione è semplice.
Nel maggio 2003 Statuto ha costituito una joint-venture fra la sua Michele Amari e l’immobiliare della banca Lehman Brothers, rappresentata in Italia da Ruggero Magnoni. Questa società 50/50 è stata chiamata Resitalia scarl ed è domiciliata in Lussemburgo. Michele Amari avrebbe messo in Resitalia alcune immobiliari. In cambio, avrebbe ottenuto da Lehman Brother Real Estate Partners 105 milioni di euro. Con questi soldi, colto da illuminazione, Statuto si è messo a comprare azioni Bnl a più non posso. I valori sono cresciuti, lui ha continuato a comprare e, al momento di vendere nel mese di luglio, si è trovato straricco. L’acquirente Unipol ha consentito alla Michele Amari una plusvalenza valutata in circa 200 milioni di euro. Facile come scriverlo.
Non per sfiducia, ma le autobiografie dei nuovi immobiliaristi possono contenere aspetti romanzati alla Paperon de’ Paperoni. Per citare di nuovo Ricucci, il neosposo di Anna Falchi riuscì a fare scrivere che il primo miliardo lo aveva fatto con il trading di sportelli bancari, un’attività economica sulla cui natura gli esperti tuttora si interrogano.
Nel caso di Resitalia, i documenti parlano di quattro società conferite nel maggio 2003: Lodi, Agrippa, Magolfa e Navigli. Secondo quanto si legge nel bilancio 2003 della Michele Amari, si tratta di «quattro società che detengono ogn’una (sic) quattro distinte iniziative immobiliari nel Comune di Milano con valori di vendita totali stimati in euro 153 milioni». Si direbbe, quindi, che la metà di Resitalia valga al massimo 76,5 milioni, a non volere fare un soldo di profitto e comprando al prezzo di dettaglio. Invece, arrivano oltre 100 milioni.
Difficile pensare che il partner abbia largheggiato, soprattutto se il partner è uno come Magnoni, banchiere di lunghissimo corso, ottimo amico di Carlo De Benedetti, consigliere di Roberto Colaninno nella scalata alla Telecom e fratello di quel Piersandro che aveva sposato la figlia di Michele Sindona. Fatto sta che l’accordo con Lehman è una svolta. Nel giro di pochi mesi del 2003, l’oscuro immobiliarista aversano si avvia a diventare un protagonista. Un po’ di cronologia dei documenti della Michele Amari può aiutare a ricostruire questa fase cruciale.
Come per i giocatori di serie A, esiste una data certa di esordio. Il debutto in pubblico avviene il 5 novembre 2003 sul Sole 24 ore. Prima, Giuseppe Statuto o le aziende della sua famiglia non erano mai apparsi una sola volta sulla stampa nazionale. La cronaca si occupa del giovane imprenditore come del raider che ha già comprato un pacchetto di Bnl vicino all’1,6 per cento per un controvalore di 60 milioni. Sotto il 2 per cento, per i regolamenti Consob, non ci sarebbe l’obbligo di dichiarare l’investimento. Ma Statuto, sua sponte, rivela di avere incominciato a rastrellare sette mesi prima, ossia ai primi di aprile del 2003, ossia un mese prima di avere chiuso l’accordo con Lehman Brothers Real Estate Partners, dunque quando, in teoria, i soldi non li aveva.
Come gli sia venuto in mente di giocarsi tanti euro in Bnl (per lui, tantissimi) non lo dice. Avrà avuto i suoi motivi. Ma ci sono altre iniziative importanti che Statuto prende nel corso del 2003 e di cui non parlano né lui né la stampa. Il teatro dell’azione è fra Roma e il Lussemburgo dove il piccolo gruppo immobiliare viene riorganizzato in grande stile attraverso uno schema piuttosto complicato di ingegneria societaria.

Calendario del successo. Il giorno chiave è il 13 maggio 2003. Nel giro di poche ore vengono costituite quattro finanziarie attraverso due rami che confluiscono. Da una parte, la Michele Amari dà vita a Resitalia Equity che fonda Resitalia Management e l’accomandita Resitalia Holding. Il secondo tronco è quello di Vesta Italia Equity, fondata lo stesso giorno da una Vesta Italia allocata nel paradiso societario delle Bermude e rappresentata da Mark Newman ed Edward Williams, due uomini di Lehman Brothers International, Londra. Vesta Italia diventa proprietaria del 50 per cento di Resitalia Holding attraverso due aumenti di capitale fissati il 22 maggio e il 20 novembre 2003 (198 mila euro con facoltà di arrivare a 200 milioni). Vesta compra azioni privilegiate, che non votano in assemblea. Sembra il classico investimento finanziario che lascia la gestione all’altro socio. L’altro socio dovrebbe essere Michele Amari che, però, ha retto i fili di questa architettura per appena nove giorni. Al suo posto, è subentrata un’altra lussemburghese nuova di zecca.
Si chiama Statuto Lux Holding ed è nata il 22 di maggio 2003. Il socio unico di questa finanziaria si chiama Sidney Nominees Limited e ha sede a Tortola, Isole Vergini Britanniche. La Sidney è, quindi, una fiduciaria con sede in un paradiso offshore noto per la sua impenetrabilità. Oltre alle varie Resitalia, Statuto Lux diventa proprietaria di circa il 48 per cento della Michele Amari che, fino a quel momento, era stata posseduta direttamente da Giuseppe Statuto. Il 25 luglio 2003, l’immobiliarista cede il pacchetto alla finanziaria lussemburghese al prezzo non certo esorbitante di 14 milioni di euro da pagarsi entro il 31 dicembre dello stesso anno.
Nell’arco di un anno Statuto Lux Holding, la controllata di Sidney Nominees, rileva il 100 per cento delle azioni Michele Amari. A tutt’oggi, insomma, il gruppo da 1.000 miliardi è controllato da una fiduciaria di Tortola. Cioè da uno, nessuno e centomila. Chiunque siano, i fiducianti di Sidney hanno fatto un investimento spettacolare.
La Michele Amari è arrivata a comprare fino al 4,93 per cento di azioni della Banca nazionale del lavoro. Questo pacchetto è stato prima schierato nelle file dei cosiddetti contropattisti (oltre a Statuto, Caltagirone, Ricucci, Coppola, il socio di Emilio Gnutti Tiberio Lonati, l’eurodeputato Udc Vito Bonsignore, socio di Caltagirone nel terzo polo autostradale, e il principe don Giulio Grazioli) e poi venduto il 18 luglio 2005 a un prezzo di 2,7 euro per azione. Il guadagno netto di Michele Amari supera il 100 per cento nell’arco di circa due anni.
Ma non di sola finanza vive l’uomo. Statuto si dice infastidito dalla polemica su rendita e produzione, il nuovo manicheismo economico per cui i buoni fanno, i cattivi oziano e campano sugli interessi. L’imprenditore aversano fa. Non solo compravende case ma costruisce anche. E c’è una terza attività che sta in mezzo, lucrosissima: la ristrutturazione. Per dare qualche esempio, nell’ultimo anno le società del gruppo Michele Amari hanno costruito-ristrutturato a Roma un complesso in via Spalla per un valore di 20,7 milioni, un ex convento del diciottesimo secolo alla Camilluccia per 13 milioni e il villino Whitaker ai Parioli per 8,5 milioni.

Alchimie immobiliari. È andata ancora meglio a Milano con un palazzo di nove piani in via Brera per 34,5 milioni e altri 7.500 metri quadri in via Bagutta, nel quadrilatero della moda, per un valore di 36,4 milioni. Inoltre, sono partiti i lavori all’area di via Magolfa (quartiere Navigli) per 13 milioni e in via Segantini, sempre Navigli, per quasi 21 milioni.
I soldi veri si fanno nella fase successiva, quando l’immobile, che sia nuovo o ristrutturato, viene messo in vendita. Ancora qualche esempio dall’anno scorso. Milano: 45,5 milioni incassati da un immobile in Foro Buonaparte, 41 milioni in via Verri, 45 in via Manzoni, quasi 36 nella periferica via Scarsellini. Roma: 33,4 milioni via Naide, 21 milioni in via Piemonte e 38,5 milioni di euro per piazza San Bernardo, dove la Michele Amari ha la sua sede legale e i suoi uffici, venduti e riaffittati con una magia immobiliare che si chiama lease-back. Non è l’unico gioco di prestigio per rivalutare costantemente il patrimonio.
Il meccanismo funziona in modo abbastanza semplice. L’immobiliarista compra. Si fa finanziare la ricostruzione da una banca e rivende agli inquilini oppure a una società di leasing a prezzo molto maggiore. È successo quest’anno a Milano, quando Statuto ha rilevato l’hotel Duomo dalla famiglia bolognese Marabini e lo ha girato a Banca Italease. A ogni passaggio di mano, il prezzo sale. Funziona un po’ come nel calcio di qualche anno fa. Si decideva che Hernán Crespo valeva 100 miliardi di vecchie lire e così si scriveva sulle carte di bilancio. L’immobiliarista è contento, la banca è stracontenta. L’inquilino, giocoforza, un po’ meno.
Per le 312 famiglie di via Tintoretto 88, nel quartiere romano del Laurentino, l’arrivo di Statuto non è stata una grande notizia. Comprato per 61,2 milioni di euro, il complesso da 40 mila metri quadri è stato offerto in vendita per 92 milioni nel giro di qualche settimana. Anche confrontata ad altri casi d’archivio della bolla immobiliare, la plusvalenza si presenta eccezionale. Vediamo come è stata costruita.
La vicenda del complesso di via Tintoretto incomincia nel novembre 2003, cioè nei giorni in cui Statuto appare per la prima volta sui giornali. A Milano i commercialisti Angeloguido Mainardi e Giuseppe Berghella (oggi indagato come mediatore delle tangenti pagate da una società del gruppo Gavio a dirigenti dell’Agenzia delle Entrate) costituiscono una piccola srl, la Vis , attraverso due fiduciarie (Mythos e Fortune). Sei mesi dopo, il 20 aprile 2004, il proprietario, che allora è il gruppo Generali, delibera la cessione dei 312 appartamenti di via Tintoretto e firma un preliminare di accordo con la Vis.
Passan o altri sei mesi e il 21 ottobre 2004 la Michele Amari , holding di Statuto, firma a sua volta un preliminare di acquisto della Vis stimando 5,8 milioni le quote della srl e accollandosi 5,7 milioni di crediti vantati dai soci fondatori Mythos e Fortune. In tutto, sono 11,5 milioni promessi alla chiusura dell’affare. In quel momento, il patrimonio di Vis è costituito da un terreno di poco prezzo a Lerici e da negozi in una via periferica di Milano (zona viale Monza). Ma l’asset patrimoniale più pregiato è un pezzo di carta: appunto, il preliminare di acquisto di via Tintoretto. Il 15 novembre 2004 Derilca, controllata al 100 per cento da Michele Amari, subentra alla capogruppo come aspirante azionista di controllo della Vis e, un mese dopo, il 16 dicembre, Generali Properties firma la vendita dell’immobile libero da vincoli o ipoteche per un prezzo di 61,2 milioni. Lo stesso giorno è formalizzato il passaggio di Vis al gruppo Statuto che ottiene un finanziamento di 57,2 milioni dalla Banca popolare di Milano. Appena due settimane dopo, il 30 dicembre 2004, la compravendita viene registrata all’Agenzia del territorio di Roma. La perizia allegata attribuisce al portafoglio immobiliare Vis un valore di 95 milioni.
La plusvalenza è nell’ordine del 50 per cento in poche settimane e Statuto tenta di incassarla. Così apre una trattativa con le organizzazioni sindacali (Sicet-Cisl e Sunia-Cgil) chiamate a rappresentare gli inquilini dello stabile. Per fare cassa in tempi brevi, la Vis-Derilca di Statuto si accorda per cedere in blocco i 312 appartamenti a Conit Casa, un consorzio della Confcooperative, per 92 milioni di euro.

Alleanze d’oro. Ma gli inquilini, fra i quali c’è la parlamentare Ds Marcella Lucidi, respingono l’offerta, contestano la mediazione sindacale in quanto troppo morbida con la controparte e scatenano una guerra di interpellanze parlamentari ed esposti al sindaco Walter Veltroni. La trattativa con Conit salta e a fine giugno del 2005 Vis annuncia decaduta l’offerta da 92 milioni. «Quel prezzo di vendita», si legge in un documento della società di Statuto datato 13 luglio, «non è più applicabile perché fissato solo in funzione della straordinarietà degli eventi, vendita in blocco e tempi di attuazione». In via Tintoretto, per ora, il colpo non è riuscito. E se l’immobiliarista non fa cassa, anche le banche restano insabbiate. Per adesso, niente di allarmante. L’indebitamento finanziario netto della Michele Amari nel 2004 era di 721 milioni di euro. Di contro, Statuto dichiara di possedere oltre 600 milioni di euro di immobili e forse di più, dato che la bolla immobiliare non dà segno di sgonfiarsi. In più, ci sono pur sempre i circa 200 milioni e rotti di guadagno sul pacchetto Bnl.
Fra i sostenitori di Statuto, c’è la Banca intermobiliare (Bim) che ha appoggiato direttamente il rastrellamento dei titoli Bnl. La Bim , che ha finanziato anche Ricucci, è una piccola Mediobanca torinese che vanta fra i suoi soci e clienti un gruppo assortito in modo bizzarro. Nel circuito Bim figurano il contropattista Danilo Coppola, Luca Cordero di Montezemolo, amicissimo del pattista Diego Della Valle, il finanziere e ciellino di ferro Angelo Abbondio, il meglio della finanza ebraica torinese ( la Bim è presieduta da Franca Bruna Segre, socia della Carlo De Benedetti e figli, cassaforte dell’Ingegnere), l’opusdeista Giuseppe Garofano (ex Montedison), Salvatore Ligresti, l’immobiliarista di Risanamento Luigi Zunino e Massimo Caputi, l’uomo che rappresenta Francesco Gaetano Caltagirone nel comitato esecutivo del Monte dei Paschi di Siena, la cosiddetta banca rossa di cui Caltagirone è azionista storico.
Il piano delle alleanze non si ferma qui. Ad aprile del 2006 in Rozzano, paese turbolento dell’hinterland milanese, sarà inaugurata una colossale multisala realizzata da Michele Amari insieme all’altra immobiliare Aedes (già di De Benedetti, oggi della famiglia di acciaieri Amenduni con una quota Fininvest) e a Cinema 5 (Fininvest). Poi ci sono gli affari fra Statuto e la Netcorp. Anche questa è una realtà imprenditoriale recente, animata da giovani. I cognomi, però, sono di peso. Netcorp appartiene a Luigi Carraro, 28 anni, figlio di Franco, il presidente di Federcalcio e banchiere di Mcc (gruppo Capitalia), e a Benedetta Geronzi, 34 anni, figlia di Cesare Geronzi, numero uno della stessa Capitalia. Fra Michele Amari e Netcorp ci sono in ballo tre joint-venture, tutte a Roma: una in via Calamatta (quartiere Prati), una in via del Corso e una in piazza Pitagora ai Parioli. Uffici e abitazioni per un totale di 6.238 metri quadrati e un valore di diverse decine di milioni di euro.
La partnership con Netcorp è forse quella più indicativa per il futuro di Statuto. Un futuro molto simile al recente passato, diviso fra la passione immobiliare e i noiosi, pazienti, lucrosi movimenti sulla scacchiera delle banche. Appioppare etichette politiche (rossi/bianchi, destra/sinistra) in questo campo dove tutto si muove in diagonale, con il passo dell’alfiere, è insensato. Contano gli oligarchi della finanza e le loro amicizie mutevoli. Magnoni è amico di Matteo Arpe dai tempi in cui l’amministratore delegato di Capitalia era in Mediobanca. Arpe è, per ora, allineato al suo presidente Geronzi che ha pochi mesi di tempo per risolvere un problema colossale: l’uscita dall’azionariato di Capitalia già annunciata dagli olandesi di Abn-Amro per l’ottobre 2006. È azzardato riproporre, via Caltagirone, azionista di Mps, e via Marchini, azionista di Capitalia, il blocco fra Roma e Montepaschi già tentato in passato?
La risposta non è legata a varianti elettorali. Tutt’al più, dipende dal successo del resistente Antonio Fazio nel bunker di Bankitalia e da qualche problemino giudiziario (crac Cirio, Parmalat, Italcase) incombente su Cesare Geronzi. Una cosa, però, è certa. In qualunque modo prosegua la partita, Giuseppe Statuto sarà lì, disciplinatamente. Alla fine, quello che gli assomiglia di più è proprio il genero di Caltagirone, Casini. Magari entrambi hanno chiesto consiglio sulle rispettive carriere. E Caltagirone a dire: «Bboni, state bboni». Soprattutto, niente colpi di testa.

 

I furbetti del Botteghino

Lunedì 10 Ottobre 2005 01:00 Gianni Barbacetto
Stampa PDF

Micromega, 5/2005, ottobre 2005

I furbetti del Botteghino


di Gianni Barbacetto

 

Strana estate, quella del 2005. Estate di patti occulti, scalate sotterranee, finanza d’avventura, personaggi spregiudicati, arbitri venduti, matrimoni da vip, feste al Billionaire, intercettazioni telefoniche, declassamenti dell’Italia, commistioni tra affari e politica, ritorno della “questione morale”, polemiche vere e polemiche false. Le contese per conquistare un paio di banche italiane, l’Antonveneta di Padova e la Banca nazionale del lavoro di Roma, e l’assalto al principale giornale italiano, il Corriere della sera, sono diventati il grande giallo dell’estate. Tracimati fuori dalla finanza, sono diventati da una parte questione politica, dall’altra materia di gossip.

All’inizio potevano sembrare tre diverse storie, tre distinte scalate. Si sono invece presto dimostrate un’unica vicenda: un grande assalto al potere, in un momento per l’Italia di declino economico e di confusione politica; un tentativo di ridisegnare il volto del (debole) capitalismo italiano. Con istituzioni e partiti che, in maniera occulta, facevano il tifo per i contendenti e intervenivano nelle contese. Tangentopoli, al confronto, è archeologia. E non ci sono soltanto le tre scalate ufficialmente dichiarate. Sotto pressione, in Borsa, sono stati anche i titoli Mediobanca, Fiat, Generali...

Ora, con l’autunno, sono cadute alcune delle foglie che coprivano protagonisti, comprimari, tifosi. Ed è apparso il disegno, fallito ma non del tutto, dell’avventura d’estate. I protagonisti di prima fila sono un poker d’assi: il banchiere della Popolare di Lodi Gianpiero Fiorani, il finanziere bresciano Emilio Gnutti, l’immobiliarista romano Stefano Ricucci, il manager di Unipol Giovanni Consorte. Sono loro il commando d’assalto che si è lanciato, fuori da ogni regola, nelle operazioni.

Alle loro spalle: il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, l’istituzione che rinuncia finanche al decoro, l’arbitro della partita che si trasforma in commissario tecnico di una delle squadre in campo; poi una folla di “amici”, sostenitori e complici; e infine tutta una schiera di politici, parlamentari, uomini di partito, di destra e di sinistra, che si muovono sotterraneamente, contando sul fatto che delle loro mosse e delle loro parole nulla trapelerà. Invece: la professionalità della Guardia di finanza, l’intelligenza di alcuni magistrati e soprattutto le norme europee (quelle sul market abuse), da poco diventate legge italiana, fanno venire alla luce almeno parte della trama.

Dei quattro campioni della compagnia scalante, ognuno ha un suo piano da realizzare, un suo disegno di potere. Progetti diversi, anche con margini di competizione tra di loro: c’è chi sogna la Grande Banca Padana, chi persegue l’ingresso nei Salotti Buoni dopo tanto purgatorio, chi vuole la Banca Rossa e chi, semplicemente, tanti, tanti soldi... Ma ciascuno entra nella partita convinto che potrà approfittare degli altri e portare a casa il suo risultato. Antonveneta, Bnl, Rcs, poi – chissà – Fiat, Capitalia...

Il governatore Fazio è il grande protettore istituzionale, senza di lui nulla sarebbe potuto accadere. Silvio Berlusconi, invece, è il grande beneficiario, colui che, a lungo respinto dai “salotti buoni” della finanza italiana, ha tutto da guadagnare dalla destabilizzazione degli attuali equilibri: per “normalizzare” il Corriere e poi magari puntare a due prede che gli stanno particolarmente a cuore: Telecom e Generali. Sarebbero davvero un bel premio di consolazione, in caso di sconfitta elettorale.

Ma c’è anche la sinistra, in questa grande storia italiana di soldi, banche, giornali e potere. Perché se la variopinta compagnia degli scalatori cerca sponde a destra e conta sull’aiuto di Berlusconi per conquistare Antonveneta e Corriere, ha a sinistra una sua solida sponda per portare Bnl a Unipol. Questa sotterranea complicità produce effetti. Il primo, già devastante: l’impossibilità per la sinistra, che ha interessi nella partita, di osservare serenamente ciò che sta succedendo, di capire davvero, di giudicare criticamente gli assalti.

Le parole/1. D’Alema sdogana Ricucci


Questa storia d’estate ha una lunga gestazione. Ma s’impone all’attenzione dell’opinione pubblica quando appare chiaro che un sconosciuto immobiliarista romano noto fino ad allora per essere il fidanzato di Anna Falchi, Stefano Ricucci, che nel 1995 (a 32 anni, mica a 18) dichiarava redditi per 5 milioni di lire, nella primavera 2005 è miliardario e scala il Corriere della sera. Inevitabili le domande: Ma chi è ’sto Ricucci? Chi c’è dietro? Dove prende i soldi?

Ci sono i finanziamenti dell’amico Fiorani, certo. Le alchimie immobiliari della razza mattona. I “capitali scudati” rientrati in Italia grazie al governo Berlusconi... Ma qualcuno, alle soglie dell’estate, suggerisce che c’è anche una “pista rossa” da seguire, per tentare di rispondere a quelle domande. Il settimanale Diario la spara in copertina già agli inizi di giugno: «Compagno Ricucci». È un modo giornalistico per sottolineare, in un contesto ancora in gran parte opaco e oscuro, le strane alleanze e le cattive compagnie degli scalatori.

Gran finanziatore di Ricucci è la Deutsche Bank, guidata in Italia da quel Vincenzo De Bustis passato alla storia, o almeno alla cronaca, come il banchiere vicino a Massimo D’Alema fin dai tempi della Banca del Salento. E poi chi è il grande alleato del gruppo Ricucci-Fiorani-Gnutti in tutte le partite più rischiose che ha in corso? È Giovanni Consorte, il finanziere creativo di Unipol, l’uomo che ha trasformato il vecchio mondo delle cooperative rosse in una macchina da guerra da scatenare nelle operazioni finanziarie più spregiudicate: dalla madre di tutte le opa, lanciata da Gnutti su Telecom, fino agli odierni arrembaggi a Bnl e Antonveneta. Consorte ha stretto un patto di ferro con Fiorani e Gnutti, con cui fa cordata nelle operazioni benedette dal governatore Fazio.
La “pista rossa”, dunque, porta ad ambienti vicini a D’Alema. Chi lo conosce è pronto a giurare che al presidente Ds piace l’attacco al cuore dello stato di cose presente sferrato dai nuovi capitani coraggiosi. Dopo la «rude razza padana» è la volta della «rude razza romana»?

In tutta sincerità, alle soglie dell’estate 2005, questi sono solo indizi. Ma giornalismo, quando l’opacità trionfa, è cercare di porre domande, seguire piste, allineare indizi. A questo punto però già succede una cosa inaspettata: quella parte della sinistra chiamata giornalisticamente in causa sul «Compagno Ricucci», invece di cavarsela con una secca smentita e un bell’elogio della trasparenza, s’incammina su un percorso tortuoso.

«Non conosco nessuno di quei personaggi che si citano. Io questo Ricucci non so neanche chi sia», dichiara D’Alema il 10 giugno 2005 all’Unità. Ma poi aggiunge: «Certe campagne si concludono perché, immagino, si vogliono tutelare degli interessi specifici, di persone che ritengono che i loro interessi personali sono una nobile battaglia in difesa degli interessi del mercato, mentre gli interessi degli altri sono un ignobile complotto dietro cui si cela un qualche Belzebù». Dunque gli assalti finanziari in atto sono, per D’Alema, un corretto scontro di mercato a cui assistere con distacco, tanto una parte vale l’altra, e vinca il migliore.

Così D’Alema sdogana Ricucci, che non è un Belzebù. E il capitalismo non è questione di pedigree. Torna sulla questione il 2 luglio con una battuta sulla (risaputa) debolezza del capitalismo italiano: «Se degli oscuri immobiliaristi, dietro ai quali si è finalmente appurato che non ci sono io, spaventano i salotti buoni del capitalismo italiano, evidentemente c’è una fragilità di quegli assetti proprietari che non ha uguali al mondo». Gli risponde indirettamente Vittorio Merloni, sostenendo che nel capitalismo non conterà il pedigree, ma la trasparenza sì: «Ricucci è un mistero. Quanto meno, si può dire che il suo percorso non è tracciabile».

Claudio Velardi, che fu il braccio destro di D’Alema a Palazzo Chigi (anche se oggi, civettando un po’, si definisce un «disilluso del dalemismo»), parla ancora più chiaro. L’11 giugno sul Corriere della sera ammette che sì, D’Alema quando era presidente del Consiglio avrebbe fatto meglio a stare zitto, a non dire in pubblico ciò che pensava dei protagonisti dell’opa su Telecom («Avrebbe dovuto risparmiarsi quella frase sui capitani coraggiosi»). Ma poi gli scappa che cosa pensa, oggi, dei nuovi capitani coraggiosi, della rude razza romana degli immobiliaristi d’assalto: «Effettivamente Caltagirone è un grande imprenditore. Ma Ricucci cos’ha, la rogna?».

Il giornale di cui Velardi è editore, il Riformista, è più esplicito e afferma (nell’editoriale del 7 giugno) che «gli outsider, i lanzichenecchi, gli immobiliaristi, i redditieri» non sono un problema per il capitalismo italiano. Anzi, ce ne vorrebbero di più. «Il problema italiano è proprio quello di una certa carestia di outsider; sì, proprio di gente che viene dal nulla e si fa da sola, e mentre si fa da sola produce sviluppo, pil e benessere». Come Michele Sindona? Come Roberto Calvi? Come Giancarlo Parretti e tanti altri outsider della finanza italiana (i fratelli Canavesio, Florio Fiorini, Orazio Bagnasco, Paolo Federici, Vincenzo Cultrera, Luciano Sgarlata, Gianmario Borsano, Giorgio Mendella, Virgilio De Giovanni e, per non parlare di Sergio Cragnotti e Calisto Tanzi, tanti altri il cui elenco completo riempirebbe pagine e pagine)?

C’è sempre qualcuno che resta affascinato dall’assalto dei “nuovi”, spregiudicati ma pieni d’energie, contro i “vecchi”, spompati e senza una lira. Evviva, dunque, Ricucci, Coppola, Statuto, Fiorani, Gnutti...?

Pierluigi Bersani – ministro di D’Alema all’epoca della scalata Telecom da parte della «rude razza padana» riunita attorno al finanziere bresciano Chicco Gnutti – dichiara che è un «ragionamento preistorico» affermare di vedere lo zampino della «finanza rossa» dietro le operazioni in corso, solo perché «fra i player c’è una cooperativa»: perché è una cooperativa che «agisce sul mercato nel modo che ritiene più appropriato, senza chiedere il permesso a nessuno».

I «player rossi», dunque, si muovono liberamente sul mercato. Chi li critica, invece, è parte di un complotto: «E che dubbio c’è? Non siamo mica nati ieri», dichiara D’Alema. «Conosciamo i salotti e le persone che contribuiscono a tutto questo». Il presidente Ds non fa nomi. I salotti evocati sono quelli di Giuliano Amato e Franco Bassanini, che remano contro le scalate? O ce l’ha con l’asse Montezemolo-Della Valle-Rutelli, spalleggiato da Corriere della sera e Sole 24 ore?

Fatto sta che mentre l’Italia intera s’interroga preoccupata e cerca di capire da dove venga questo Ricucci e la sua rude razza romana, chi lo sdogana è – chi l’avrebbe mai detto – la sinistra dalemiana
.
Le parole/2. Fassino sdogana Ricucci


Il segretario dei Ds Piero Fassino interviene nel dibattito il 23 giugno e, a sorpresa, scavalca lo stesso D’Alema nella difesa di Stefano Ricucci e compagnia scalante: «Incomprensibile la puzza sotto il naso» che circonda i palazzinari, dichiara a Sky Tg24. Lo stesso giorno diventa pubblica la notizia che Ricucci e la sua holding Magiste, come anche Chicco Gnutti e la sua Fingruppo, sono indagati dalla procura di Milano per aggiotaggio.

Il 7 luglio, con un’intervista al Sole 24 ore, Fassino rincara la dose: «Non c’è un’attività imprenditoriale che sia pregiudizialmente migliore o peggiore di un’altra. È tanto nobile costruire automobili o essere concessionario di telefonia, quanto operare nel settore finanziario o immobiliare».

Tenta di rispondergli Andrea Pininfarina, vicepresidente della Confindustria: «Non mi pare il caso di mettere sullo stesso piano, dal punto di vista dello sviluppo di tutto il Paese, chi fa impresa e chi di mestiere fa il raider finanziario».

Ma mentre Ricucci va sotto indagine penale e la sua trasparenza è vicina allo zero, Fassino sembra non vedere il problema: «Spetta a Consob, Antitrust, Autorità delle comunicazioni, Vigilanza della Banca d’Italia garantire le regole, non a me», dichiara al Sole il segretario Ds, che concede la sua benedizione invece alla scalata di Unipol su Bnl: «Se le cooperative crescono, a me fa piacere».

Replica bruciante, sempre sul Sole, di Marco Follini, segretario dell’Udc: «Credo che ci sia un certo eccesso di zelo in una cultura politica che ha scoperto il mercato in tarda età e ha finito qualche volta per farsi affascinare dai suoi aspetti più ambigui e tortuosi. E non mi convince una sinistra finanziaria che benedice, come ha fatto Fassino, l’eventuale opa di Unipol su Bnl ponendo le sue mani sul mercato al modo di quei re taumaturghi che nel Medioevo guarivano gli scrofolosi».

Il 21 luglio diventa noto che la procura di Roma sta indagando anche sulla scalata di Ricucci su Rcs. Lo stesso giorno, torna in campo D’Alema, che dichiara ad Alberto Statera di Repubblica: «Gnutti non lo conosco, come non conosco quello che è stato definito il “compagno” Ricucci. Compagno di chi? Falsità montate ad arte per depistare, per difendere altri interessi. In questo Paese è fortissimo l’intreccio tra interessi in campo e proprietà dei giornali. E il giornalismo economico è inquinato». I nomi, gli chiede Statera? «Non ne faccio». Subito dopo D’Alema dedica però un accenno benevolo agli immobiliaristi: «Gli speculatori fanno plusvalenze. Se rispettano le leggi dello Stato, perché criminalizzarli?».

Nessuno naturalmente li vuole criminalizzare per le plusvalenze. Semmai qualcosa da dire c’è sui metodi con cui le realizzano, visto le indagini e le condanne per insider trading. E nessuno ha mai detto o scritto che D’Alema sia il «socio» di Ricucci: la critica era semmai rivolta al sistema delle alleanze e alle “cattive compagnie”. Ma il presidente dei Ds preferisce drammatizzare, per poi sostenere che la “finanza rossa” non esiste: «Lo dimostra il fatto che su Bnl il Monte dei Paschi di Siena ha fatto come voleva». Vero: Montepaschi ha rifiutato di seguire Consorte nella scalata a Bnl, ma lo ha fatto rompendo con i vertici Ds e dopo insistenti pressioni di Roma e ripetute telefonate di Fassino.

D’Alema si spinge fino a difendere Gnutti, variamente indagato per reati finanziari e già condannato per insider trading. L’8 agosto dichiara infatti a Orazio Carabini del Sole 24 ore: «E che cos’ha che non va Gnutti? È socio anche di Olimpia (la finanziaria che controlla Telecom Italia, ndr) e nessuno ha mai detto niente. In queste critiche c’è un evidente elemento di ipocrisia». E poi: «Non si può fare di ogni erba un fascio. Da una parte un capitalismo buono, produttivo. Dall’altra quello degli speculatori legati al mondo politico. È una rappresentazione deviante, falsa... La verità è che il sistema è fragile. Raffigurarlo come sano, produttivo, aggredito dall’esterno da speculatori manovrati dal mondo politico è lontano dalla realtà. E si può fare solo perché gran parte dei giornali fanno capo agli stessi gruppi. Purtroppo il dibattito è inquinato perché i giornali possono scrivere male dei politici, ma non dei loro proprietari».

E Unipol? «Io nell’operazione Unipol non c’entro nulla», risponde D’Alema a Statera su Repubblica. «Quella è un’azienda, una grande azienda quotata in Borsa da anni. Se l’operazione che sta facendo sarà buona o cattiva lo giudicherà il mercato. A me sembra un’operazione del tutto limpida, fatta con tre grandi banche internazionali. Ma sa che le dico? Nei confronti dell’Unipol c’è una campagna razzista».

Comunque, conclude D’Alema, «se ci sono profili illeciti, intervengano le procure della Repubblica». Qualcosa di simile aveva detto anche Fassino: «Spetta a Consob, Antitrust, Autorità delle comunicazioni, Vigilanza della Banca d’Italia garantire le regole, non a me». Ma la politica non ha proprio nulla da dire, prima che arrivi la magistratura? Esistono comportamenti che non sono reati penali, ma possono essere politicamente inopportuni?

Le parole/3. Quanta cautela su Fazio


Lo scandalo scoppia quando le trame sotterranee vengono svelate dalle intercettazioni telefoniche: diventano visibili a tutti il disegno dei quattro scalatori, le connessioni tra loro, le alleanze reciproche, l’incredibile “concerto” con Fazio, i rapporti con la politica. Reazioni? Una parte della sinistra se la prende non con gli intercettati ma con le intercettazioni. E quanta cautela, agli inizi, su Fazio...

La situazione è più grave che dopo il più grave crac italiano, quello Parmalat, perché questa volta è compromessa la massima istituzione bancaria del Paese, Bankitalia. Eppure il vertice Ds fa a gara per tenere, per giorni e giorni, bassi i toni, per non insistere sulle dimissioni: non si può cacciare il governatore, sostiene una parte dei Ds, perché sennò poi, eliminata l’anatra zoppa, dovremo tenerci per chissà quanto un nuovo e più forte governatore messo lì da Berlusconi; e perché Fazio – ma questo lo sussurrano solo i critici interni – serve anche a quella parte della sinistra che è impegnata nella scalata di Unipol su Bnl.

Prudenti. Cauti. Cautissimi. Dichiarazioni a scandalo caldo, il 27 luglio. Il segretario Ds Piero Fassino: «Dobbiamo stare attenti a non indebolire l’istituzione Bankitalia». Pierluigi Bersani, europarlamentare Ds ed ex ministro di D’Alema ai tempi dei “capitani coraggiosi”: «Non possiamo aprire adesso il tormentone estivo “Fazio sì, Fazio no”, in questo modo si va allo sfascio». Un altro ex ministro del governo D’Alema, Vincenzo Visco, il 3 agosto: «Dimissioni? È una decisione che deve valutare a livello personale... No, non c’è stata una richiesta di dimissioni da parte dei Ds... Le riforme in corso comunque non toccherebbero l’attuale governatore, intervenire sarebbe contrario al trattato della Banca centrale europea. L’eventuale mandato a termine riguarderà il successore... Al momento, non vedo illeciti in senso stretto».

D’Alema in persona, l’8 agosto, sul Sole 24 ore dichiara che, a proposito delle dimissioni di Fazio, «la scelta è affidata alla sua sensibilità. Non tocca certo all’opposizione». Fino al 7 settembre, quando Bersani dichiara alle agenzie che per Fazio «andarsene in queste condizioni sarebbe come cedere alla canea» (anche se subito viene corretto e smentito da altri esponenti del suo partito: ormai a sinistra è finalmente prevalsa la linea del rigore; del resto di lì a poco lo stesso Berlusconi giungerà a “sfiduciare”, almeno formalmente, Fazio).

Le parole/4. Contro le intercettazioni


Anche le intercettazioni telefoniche e ambientali, permesse nelle inchieste sui reati finanziari dalla nuova disciplina europea introdotta in Italia con la Legge comunitaria del maggio 2005, sono guardate con sospetto e fastidio da una parte della sinistra. Eppure sono uno dei pochi metodi d’indagine efficaci per scoprire ciò che viene progettato e realizzato in segreto, ai danni del mercato e dei risparmi di milioni di cittadini.

Eppure, ecco come le giudica Visco il 27 luglio: Fazio ha avuto un «comportamento discutibile, ma non bisogna esagerare con le intercettazioni». E il 3 agosto: «Le intercettazioni, comunque, sono assolutamente disdicevoli...». D’Alema rincara la dose: «C’è qualcosa di violentemente impudico in quanto sta succedendo. Intrufolarsi nelle conversazioni private della signora Fazio è roba da tricoteuses, da voyeurs».

Fin qui, le parole. Ma ci sono anche i fatti. Ai tempi dell’opa Telecom, la madre di tutte le scalate, Guido Rossi criticò il ruolo in quella vicenda di D’Alema, che nel 1999 era presidente del Consiglio, sentenziando: «Palazzo Chigi è l’unica merchant bank dove non si parla inglese». Ma al confronto delle scalate dell’estate 2005, quella Telecom (che non è né una banca né un giornale) era un modello di correttezza.

I fatti/1. Soldi ai mattonari


Il 18 luglio Giovanni Consorte diventa ufficialmente il protagonista (player, direbbe Bersani) della scalata a Bnl. Acquista le quote rastrellate sotto traccia nei mesi precedenti dagli immobiliaristi. Così chi continuava a chiedersi chi c’è dietro a Ricucci, chi gli ha dato i soldi, ha finalmente una risposta: «La finanza rossa», dice sorridendo un banchiere, indicando i 408 milioni di euro che saranno versati a Ricucci da Unipol. I cosiddetti “contropattisti” incassano infatti dalla compagnia bolognese oltre 2 miliardi di euro e portano a casa delle belle plusvalenze: complessivamente 1,2 miliardi: Ricucci 210 milioni di euro, Francesco Gaetano Caltagirone 255, Danilo Coppola 230, Giuseppe Statuto 207, Vito Bonsignore 180, Ettore Lonati 105, Giulio Grazioli 42.

Così Ricucci, Statuto, Coppola, Bonsignore e compagnia scalatante avranno carburante per nuove avventure: l’assalto a Rcs? a Mediobanca? a Generali? Commenta a caldo un banchiere del Montepaschi: «I partner degli affari vanno scelti. Che senso ha dare più di 2 miliardi di euro a gente come quella? È carburante per nuovi incendi».

Continua qualche irriducibile critico: se ora Ricucci conquisterà il Corriere, magari per offrirlo a Berlusconi o a qualcuno dei suoi alleati, sarà chiaro da quale Bicamerale sotterranea della finanza sarà nata la spartizione delle spoglie degli ex salotti buoni del capitalismo italiano in declino... Ma questa, a fine luglio 2005, era solo un’ipotesi, fantascienza, delirio complottista. Nel giro di qualche settimana, quell’ipotesi si è trasformata in una possibilità concreta.

I fatti/2. Concerto rosso


Tra i protagonisti della composita compagnia di scalatori, schierati a geometria variabile su diversi fronti, esiste una solidarietà di fondo. I contatti tra Fiorani, Gnutti, Ricucci e Consorte sono fittissimi. Insieme decidono tutte le loro mosse. Si parlano e prendono decisioni solo dopo essersi consultati. Fra i quattro del poker d’assi sembra esserci una comunicazione costante e un continuo scambio d’informazioni.

Esiste, allora, una scalata “cattiva” (quella di Fiorani su Antonveneta) e una scalata “buona” (quella di Consorte su Bnl), come hanno ripetutamente affermato Fassino («La vicenda Bnl è molto diversa dalla scalata Antonveneta») e D’Alema («Non possiamo omologare le storie, in Antonveneta c’è la magistratura che indaga, staremo a vedere»)?

Certo, Fiorani è inarrivabile, nei pasticci che ha creato dentro i conti della sua banca, nei prestiti agli “amici”, nei fondi creati ai Caraibi, nell’aumento di capitale, nelle finte cessioni messe in scena per ricostruire il patrimonio... Ma che le due scalate siano radicalmente diverse è difficile da dimostrare. Non ne sono convinti gli investigatori: scrive infatti il giudice preliminare Clementina Forleo, nella sua ordinanza su Antonveneta, che «dalle intercettazioni emerge l’esistenza di accordi riservati in ordine a entrambe le scalate bancarie». Ma non ci credono neppure i diretti protagonisti, che nelle telefonate del 23 luglio, temendo le indagini in corso, discutono addirittura se anticipare i magistrati e dichiarare essi stessi l’allargamento del “concerto” anche a Unipol: discutono cioè se ammettere formalmente che l’alleanza sotterranea Fiorani-Gnutti-Ricucci (e compagnia scalante) è allargata anche a Consorte.

È la giornata più delicata per il manager “rosso”. Ecco com’è raccontata nel brogliaccio della guardia di finanza:

Ore 19.02, Fiorani per Gnutti. Fiorani gli dice che sta mettendo a punto un ricorso al Tar e parla di estendere il patto a Ricucci, ma allo stesso prezzo. «L’unica cosa che cambierebbe è che il patto parasociale è di quattro soci e non più di tre, dichiarando che prima non c’era e che questo patto è nuovo». A quel punto Fiorani propone di «estendere il patto anche a Unipol».

Ore 19.25. Gnutti dice a un certo Manuele che «ieri sera pareva che volessero concertare anche Unipol». Manuele commenta che «è tutta politica, è una partita che stanno giocando a colpi bassi».

Il “concerto” non sarà dichiarato dagli scalatori, né richiesto dai magistrati di Milano Eugenio Fusco e Giulia Perrotti, coordinati da Francesco Greco (che indagano su Antonveneta, non su Bnl, su cui lavora la procura di Roma). Ma che i rapporti tra i quattro siano costanti e intensi è fuor di discussione.

Nella settimana tra lunedì 18 e venerdì 22 aprile (la settimana in cui, secondo la Consob, si mostra l’evidenza del “concerto” per Antonveneta), avvengono imponenti movimenti d’azioni Bnl. Passa di mano il 10 per cento della banca romana, per un valore di 700 milioni di euro. Ricucci, Coppola, Statuto portano pacchi di titoli Bnl alle banche (soprattutto alla Popolare di Lodi, ma anche a Meliorbanca, al Sanpaolo, al Banco di Sardegna controllato dalla Popolare dell’Emilia). In cambio ottengono nuove aperture di credito, che usano per rastrellare azioni Antonveneta. Mario Gerevini, sul Corriere della sera del 19 maggio, scrive che è in atto una «partita doppia» tra cordata Bnl e cordata Antonveneta. Un doppio “concerto”, con connessioni pianificate tra le due scalate, che coinvolge anche Consorte.

Un appunto della guardia di finanza, il 3 luglio riferisce che Caltagirone (chiamato nelle telefonate «l’ingegnere») secondo Fiorani vuole troppo. Il banchiere di Lodi dice, a questo proposito, che bisogna aiutare invece Consorte:

«Fiorani dice che l’ingegnere, rivendicando il fatto di controllare loro tre e anche Lonati, vuole la presidenza per almeno nove anni, e il diritto di veto: non vuole nessuno che gli giri intorno, vuole mettere i suoi uomini. Fiorani riferisce che sotto questo profilo fa fatica a dare torto a Gianni (Consorte)». Gnutti risponde che «se c’è bisogno di aiutare Gianni non c’è nessun problema». La conclusione di Fiorani è che prima bisogna chiudere la vicenda Antonveneta, «dopo di che salderanno Bnl».

Il 5 luglio Consorte parla con un certo Pierluigi (Bersani?) e a proposito dei rapporti con gli immobiliaristi del “contropatto” gli dice: «Si sta mettendo bene e quindi domani tornerò a Bologna perché bisogna convocare un po’ di cooperative» (povere cooperative, ridotte a massa di manovra per i progetti di Consorte). Pierluigi gli chiede se usciranno tutti da Bnl. Consorte risponde che sì, uscirà anche Caltagirone, perché tra loro, banche, Hopa e coop hanno il 52 per cento.

Il patto segreto tra gli scalatori delle due banche, Antonveneta e Bnl, prevede che tutti i “concertisti” abbiano la possibilità di guadagnare da entrambe le operazioni. Poi non esclude che, alla fine, alcuni degli alleati possano lanciarsi in altri affari: l’assalto a Rcs, grandi manovre su Capitalia, un’opa sulla Fiat... Giovanni Consorte ne parla il 6 luglio con il tesoriere Ds Ugo Sposetti. E a lui chiede di avere notizie per sapere se davvero nel progetto di opa sulla Fiat «c’è di mezzo anche Berlusconi». Il brogliaccio annota:

«Consorte dice che ha chiuso l’operazione con quelle persone (i sette che hanno il 27,5 per cento di Bnl) e spiega che domani sarà a Roma per definire le ultime cose e chiudere definitivamente». Poi riferisce a Sposetti dei contatti con i suoi interlocutori politici. «Dice che più tardi chiamerà Fassino per informarlo della vicenda. Spiega che Isvap e Bankitalia gli hanno dato l’autorizzazione. Dice che anche con Berlusconi non ci sono problemi, dato che uscendo l’ingegnere (verosimilmente Caltagirone) diventa un’operazione totalmente della sinistra (Unipol, Popolari e cooperative)». Poi si parla di una possibile nuova scalata. «Consorte chiede a Sposetti di fare una cosa per lui e cioè di verificare la notizia secondo la quale sembra che stiano preparando una opa sulla Fiat, e che nell’opa c’è di mezzo anche Berlusconi. Sposetti sostiene che la cosa è molto possibile». A questo punto «Consorte raccomanda di usare la massima discrezione perché il conflitto di interessi è enorme».

I contatti tra Consorte, Fiorani e Gnutti restano intensi. Si delinea l’esistenza di un «progettone» comune, si palesa la presenza di prestanome e s’intuisce la speranza di uno scambio tra i due fronti («Più piaceri ora fanno di qua e più Gnutti potrà chiedere di là»):

7 luglio, ore 19.29. Un certo Ettore (Lonati?) dice a Gnutti «che hanno finito e si ritroveranno lunedì a Roma a vedere di concludere. Ettore dice che Unipol deve riunire i suoi per vedere di fare accettare quello che hanno proposto. Aggiunge che non perderanno una cifra e che più piaceri ora fanno di qua e più Gnutti potrà chiedere di là».
10 luglio. Un certo Ugo dice che «Fazio ha dovuto prendere le distanze da Fiorani e dai vari Geronzi e ora si trova con persone per bene che siamo noi di Unipol. Se non ci fossimo stati noi, Fazio sarebbe stato perso».

12 luglio. Caltagirone chiama Consorte e gli chiede di «confermare i tre nomi romani». Consorte gli risponde che «il terzo nome non può dirlo perché è il prestanome di una banca».

13 luglio, ore 20.06. Consorte comunica a Gnutti che per Bnl «è tutto fatto». Gnutti gli risponde che anche loro per Antonveneta «hanno chiuso con i giapponesi, con tutti, col governatore» e aggiunge che «ora stanno chiudendo gli accordi insieme a Caltagirone e domenica faranno tutto».

15 luglio, ore 9.02. Cirla, dirigente di Interbanca (gruppo Antonveneta), chiede a Gnutti «se ci sono novità». Gnutti dice che prenderanno il 5 per cento di Bnl e lo faranno per Gianni (Consorte) perché «nel progettone finale giustificheranno industrialmente l’operazione».

Il 15 luglio alle 15.11 c’è una importante conference call sulla scalata di Unipol a Bnl. Una riunione telefonica a cui partecipano Fiorani, Gnutti, Ricucci e altri, in cui si accenna a un «documento segreto» che Gnutti farà girare e poi conserverà in copia unica. Così l’assemblea via cavo è ricostruita dalla guardia di finanza:

«Gnutti dice che gli amici di Unipol vogliono lanciare l’opa volontaria su Bnl... e che è stato chiesto anche a loro di entrare nel patto parasociale previo acquisto del 4,99 per cento del capitale sociale di Bnl. Dice che prevede una call a trenta giorni a loro favore nel caso in cui l’opa non raggiunga il 51 per cento». E poi spiega che «la firma della costituzione del patto parasociale li coobbliga con loro nel lancio dell’opa, e che tutto quello che verrà dall’opa se lo pagheranno loro». Poi Gnutti parla di un documento che dovrà rimanere segreto: «Gnutti dice che farà circolare un documento che ribadirà questo discorso e che manterrà solo lui come unico esemplare».

L’impegno su più fronti del gruppo continua. Il 17 luglio, alle 20.48, Stefano (Ricucci) chiama Gianni (Consorte) per chiedergli un posto nel consiglio d’amministrazione della futura Bnl:

«Consorte dice che ormai sono in dirittura d’arrivo. Stefano fa le sue richieste riguardo al suo posto in consiglio. Gianni risponde che il suo posto in consiglio sarà disponibile alla sola condizione che Bilbao non faccia blocco, perché in quel caso ci sarebbe spazio solo per otto consiglieri che dovrebbero essere tutti di Unipol. Stefano convalida, dicendo che in quel caso lui sarà disposto a dimettersi per lasciare il posto ai consiglieri Unipol».

Il 19 luglio, altre telefonate tra Consorte e Fiorani. Il primo si rivolge al banchiere di Lodi perfino per chiedere qualche buon nome per la presidenza della banca, dopo che sarà conquistata:

Consorte chiede a Fiorani di «pensare a due-tre possibili presidenti di prestigio, che loro possono avvicinare». Fiorani dice che Montani è venuto fuori da Leoni che avrà avuto l’imbeccata dal governatore. Fiorani fa il nome di Paolillo. Consorte dice che va bene. Poi gli dice che la settimana prossima mangeranno insieme «così mi dici tutti i tuoi pensieri».
Che la partita in corso sia una, pur divisa su più fronti, è confermato anche da Luigi Gargiulo, il ragioniere di fiducia di Ricucci. Il 19 luglio, Gargiulo conferma infatti che:

«Alla fine venderanno anche Antonveneta e poi punteranno tutto su Rcs e che gli serve anche il titolo Capitalia».

Il 22 luglio è Fiorani ad annunciare a Gnutti che «Bilbao ha rinunciato» a Bnl perché «Unipol ha fatto prima di loro». Fiorani parla di Gianni Consorte e dice di fare «un incontro la settimana prossima»:
«Gnutti dice che gli fanno dei problemi. Consorte risponde che gli spagnoli si sono ritirati. Consorte dice che Spinelli e gli altri hanno detto che gli danno tutti i soldi che vuole per fare Bnl».
Il “concerto” destra-sinistra appare dunque evidente. Dall’inizio alla fine della battaglia.

I fatti/3. Telefono rosso


A leggerli, i testi delle intercettazioni, si capisce subito il fastidio di alcuni politici, anche di sinistra: è il fastidio degli intercettati. Sono infatti rimaste registrate anche alcune loro telefonate. Non per scelta degli investigatori, che avevano legittimamente sotto controllo alcuni banchieri e finanzieri. Ma questi telefonavano anche a parlamentari e uomini politici; e poi tra di loro commentavano e riferivano quelle telefonate. Così, malgrado gli omissis di legge subito apposti dai magistrati, sappiamo che a parlare di affari con gli scalatori sono in molti, dal senatore Luigi Grillo di Forza Italia al deputato Udc Ivo Tarolli, dal presidente Ds Massimo D’Alema al segretario del partito Piero Fassino, dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga al sottosegretario alla Difesa Salvatore Cicu, dal senatore della Quercia ed ex segretario di D’Alema Nicola Latorre al senatore e tesoriere Ds Ugo Sposetti, dal senatore di Forza Italia Romano Comincioli, compagno di scuola e poi prestanome di Silvio Berlusconi, al presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo, fino a Gianni Letta, che del governo Berlusconi è l’eminenza grigia... Coinvolto direttamente nella vicenda anche il ministro Giulio Tremonti, a cui Consorte ha chiesto una consulenza attraverso il commercialista Claudio Zulli, socio di studio del ri-ministro dell’Economia.

Molte intercettazioni non le leggeremo mai: perché sono processualmente inutilizzabili, e anzi da distruggere, tutte quelle trascrizioni in cui a parlare sono i deputati o i senatori. Eppure, anche a fermarsi a quel che si può legittimamente conoscere, il quadro è desolante.

In questa storia di soldi, politica, informazione e potere, la notte tra l’11 e il 12 luglio 2005 è cruciale: è la notte in cui Fazio annuncia il suo sì a Fiorani, ricambiato con un bacio in fronte. Quella sera Gnutti è a cena con Berlusconi. Subito dopo l’annuncio, il quartetto delle scalate si scambia la notizia e festeggia.
Berlusconi viene subito messo al corrente della decisione del governatore e, almeno secondo quanto dice Fiorani, si mostra «commosso della cosa».

Che la regia delle tre scalate sia unica, quella notte appare evidente: Gnutti riferisce a Fiorani di aver detto a Berlusconi «che andremo avanti con Rcs e che ci deve dare una mano», altrimenti «la sinistra prende tutto»; e Fiorani gli risponde che però, «in questo momento», «la sinistra ci ha appoggiato più di quanto abbia fatto il governatore...».
Poi Gnutti riceve una chiamata da Ricucci. E infine chiama Ivano: con tutta probabilità si tratta di Ivano Sacchetti, il numero due di Unipol. Fiorani, Gnutti, Ricucci, Sacchetti (dunque Consorte): nel giorno del tripudio il poker d’assi festeggia al gran completo.

Consorte in persona chiama anche Fassino. E poche ore dopo contatta un certo Pierluigi (Bersani?). Gli annuncia che «per domani lo ha chiamato il governatore». Poi gli riferisce «che Letta ha chiamato Caltagirone e si è adirato perché voleva che lui ci fosse, perché l’operazione non sembrasse di sinistra». Consorte dice «che Gnutti ne ha parlato con Berlusconi». L’aria di Bicamerale degli affari è ormai chiarissima.
Ecco il dialogo del 12 luglio, ore 10.03, tra Ivano Sacchetti (il numero due di Unipol) e Chicco Gnutti:

Ivano: «Ho letto sui giornali che vai a un pranzo con Berlusconi».
Gnutti: «Ci sono già stato ieri sera».
Ivano: «Avresti dovuto parlargli di...».
Gnutti: «...L’ho fatto! ...quindi a Berlusconi ho detto che con buona probabilità andrò in appoggio anche di là perché mi pare corretto e giusto e Berlusconi ha detto che faccio bene... Io ho detto a Berlusconi che a noi interessa molto appoggiare Gianpiero perché dall’altra parte stiamo facendo quell’altra... Per cui, per una questione di equilibrio, si fa una per uno. Berlusconi mi ha detto che faccio bene».

Lo scambio è chiarissimo: «Per una questione d’equilibrio, si fa una per uno». Una a te, una a me; una a destra, una a sinistra. Antonveneta a Fiorani, Bnl a Consorte. Dunque destra e sinistra, in questa storia, non sono alternative, ma complementari. E Berlusconi, almeno secondo quanto riferisce Gnutti, è informato in diretta di quel che sta accadendo. E approva.

Anche Consorte, come Fiorani, parla direttamente con la Banca d’Italia (mentre per i suoi concorrenti, i baschi del Banco di Bilbao, i contatti sono chiusi). Il suo interlocutore è, oltre che il governatore, Francesco Frasca, il capo della Vigilanza. A lui riferisce, alle 18.21 del 12 luglio, le operazioni in corso. E gli chiede aiuto: «Gianni gli dice che ha bisogno di lui», riporta il brogliaccio. Alle 19.01 Frasca lo richiama: «Dice che il governatore voleva incontrarlo per capire bene tutta la struttura... Frasca gli farà sapere dell’incontro con il governatore...». I contatti proseguono nei giorni seguenti.

Il capo della Vigilanza tira poi un sospiro di sollievo – con Fiorani e tutta la compagnia scalante – quando il 20 luglio il Tar del Lazio dà ragione agli scalatori: «La procura di Roma prima andava su un’autostrada a sei corsie, ora ha davanti una strada di montagna». Ma Frasca, inverità, pare preoccupato delle indagini di Milano, non di quelle di Roma.

Il 21 luglio, alla vigilia della vittoria in Bnl, Consorte è già subissato da sms di congratulazioni. Ed entra in scena anche il ministro Giulio Tremonti. Consorte chiama Claudio Zulli, commercialista associato al suo studio. Tremonti, dice Zulli, è a conoscenza dell’operazione e «si è mosso e ha seguito questa vicenda con molta ammirazione», anzi, ha addirittura «fatto il tifo». Consorte gli è grato: «Tu sai che il governo ci ha dato una mano e sai come ragiono io, la riconoscenza va data al punto giusto». Dunque: il governo (Berlusconi) ha dato una mano alle scalate e a Unipol, dice Consorte. E ora arriverà la «riconoscenza». Qual è il «punto giusto»?

I fatti/4. La Bicamerale degli affari


Il movimento cooperativo è un grande fenomeno imprenditoriale, con 400 mila occupati, 7 milioni di soci, 45,7 miliardi di euro di giro d’affari. Non sono le cooperative ad essere oggetto di odio «razzista». E nemmeno Unipol, che è una grande compagnia assicurativa nata e cresciuta in quel mondo. Ciò che viene criticato è semmai l’attivismo di Giovanni Consorte, la sua spregiudicatezza, le sue alleanze. È impressionante vedere la ragnatela di intrecci azionari che lega tra loro i quattro protagonisti delle scalate d’estate, il poker d’assi Fiorani-Gnutti-Ricucci-Consorte.

Giovanni Consorte, cinquantasettenne ingegnere di Chieti, è entrato in Unipol quando questa era “l’assicurazione dei comunisti” e l’ha portata a veleggiare nel mare aperto del mercato. L’ha “laicizzata”, l’ha fatta crescere, l’ha collocata nel gruppo di vertice delle assicurazioni italiane. Stringendo alleanze prima impensabili.

Ha legami diretti (e incrociati) sia con Fiorani, sia con Gnutti. Con il banchiere di Lodi, Consorte è stato socio nell’assalto ad Antonveneta, di cui Unipol è giunta a controllare il 3,7 per cento. Poi, attraverso Aurora Assicurazioni, ha una partecipazione del 5,7 per cento in Reti Bancarie, una subholding della Popolare di Lodi. Viceversa, la Popolare di Lodi possiede il 2 per cento di Unipol.

Vittorio Malagutti sull’Espresso ha raccontato anche il miracoloso fido di 4 milioni di euro della Popolare di Lodi a Consorte: chiesto il 27 dicembre, tra Natale e Capodanno, è stato concesso in ventiquattr’ore, senza bisogno d’alcuna garanzia. Proprio nelle settimane seguenti, altri 38 “amici” di Fiorani hanno ottenuto finanziamenti per 1,1 miliardi di euro poi utilizzati per comprare azioni Antonveneta. E proprio in quelle settimane sono partite, sotto traccia, le scalate incrociate: Unipol ha rastrellato il 3,7 per cento di Antonveneta, mentre Lodi ha messo insieme l’1,4 di Bnl. Ben prima che le due scalate fossero dichiarate al mercato: miracoli della preveggenza.

Con il finanziere bresciano Chicco Gnutti i legami di Consorte sono più antichi e ancora più stretti. Unipol possiede infatti il 7,1 della sua finanziaria Hopa. D’altra parte, Hopa e Fingruppo (altra finanziaria di Gnutti) insieme avevano il 15 di Unipol Merchant. E Hopa aveva anche il 20 per cento di Finsoe, la società che controlla Unipol. Ma questi due legami sono stati prima annacquati, poi azzerati. Hopa è completamente uscita da Unipol il 1 aprile 2005. Gnutti aveva anche il 21 per cento di Finec, la finanziaria che controllava, a cascata, Ariete, che controllava Holmo che controllava Finsoe che controllava Unipol. Un’architettura societaria così arzigogolata e autoreferenziale, piena di scatole cinesi e partecipazioni incrociate, da far invidia perfino alla vecchia «costruzione gotico-castrense» delle 23 holding berlusconiane. Alla faccia della trasparenza che ci si aspetterebbe dal movimento cooperativo.

Solo nella primavera 2005 Consorte aveva fatto ordine in casa (in previsione della scalata Bnl?), semplificando la catena di controllo ed eliminando i controlli incrociati. Finec, per esempio, si era fusa in Ariete ed erano stati allentati i rapporti con le società di Gnutti. Allentati, ma non annullati. Hopa, per esempio, ha mantenuto un 5 per cento in Finsoe.

Se c’è una Bicamerale della finanza, questa si chiama Hopa. È proprio in questa holding controllata e presieduta da Gnutti che siedono insieme i protagonisti della “finanza rossa” e gli amici e consiglieri di Berlusconi. Vicepresidente di Hopa è Giovanni Consorte, tra i consiglieri ci sono Stefano Bellaveglia (il dalemiano vicepresidente di Montepaschi), ma anche Gianpiero Fiorani, Stefano Ricucci e Ubaldo Livolsi (il finanziere di Berlusconi operativo nella scalata al Corriere tentata da Ricucci).

Nel collegio sindacale di Hopa, infine, c’è Achille Frattini, professionista di fiducia di Berlusconi, che l’ha messo in una moltitudine di collegi sindacali. È, tra l’altro, presidente del collegio sindacale di Mediaset e anche di quello di Idra, la società che custodisce le proprietà immobiliari del Cavaliere, prima fra tutte Villa Certosa. Insomma: Hopa, la plancia di comando delle scalate tenuta appositamente fuori dai movimenti dei “concertisti”, è il salotto della Nuova Bicamerale.

Cerniere, punti d’incontro tra i due fronti, però, ce ne sono anche altri. Claudio Sposito, ex amministratore delegato di Fininvest, è indicato nelle telefonate intercettate come colui che finanzierà l’avventura di Consorte acquistando, attraverso il suo fondo Clessidra (il più grande fondo di private equity italiano) un buon pacchetto di Aurora Assicurazioni, controllata da Unipol.

Federico Imbert, l’uomo di Jp Morgan in Italia, nell’aprile 2005 ha realizzato per Berlusconi l’imponente collocamento del 17 per cento di Mediaset. Ma è anche nel pool di banche che assistono Consorte nell’operazione Bnl e Jp Morgan possiede il 2 per cento di Finsoe, la cassaforte che controlla Unipol. Il 25 maggio Imbert è stato ricevuto a Palazzo Chigi, secondo quanto annunciato da un comunicato della presidenza del Consiglio che non spiega però i motivi della visita.

E poi c’è Earchimede. E qui la faccenda si fa delicata. La società è una subholding di Hopa ed è presieduta da Gnutti. Ma è partecipata da Lodi (11,92 per cento) e tra i soci ha altri “concertisti” bresciani, come i fratelli Lonati (7 per cento). E poi Unipol: Consorte, attraverso Unipol Merchant e Aurora Assicurazioni, controlla il 14 per cento del capitale, dunque è l’azionista più importante dopo Gnutti.

Ha una strana storia, Earchimede. Nasce come incubator per il web, per tutto il 2002 non fa granché, fatturato minimo, perdite consistenti. Poi diventa holding di partecipazioni e nel 2004 comincia a fare utili. Ma sempre con piccoli affari, mentre il capitale è diventato imponente: 212 milioni. Inspiegabile un tale immobilizzo di denaro. «A meno che si fosse in attesa del grande affare», scrive il Sole 24 ore il 28 luglio. E il grande affare arriva nell’estate 2005, quando a Earchimede finisce una delle più grandi tra le cessioni fatte da Fiorani per far quadrare, almeno apparentemente, i suoi conti patrimoniali: le arrivano le quote di Efibanca e Bpl Ducato.

In una telefonata del 29 giugno, ore 15.10, Fiorani parla dell’operazione con Consorte. I due fanno riferimento a un consiglio d’amministrazione della società Earchimede, durante il quale dovranno deliberare «un acquisto di partecipazioni nostre che sono Ducato».

Fiorani: «Ecco un’altra cosa! Oggi c’è un consiglio Earchimede e tu hai un tuo consigliere dentro e anche un sindaco».
Consorte: «Sì!».
Fiorani: «Loro deliberano, diciamo temporaneamente con la T maiuscola, dell’acquisto di partecipazioni nostre che sono Ducato».
Consorte: «Aspetta un secondo che non sento... deliberano?».
Fiorani: «Sì! Deliberano l’acquisto di due partecipazioni quota minimale di Ducato e di... e di aspetta... Efibanca».
Consorte: «Sì!».
Fiorani: «E vengono deliberate con lo scopo di fare un’operazione diciamo così di...».
Consorte: «Ho già capito!».
Fiorani: «Hai già capito! Tutto lì! Dopodiché è un’operazione che però renderà a Earchimede 2.500.000 di fees».
Consorte: «Mmmmmmmmmmm».
Fiorani: «Che è l’ammontare che serve a Earchimede per avere il bilancio in utile dopo le svalutazioni che deve fare che ha potuto fare purtroppo il fondo là di quel di Capomolla & Company».
Consorte: «Sì!».
Fiorani: «Quindi allora sono garantiti e un utile guadagnano te lo dico perché se tu hai dentro uno in consiglio di amministrazione e hai un sindaco tuo».
Consorte: «Sì!».
Fiorani: «Se gli mandi un accenno che è tutto ok».

Poco dopo, alle 17.24, Fiorani contatta Gnutti, che lo aveva cercato perché voleva un affidamento di 30 milioni per comprare azioni Eni. Ma prima Fiorani gli dice che la questione Earchimede «la sta mettendo a posto Giovanni». Concerto rosso. Roba da “furbetti del quartierino”.

I fatti/5. No anche dentro i Ds


Chi critica la “scalata rossa” (e i suoi sostenitori dentro la politica) lo fa perché pregiudizialmente ostile ai “riformisti”? Perché affetto da “girotondismo rancido”? Perché fa gli interessi di una parte del capitalismo italiano (l’asse Della Valle-Montezemolo)? O perché ha interessi di partito e, dentro il centrosinistra, vuole sottrarre voti ai Ds?

Alcuni partiti dell’Unione, dalla Margherita all’Udeur, hanno preso a pretesto le scalate per aumentare il loro peso nell’alleanza e rosicchiare voti al primo partito della sinistra: «Per spolpare l’osso dei Ds», dice Vannino Chiti alla Stampa il 7 agosto. È così?
Può darsi che ci siano anche queste componenti nelle intenzioni di chi, nell’estate 2005, ha voluto riaprire la “questione morale”. Ma la storia dell’osso da spolpare non spiega una cosa: il vasto disagio provocato da queste vicende dentro i Ds e il loro mondo. Molti non lo esprimono all’esterno, per timore di indebolire il partito alla vigilia di un cruciale scontro elettorale. Ma il disagio c’è, profondo e diffuso.

Nettamente contrari agli scalatori sono Franco Bassanini, Giuliano Amato, Roberto Barbieri, Enrico Morando, tutti perplessi sul ruolo giocato da Unipol in questa partita. Un no chiaro a Consorte e ai suoi piani è arrivato dall’altro grande polo della “finanza rossa”, il Monte dei Paschi, e da tutti i Ds di Siena. Cauto e insoddisfatto si è mostrato Lanfranco Turci, in passato presidente di Lega coop e oggi senatore Ds, che è andato significativamente nella città tascana sede del Montepaschi e capitale dei diessini “dissidenti” per un affollato dibattito su «Siena, città della finanza». Fredda nei confronti dell’operazione Unipol-Bnl è una parte dello stesso mondo cooperativo, da Turiddu Campaini di Unicoop Toscana alle coop dell’Umbria, fino a Silvano Ambrosetti della Coop Lombardia.

Contrario il mondo sindacale della Cgil. A partire dal numero uno Guglielmo Epifani, che il 19 luglio ha dichiarato: «Per quello che riguarda la Cgil, non eravamo né siamo convinti che questa sia la soluzione migliore per Bnl. Unipol si caricherà di troppi debiti per un’azienda, la Bnl, che è in difficoltà da anni, che avrebbe bisogno di una grande banca internazionale per essere rilanciata. Questa era l’opinione della Cgil, e questa resta l’opinione della Cgil. Poi Unipol agisce secondo quanto ritiene utile pe sé».

Carlo Ghezzi, ultimo consigliere d’amministrazione Unipol espresso dalla Cgil, ricorda come il sindacato decise di uscire dalla compagnia bolognese: «Era il 1999, l’Unipol finì per partecipare alla scalata Telecom. Fu allora che, con il segretario generale Sergio Cofferati, prendemmo la decisione: uscire dal consiglio d’amministrazione. Questa scelta, vista ora, appare lungimirante. In queste scalate vedo solo un gran movimento di capitali che puntano alla rendita. Legittimo, per carità. Ma dalla sinistra mi aspetterei attenzione ai progetti innovativi per rilanciare l’economia reale».

Netta l’opposizione dei sindacati bancari. Il segretario dell’Emilia-Romagna della Fisac (i bancari della Cgil), Giorgio Romagnoli, definisce quella di Unipol «una cattiva soluzione, non certo un esempio di trasparenza. Un’operazione pericolosissima, azzardata, sbagliata». Domenico Moccia, che della Fisac-Cgil è il segretario generale, è durissimo quando afferma che Consorte sta mettendo a rischio il patrimonio materiale e morale delle cooperative e che «la sinistra non può accettare il modello Pretty Woman, film in cui il finanziere interpretato da Richard Gere vuole distruggere un’impresa, strangolandola finanziariamente, per poi realizzare un’operazione puramente speculativa».

C’è insomma tutto un universo, non nemico o concorrente, ma interno alla sinistra e alla Quercia, che non applaude neanche un po’ il boss dell’Unipol Giovanni Consorte, le sue scelte e le sue cattive compagnie. Anzi. Dentro questo mondo ci sono motivazioni e toni diversi, ma tutti, con belle maniere, accenti differenti e modi gentili, mostrano un’unica preoccupazione: che la partita giocata da Consorte coinvolga tutto il partito. E magari finisca per trascinarlo nel fango.

 

 

Scalatori mascherati. La Consob accusa

Giovedì 06 Ottobre 2005 01:00 Gianni Barbacetto
Stampa PDF

06.10.2007

Scalatori mascherati. La Consob accusa

La variopinta compagnia degli scalatori (da Gianpiero Fiorani a Emilio Gnutti, da Giovanni Consorte a Stefano Ricucci) è oggetto di una serie di inchieste giudiziarie per reati societari. La procura di Roma, per esempio, sta indagando sulla scalata Bnl, i magistrati di Milano Giulia Perrotti ed Eugenio Fusco stanno invece indagando su Antonveneta. Si comincia così a sollevare qualche velo sui finanziamenti occulti e sulla rete di società, alcune delle quali domiciliate nelle Isole Vergini e in altri paradisi fiscali, da cui quei finanziamenti sono transitati. Fiorani inoltre è il protagonista anche per due ardite operazioni di salvataggio, quelle che hanno strappato dal crac Credieuronord, la banca della Lega, e Hdc-Datamedia, la società di sondaggi di Luigi Crespi (per questo è anche indagato).

Anche la Consob ha posto sotto osservazione gli scalatori. E nel rapporto del 10 maggio 2005 sull’affare Antonveneta ricostruisce minuziosamente i flussi di denaro entrati nella partita. Dimostrando che Fiorani e i suoi amici hanno cominciato a rastrellare azioni della banca di Padova ben prima del 3 febbraio 2005, data in cui la Popolare di Lodi (Bipielle) ha chiesto a Bankitalia l’autorizzazione a salire fino al 15 per cento. Si erano già mossi, dice il rapporto Consob, 38 soggetti che avevano acquistato più del 22 per cento del capitale di Antonveneta. È così dimostrato che «il progetto Bipielle fosse già da tempo esistente e strutturato» e che «l’amministratore delegato di Bipielle avesse posto in essere contatti e incontri, anche con soci italiani aderenti al patto, finalizzati ad acquisire una partecipazione in Antonveneta». In spregio alle regole, dunque, Fiorani e gli scalatori (tra cui Ricucci e Coppola) hanno stretto accordi sotterranei e non dichiarati, hanno organizzato una cordata segreta e sottratta a ogni controllo, hanno costituito un patto di sindacato occulto. Senza darne comunicazione al mercato e alle autorità di controllo, Consob e Bankitalia.

Di questo patto di sindacato occulto di cui fanno parte, secondo Consob, «38 soggetti», 18 appartengono al gruppo bresciano di Chicco Gnutti, 12 al gruppo dei lodigiani legati a Fiorani, cinque sono immobiliaristi (tra cui Stefano Ricucci e Danilo Coppola) e tre trader. I 38 soggetti, grazie alle informazioni riservate ricevute da Fiorani, hanno anche realizzato consistenti plusvalenze, perché hanno comprato sotto traccia titoli Antonveneta prima dell’inizio ufficiale della scalata, rivendendoli poi alla Popolare di Lodi quando i prezzi erano considerevolmente lievitati. Al reato ipotizzato di false comunicazioni si aggiunge così quello di insider trading. È ipotizzabile inoltre anche il reato di aggiotaggio, perché gli scalatori avrebbero manipolato i meccanismi di mercato facendo salire i prezzi di Antonveneta ben oltre i 25 euro ad azione offerti dagli olandesi di Abn-Amro, facendo così fallire la loro opa.

Ma Fiorani non ha solo passato preziose informazioni agli amici, li ha anche generosamente finanziati, con cifre variabili da 10 a 50 milioni di euro a testa, con un esborso totale di 1.118 milioni di euro. In 31 casi su 38 si è trattato di finanziamenti, scrive la Consob, con «profilo di rischio elevatissimo». Ricucci, secondo il rapporto, è un caso a sé. «Ha avuto nel medesimo periodo una significativa crescita del suo affidamento complessivo con la banca», anche se «non direttamente collegabile agli acquisti in questione». Ma sappiamo che la sua Magiste era impegnata anche in altre partite, tra cui spicca la scalata Rcs.

Quali e quanti soldi sono passati da Bipielle Suisse a misteriose società dei Caraibi e poi arrivati a Ricucci che li ha utilizzati per il suo shopping milionario? Sulla base di quali garanzie patrimoniali? E fornite da chi? Domande ancora senza risposta, che le indagini dovranno cercare di trovare. (gb)

 

E la «rude razza romana» va all’assalto del sistema

Giovedì 06 Ottobre 2005 01:00 Gianni Barbacetto
Stampa PDF
06.10.2005  L'inchiesta vecchio stile

E la «rude razza romana» va all’assalto del sistema

Rcs, Antonveneta, Bnl. Una composita compagnia di banche di provincia e immobiliaristi d’assalto sfida il cuore della finanza del Nord. Ecco come Stefano Ricucci, Danilo Coppola e Giuseppe Statuto sono diventati i nuovi campioni del (debole) capitalismo italiano. E chi sono i loro amici. A destra. E a sinistra

di Gianni Barbacetto

La rude razza romana ha iniziato l’assalto al sistema. Due grandi banche, Antonveneta e Bnl, sono sotto scalata da parte di una composita compagnia di finanzieri di provincia e d’immobiliaristi romani, che dicono di volerle salvare dagli stranieri (gli olandesi di Abn Amro, i baschi del Banco di Bilbao). E la Rcs , editrice del principale quotidiano italiano, il Corriere della sera, è sotto attacco da parte di Stefano Ricucci, il più nuovo di quegli immobiliaristi. Con Danilo Coppola e Giuseppe Statuto forma un trio del mattone che sembra aver rivestito i panni delle truppe d’assalto. Dietro di loro si muovono i battaglioni di banchieri come Gianpiero Fiorani, presidente e amministratore delegato della Popolare di Lodi; di manager come Giovanni Consorte, il boss di Unipol; di finanzieri come Emilio Gnutti, già protagonista nel 1999 della madre di tutte le nuove scalate, l’opa su Telecom.
È l’attacco al cuore dello stato di cose presente. L’Italia vive una crisi strutturale, la grande industria è in declino, la piccola ha perso competitività, le Grandi Famiglie del Nord sono al crepuscolo, non c’è più un Enrico Cuccia a fare da centro del sistema. Dopo la «rude razza padana» di Chicco Gnutti e dei suoi amici, che tanto era piaciuta a Massimo D’Alema, ecco s’avanza la rude razza romana dei nuovi padroni del mattone. Espugnata Rcs, potrebbe cadere Mediobanca. E l’obiettivo seguente sarebbero le Generali, la cassaforte più preziosa del sistema.
Fantascienza, per ora. Ma intanto Ricucci annuncia di avere in mano (quando scriviamo) almeno il 18,5 per cento di Rcs e insidia i fragili equilibri del patto di sindacato che tiene per ora insieme, dentro Rcs, i rappresentanti di quella che fu l’ala nobile del capitalismo italiano, più qualche nuovo arrivato.
Le prime reazioni sono state dure: chi è mai questo Ricucci, da dove viene, come ha fatto i soldi? Le maldicenze sulle origini della razza mattona e le domande sulle fortune degli immobiliaristi si sono moltiplicate. I più benevoli sussurrano che sono figli dello scudo, riferendosi al cosiddetto «scudo fiscale» che dal 2001 ha permesso il rientro anonimo e a buon mercato dei capitali nascosti all’estero. I più malevoli accennano a loschi traffici di ogni sorta, ma senza portare mai uno straccio di prova. Le domande sono rimbalzate dai salotti buoni alle pagine di giornali come il Sole 24 ore, il Mondo, L’espresso. Con seguito di proteste, rettifiche, querele.
Anche il presidente di Confindustra Luca Cordero di Montezemolo, all’assemblea annuale dell’associazione, il 26 maggio, ha toccato l’argomento, quando a proposito della «malintesa battaglia per l’italianità delle banche», ha detto: «Ne sono seguiti incontri più o meno riservati presso le autorità, manovre incrociate, emersione di nuovi soggetti e di capitali misteriosi, rastrellamento di azioni sul mercato, scalate clandestine, sospetti e accuse di insider trading, denunce di azioni di concerto, interventi della magistratura. Niente di più lontano da produzione e lavoro».

Gastone e Cenerentole. «Aridaje!», ripete Ricucci ogni volta che sente parlare di «capitali misteriosi» e ogni volta che gli viene chiesto come abbia fatto i soldi. E poi parte in quarta a spiegare la sua storia di mattoni e successo, aiutato da una fidanzata esuberante e comunicativa come Anna Falchi, che il prossimo 2 luglio, all’Argentario, diverrà sua moglie. «Tra di noi ci chiamiamo Cenerentola e Gastone», ha confidato Anna Falchi a Monica Setta per Gente. «Veniamo dalla stessa esperienza: Stefano ha cominciato come odontotecnico, io sono cresciuta con la mamma e mio fratello in un Paese come l’Italia che mi era sconosciuto. Non è stato facile per nessuno dei due». Poi la nipote del pastore luterano finlandese cresciuta in Italia senza padre è diventata attrice e ha conquistato le copertine. E il ragazzo di borgata è diventato ricco e famoso. «Sì, lui è Gastone. Gastone Paperone, quello dei fumetti che fa diventare oro tutto ciò che tocca».
Come Gastone, evidentemente, deve avere una fortuna sfacciata. Perché davvero non è facile arrivare a 43 anni e possedere, secondo quanto dichiara, un patrimonio di oltre 2 miliardi di euro: 910 milioni in immobili e circa 1.400 milioni in partecipazioni (tra cui 450 in Rcs, 420 in Antonveneta, 450 in Bnl, 50 in Bipielle). Stefano Ricucci, infatti, non nasce ricco. Suo padre è autista dell’Atac, l’azienda dei trasporti pubblici di Roma, sua madre è casalinga. Dopo il diploma, lavora come odontotecnico in un laboratorio dentistico di Centocelle. Per arrotondare, in estate fa il cameriere.
La leggenda delle origini narra del primo affare immobiliare a 19 anni: un terreno della madre scambiato con tre appartamenti; poi racconta di compravendite di negozi a Zagarolo, che a molti italiani ricorda per lo più «l’ultimo tango» di Franco e Ciccio. Nel 1984 il giovane Stefano fonda la sua prima società: per la gestione di ambulatori e laboratori clinici, lui che era solo l’ultimo dei tecnici. L’anno seguente, il primo affare di peso: acquista un immobile a San Cesareo, alle porte di Roma, e lo rivende – racconta – guadagnando 246 milioni di lire. Da allora non si ferma più. Da Zagarolo e Grottaferrata passa a Roma e Milano.
Mente veloce, gran lavoratore, uomo fortunato. Ma la sua fortuna più grande è incrociare la bolla immobiliare: in un’Italia in cui l’industria declina, il mattone cresce ininterrottamente di valore; e il cambio di regime monetario con l’arrivo dell’euro aumenta la propensione agli investimenti immobiliari (anche perché costringe a mettere in circolo i soldi indichiarabili). Negli ultimi anni (ottobre 1998-ottobre 2004, secondo dati di Nomisma) le abitazioni incrementano il loro valore in media del 65 per cento, gli uffici del 59 per cento, i negozi di oltre il 57 per cento. Ma i palazzi di pregio a Milano e Roma in alcuni casi raddoppiano o addirittura triplicano il loro valore. Ricucci, per esempio, compra nel 1999 un centro residenziale a Talenti, vicino a Montesacro, per 17 miliardi di lire e lo rivende subito dopo a 50. L’anno dopo per 37 miliardi compra Palazzo Bonaparte, in piazza Venezia a Roma, e lo rivende a 90. A Milano possiede un palazzo in via Borromei valutato 120 milioni di euro, un altro in piazza Durante che vale 118 milioni, un terzo nella centralissima via Silvio Pellico, a ridosso della Galleria Vittorio Emanuele, che viene valutato 60 milioni.
Lavora soprattutto con le banche, stringe rapporti e alleanze, compra e vende grandi immobili, realizza operazioni di vaste dimensioni. Fino a diventare il re della rude razza romana. Ha fatto affari con la Fingruppo di Chicco Gnutti e con la Capitalia di Cesare Geronzi, restando poi con entrambi in rapporti non proprio affettuosi, secondo i bene informati. Ma realizzando comunque ottime plusvalenze.
Quando, nel 1989, ha fondato la sua holding, l’ha chiamata Magiste, sommando le prime lettere dei nomi dei suoi genitori, Matteo e Gina, e del suo, Stefano: tutto casa e famiglia. Ma l’ha domiciliata in Lussemburgo, al riparo da sguardi indiscreti. Si attornia solo di uomini fidati, tra cui Luca Pompei, un giovanotto di 30 anni, nipote di Giorgio Almirante e di Donna Assunta, che è di casa a casa Ricucci. E nelle sue operazioni – non tutte proprio un esempio di trasparenza – entrano finanziamenti misteriosi (come quello da 1,8 miliardi di euro ottenuto in Lussemburgo: in cambio di quali garanzie patrimoniali? e messe a disposizione da chi?) e teste di legno, come nella migliore tradizione italiana. Il signor Ezio Candela, per esempio, è un pensionato ottantunenne esperto in fallimenti (ne ha sei sul groppone) a cui Ricucci il 30 dicembre 2004, per la cifra di soli mille euro, ha passato la società Immobiliare il Corso. Ovvero una scatola in cui erano passati immobili di Ricucci venduti a Gnutti, poi finita alla banca di Fiorani. Candela gli era già stato utile, come ricostruisce Vittorio Malagutti sull’Espresso, quando, indossati i panni dell’amministratore unico, aveva preparato il passaggio al curatore fallimentare di un’azienda del primo Ricucci, il centro odontostomatologico Arcadia.
Archiviati i denti e raggiunta la ricchezza, ora, con addosso una nuvola di Rush (Gucci eau de toilette), sogna il riconoscimento sociale e insegue la promozione culturale. Una laurea se l’è già presa, in Economia, presso una certa Clayton University di San Marino, non proprio la Sorbona. Dove una laurea l’ha portata a casa anche Anna Falchi, in Letteratura. Adesso il suo obiettivo è diventare cavaliere del lavoro. Ci tiene proprio. «Qual è il problema? Lavoro da 23 anni», ha dichiarato al settimanale Economy, «e per diventare cavaliere ne occorrono 20. Ho un gruppo che paga le tasse in Italia. E ho creato ricchezza...». E ha aggiunto tenero: «Io chiedo solo una chance. Chiedo solo di essere rispettato per il lavoro che faccio. È troppo?».
«È il re della matematica», dice di lui Anna Falchi, «a volte provo a fargli fare a mente dei calcoli complicatissimi e non sbaglia mai». Per il resto, vita tranquilla. «Stiamo in casa e io mi metto ai fornelli per lui». Piatto preferito: lasagne al ragù. «Non frequentiamo i salotti mondani né i circoli esclusivi, ma solo gli amici di sempre»: l’attrice Lorenza Indovina e lo scrittore Niccolò Ammaniti, per esempio, «che hanno deciso di sposarsi dopo di noi»; o il presidente della Confcommercio Sergio Billè, probabile testimone di nozze.
Tra amici, Stefano si lascia andare e fa il simpatico: «Con quell’accento romano e le sue freddure sembra Alberto Sordi», racconta Anna Falchi. Che ama cucinare e vuole che il marito faccia il maschio, ma pretende un suo ruolo anche fuori dalla cucina: «Non per niente mi chiamano Lady Finanza: quando siamo a cena intervengo e so quello che dico». Per ora si accontenta di fare la produttrice cinematografica, ha fondato una società che si chiama A-Movie Productions e vuole realizzare un film da Oscar con Dustin Hoffman. Domani si vedrà.
Chi non lo ama dipinge Ricucci come uno dei tanti operatori spregiudicati che riescono a emergere in tempi di crisi, senza aver creato nuove imprese o nuovi prodotti; spalleggiati e utilizzati da banchieri altrettanto spregiudicati, hanno solo spostato in Borsa, drogando il listino, i soldi guadagnati col mattone. «Ricucci non ha alcun fascino, zero magnetismo. Neppure la fierezza, tutta siciliana, di un altro che si è fatto dal niente come Salvatore Ligresti», racconta un grande banchiere che ha avuto a che fare con lui («Ma mi raccomando, niente nomi»).
Lui ripete fino alla noia di essersela invece meritata, la sua fortuna. E che «dietro Ricucci c’è solo Ricucci, che ha fatto strada lavorando duramente e grazie a tanti amici che hanno creduto in lui. Punto». Siccome poi nei salotti buoni non lo invitano, è entrato di forza in uno dei migliori, quello di Rcs, buttando sul piatto una cifra valutata tra i 450 e i 700 milioni di euro. E subito tutti a interrogarsi: perché vuole il Corriere della sera? chi c’è dietro? di chi sta facendo il cavallo di Troia? La sua risposta è la solita: dietro Ricucci c’è solo Ricucci, io non sono un prestanome di lusso. Quando la scalata era solo agli inizi, del resto, a proposito dei giornali aveva rilasciato una dichiarazione che oggi è da rileggere attentamente: «Non ce l’ho con chi scrive. Mi dà fastidio però la malafede, la censura sui fatti, i conflitti di interesse tra editori e giornalisti. Chiedo rispetto. E regole uguali per tutti: dagli Agnelli a Ricucci. Perché si smetta di distribuire patenti di credibilità a chi vende scarpe, negandole a chi vende immobili». Capito? Ma comunque, dato che i protagonisti di questa storia non aiutano a capire molto di più, non resta che raccogliere indizi, seguire piste. A cominciare dal volo del calabrone.

Il patto del calabrone. Il patto di sindacato che scade nel 2007 e controlla il 58 per cento di Rcs è un calabrone: non si sa come riesca a volare, eppure vola. Tiene insieme, infatti, 15 soggetti che hanno scarse motivazioni a stare insieme. Banchieri e imprenditori di quella che una volta era l’ala nobile del capitalismo italiano (Mediobanca, Generali, Fiat, Pirelli, Pesenti, Gemina, Edison, Mittel, Merloni, Intesa, Capitalia...), più un paio di nuovi arrivati accettati non senza fatica (Diego Della Valle e Salvatore Ligresti). È questo calabrone che gestisce il Corriere, magari anche stando a guardare attonito chi – come Francesco Gaetano Caltagirone, palazzinaro romano di più antica tradizione – stava fuori dal patto, ma tenendosi stretto un bel 2 per cento di azioni Rcs che avrebbe voluto far contare di più. Con questo calabrone che ronza ma non disturba, il Corriere negli ultimi anni è andato per la sua strada, cambiando più volte direttore ma dimostrando nella sostanza di essere difficilmente condizionabile dai poteri. Per quanto tempo ancora, però, riuscirà a volare il calabrone?
Un indizio da cui partire è la questione dei prezzi. Il titolo Rcs, spinto dagli acquisti, è cresciuto di oltre l’80 per cento in un anno, raggiungendo una quotazione 60 volte gli utili netti del 2004, mentre la media europea di settore è di 16 volte. Insomma: Ricucci, malgrado le sue ripetute dichiarazioni in linguaggio tuttoborsaefinanza, ha comprato a prezzi fuori mercato, spendendo più di 450 milioni di euro al 6 giugno, quando ha annunciato di avere in tasca il 18,5 per cento.
«Sa cosa vuol dire Rcs? Vuol dire Ricucci-Coppola-Statuto». È solo una battuta, ma siccome circola dentro le mura del Corriere della sera fa un certo effetto. E allora la prima pista da seguire per capire che cosa sta succedendo è quella degli immobiliaristi. Ricucci sta rastrellando titoli per Caltagirone, si diceva nella prima fase della scalata, magari contando sull’aiuto, dall’interno del patto, di Salvatore Ligresti e del suo nuovo mentore, il banchiere di Capitalia Cesare Geronzi. Ma poi Caltagirone, il 26 maggio, ha annunciato di aver venduto il suo 2 per cento, realizzando una bella plusvalenza di 38 milioni, ma soprattutto lanciando un segnale: io non c’entro con questi nuovi arrivati della razza mattona. (A meno che non sia tutta una finta, un depistaggio per non scoprirsi come il vero scalatore).
La seconda pista passa per il banchiere preferito da Ricucci, cioè quel Gianpiero Fiorani che è il vero regista delle altre due scalate in corso, su Antonveneta e su Bnl. Fiorani è forte del rapporto intenso e diretto, molto diretto, con il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio. Ma è fragile perché, dopo tante acquisizioni realizzate ma non ancora digerite, la sua indebitatissima Popolare di Lodi o riesce a compiere il grande salto e diventa una banca di prima fila, oppure rischia miseramente di implodere: l’indicatore che misura la sua solidità patrimoniale (Tier 1) è sceso sotto il 2 per cento, non era mai successo a nessuna banca italiana.
La terza pista è la più cervellotica: a sostenere Ricucci sarebbe addirittura Giovanni Bazoli, il banchiere di Intesa, uno che con Ricucci non troverebbe parole comuni neppure per parlare del tempo, ma a cui sarebbe utile un assalto ai confini per riuscire a manovrare i rapporti di forza all’interno del patto; e a realizzare una sorta di guerra preventiva, rastrellando quote di Rcs per annullare così i rischi di vere scalate ostili. O di defezioni temute, come quella di Fiat, che in Rcs ha una delle quote più pesanti (oltre il 10 per cento), ma così tanti problemi a Torino da rendere prevedibile, prima o poi, un suo ritiro da Milano. Bazoli ha però smentito seccamente ogni suo coinvolgimento nella vicenda e il patto del calabrone ha dato ripetuti segnali di compattezza. Si è consolidato salendo, il 30 maggio, dal 57,4 al 58,08 per cento. E poi si è blindato, inventando il 5 giugno una clausoletta salvacalabrone secondo cui, in caso di opa, i soci s’impegnano a comprare loro le quote di chi voglia vendere.
Inseguendo indizi, si scopre che tra i finanziatori di Ricucci ci sono la Popolare dell’Emila Romagna di Guido Leoni, la Popolare di Vicenza e la genovese Carige guidata da Vito Bonsignore, tre istituti molto vicini al governatore Fazio e tutti e tre impegnati a difendere, con Fiorani, «l’italianità» di Bnl contro gli spagnoli. Ma anche in ambienti impensabili si scovano indizi che portano a Ricucci. In Banca Intermobiliare, per esempio, boutique finanziaria torinese controllata dalla famiglia Segre e da sempre vicina a Carlo De Benedetti. Oggi ha tra i suoi clienti più affezionati proprio Stefano Ricucci, Danilo Coppola e Giuseppe Statuto, cui ha offerto servizi e finanziamenti, anche in relazione alla scalata Bnl.
Altri indizi portano ad Arnaldo Borghesi, amministratore delegato di Lazard Italia e membro di board cari a Bazoli come quello di Mittel e della Fondazione Giorgio Cini. È l’advisor preferito di Fiorani e, secondo voci diffuse durante la prima fase della scalata, era al lavoro anche per conto di Ricucci. L’editoria, del resto, a Borghesi piace, vista la sua vicinanza al quotidiano economico Finanza & Mercati diretto dal suo amico Osvaldo De Paolini, gran sostenitore degli affari di Fiorani e compagnia. Ma Ricucci ha poi dovuto smentire espressamente di aver affidato incarichi a Lazard «e specificamente a Borghesi».
Anche Francesco Micheli, finanziere-musicista ormai defilato, ha smentito di avere una parte in questo giallo con troppi indiziati e con piste che, anche se cadute, possono essere state vere per qualche momento o potranno diventar vere in futuro. Anche perché, seppure l’avesse iniziata da solo, oggi l’avventura Rcs non può più essere gestita in solitaria da Ricucci e comunque è destinata a sfuggirgli di mano. Il 30 maggio ha cominciato a parlare di opa: ma un’offerta pubblica d’acquisto su Rcs, che per legge farebbe sciogliere il patto del calabrone, obbligherebbe a mettere sul piatto almeno 3 miliardi e mezzo di euro e a spenderne effettivamente almeno la metà. Too much anche per la rude razza romana.

La pista rossa. Poi c’è la pista rossa. E qui gli indizi si moltiplicano. La banca più impegnata con Ricucci è la Deutsche Bank e il banchiere a lui più vicino (se si esclude Fiorani, naturalmente) è Vincenzo De Bustis, oggi numero uno di Deutsche Italia e vecchia conoscenza di Massimo D’Alema fin dai tempi eroici della Banca del Salento e di Banca 121. Sono firmati Deutsche e Société Générale giganteschi finanziamenti a Ricucci (per un totale di 1,8 miliardi di euro) su cui anche la Consob ha chiesto chiarimenti. De Bustis comunque sostiene di non saperne nulla: sono operazioni decise dal trading desk della sede di Londra. Ma il desk di Londra non fa investimenti senza relazione del desk di Milano. E poi la Deutsche è partner di Magiste anche nella gara in corso per la gestione dell’immenso patrimonio immobiliare Enasarco (valore: 3 miliardi di euro) in cui Ricucci si scontra con concorrenti del calibro di Generali e Pirelli Real Estate. La pista rossa, dunque, porta ad ambienti vicini a D’Alema. Chi lo conosce è pronto a giurare che a D’Alema piace l’attacco al cuore dello stato di cose presente sferrato dai nuovi capitani coraggiosi, dalla rude razza romana.
La pista rossa, del resto, è confermata anche da altri più sostanziosi indizi. Chi è il grande alleato di Fiorani (e dunque di Ricucci) in tutte le partite più rischiose che ha in corso? È Giovanni Consorte, il finanziere creativo di Unipol, l’uomo che ha trasformato il vecchio mondo delle cooperative rosse in una macchina da guerra da scatenare nelle operazioni finanziarie più spregiudicate: dalla madre di tutte le opa lanciata da Chicco Gnutti su Telecom, fino agli odierni arrembaggi a Bnl e Antonveneta. Consorte sembra aver stretto una sorta di patto informale con Fiorani e Gnutti, con cui fa cordata in molte operazioni benedette dal governatore Fazio. In casa, invece, Consorte si è assicurato il controllo della galassia Unipol grazie a un’architettura societaria così arzigogolata e autoreferenziale, piena di scatole cinesi e partecipazioni incrociate (l’ha raccontata Mario Gerevini sul Corriere nell’aprile 2004), da far invidia perfino alla «costruzione gotico-castrense» delle holding berlusconiane. Alla faccia della trasparenza che ci si aspetterebbe dal movimento cooperativo.
Non è un mistero che il nume tutelare politico di Consorte sia Massimo D’Alema, con tutta la rete degli amministratori locali Ds (necessari, per esempio, per stipulare grandi contratti pubblici con Unipol, o per concedere licenze edilizie a una Coop in grande espansione. Ma utili anche all’espansione dei nuovi palazzinari). Il mondo dalemiano è in grande fermento ed espansione, dopo le ultime vittorie elettorali del centrosinistra alle amministrative.
Tra i dalemiani spicca Pierluigi Bersani, ministro all’epoca della scalata Telecom da parte dei «capitani coraggiosi». Allora nell’operazione fu coinvolta anche la «banca rossa», il Monte dei Paschi di Siena, che pochi anni prima, nel 1996, era stata convinta da un suo consigliere d’amministrazione (Silvano Andriani, molto legato a D’Alema) ad acquistare una partecipazione in Mediaset decisiva per il successo del collocamento in Borsa della holding televisiva di Berlusconi. Oggi il Monte dei Paschi ha invece resistito alle pressioni politiche ed è rimasto neutrale rispetto alle scalate Bnl e Antonveneta. E nel mondo delle cooperative si è ormai formata una fronda anti-Consorte. Ma lui va avanti imperterrito. Tanto che anche Montezemolo, all’assemblea annuale di Confindustria, ha lanciato un’inattesa stoccata alla pista rossa. Dopo aver attaccato «la malintesa battaglia per l’italianità delle banche» e aver criticato, senza giri di parole, «l’emersione di nuovi soggetti e di capitali misteriosi», Montezemolo ha alzato per un attimo gli occhi dai fogli che stava leggendo e, a braccio, ha aggiunto: «E nel Paese, soprattutto nella sinistra, abbiamo sentito troppi silenzi».
La frecciata era rivolta ai dalemiani. Reazione scandalizzata di Pierluigi Bersani: «Passaggio gratuito». E qualche giorno dopo, a proposito delle ipotizzate vicinanze Ricucci-D’Alema: «Mi sembrano palloni che si fanno girare per coprire la realtà dei fatti». Ma Franco Bassanini, ex ministro della Funzione pubblica, commenta con Diario: «L’uscita di Montezemolo forse era ingenerosa, visto che a sinistra qualcuno aveva parlato, eccome». Romano Prodi, Francesco Rutelli, Giuliano Amato e lo stesso Bassanini, esprimendosi apertamente per l’applicazione delle regole di mercato, avevano criticato le cordate di Fiorani e amici. «E del resto da destra, più che silenzi, sono arrivati sostegni forti ed espliciti agli scalatori», continua Bassanini, «vedi il comportamento di Luigi Grillo, presidente della Commissione lavori pubblici del Senato».
Detto questo, però, Bassanini non si scandalizza per la critica di Montezemolo. E ammette che i silenzi, a sinistra, ci sono stati. Anzi, altro che silenzi. D’Alema a Porta a porta ha parlato e si è schierato, quando si è lasciato sfuggire: «Io sono per il mercato, ma l’Italia non può avere solo filiali». Ora Bassanini replica: «A un’opa si deve rispondere con un’altra opa, non rastrellando azioni con operazioni poco trasparenti che alla fine danneggeranno i piccoli azionisti e faranno guadagnare i soliti noti». Su questi temi il Corriere ha da tempo chiesto un’intervista a Massimo D’Alema, ma per ora non ha ricevuto risposta.
A meno che... A meno che la pista rossa – si sussurra nei palazzi della politica – non sia un’invenzione centrista, un complotto anti-Ds messo in circolo da Della Valle e Montezemolo, con alle spalle Francesco Rutelli...

La pista B. Ma a proposito di opa, se davvero, alla fine, arrivasse a lanciare un’offerta pubblica d’acquisto su Rcs, allora Ricucci darebbe l’innesco a una rivoluzione. Il patto di sindacato sarebbe sciolto e ognuno correrebbe per sé. Funzionerà la clausoletta salvacalabrone? Certo che a quel punto i soldi necessari sarebbero davvero tanti e piste diverse, allora, potrebbero arrivare a sommarsi. E potrebbe magari palesarsi qualcuno che ha tanti soldi e tanta voglia di togliersi uno sfizio: fare finalmente i conti con quei rompiscatole del Corriere, sempre pronti a criticare il governo. Di personaggi con tanti soldi (magari per aver appena venduto un 17 per cento di Mediaset, con un ricavo di 2,2 miliardi di euro) e con conti politici in sospeso con il quotidiano di via Solferino ce n’è uno solo in Italia, e si chiama Silvio Berlusconi.
A voler guardare, qualche piccolo indizio che porta alla pista B. si è già materializzato. Nella lista stilata da Ricucci con i nomi per il consiglio d’amministrazione di Antonveneta nel caso fosse respinto lo straniero, compariva Ubaldo Livolsi: oggi è consulente di Ricucci, però è noto che Livolsi, dopo essere stato manager di Berlusconi, è diventato finanziere in proprio ma sempre in un’area contigua al suo ex capo, tanto da essere membro del consiglio d’amministrazione di Fininvest.
E in questa storia fa capolino anche il banchiere napoletano Federico Imbert, responsabile per l’Italia di Jp Morgan, in affari con Fiorani e Gnutti oltre che con l’Unipol di Giovanni Consorte, ma anche regista del collocamento del 17 per cento di Mediaset appena venduto da Berlusconi; il 25 maggio Imbert è stato ricevuto a Palazzo Chigi, secondo quanto annunciato da un comunicato della presidenza del Consiglio che non spiega i motivi della visita.
Soldi sporchi e avventurieri. E così stiamo assistendo all’ennesimo arrembaggio lanciato contro il fragile capitalismo italiano. In passato ci hanno provato in tanti, i Sindona, i Calvi, i Parretti... Anche allora circolavano le maldicenze su capitali misteriosi, i sussurri su affari sporchi. E in qualche caso è emerso che i rapporti con la criminalità organizzata c’erano davvero. I due più grandi banchieri privati italiani sono morti in circostanze misteriose, dopo crac clamorosi, lasciando scie di soldi che puzzavano di mafia. Raul Gardini, con la Calcestruzzi , era diventato tecnicamente socio di Cosa nostra. Salvatore Ligresti fu indagato (ma senza alcun risultato) «ai fini di un’eventuale proposta per l’applicazione di misure di prevenzione». E il braccio destro di Berlusconi Marcello Dell’Utri non è stato forse condannato a nove anni in primo grado per i suoi rapporti con la mafia? La storia italiana è fatta così. In queste storie del passato molti avevano abbozzato, altri si erano opposti, qualcuno ci aveva rimesso la vita.
«Sempre nei momenti di crisi entrano in campo capitali strani», comincia a ragionare un grande banchiere (anche lui: «Ma noi non ci siamo neanche visti»). Grandi speculazioni in tempo di declino dell’industria, grandi capitali che tornano a casa grazie allo scudo fiscale. Oggi, in più, c’è una novità radicale, anche rispetto alle brutte storie del passato: la crisi è strutturale e non c’è più nessuno che possa fare barriera. Il grande capitalismo italiano è ridotto a utilities e immobiliare. I vecchi equilibri sono saltati, non c’è più un Cuccia a fare il buttafuori e i nuovi arrivati spingono per entrare. I barbari premono ai confini, vogliono essere accettati nei vecchi salotti buoni. E con quali argomenti si può tenerli fuori? «In quei salotti stanno ormai signori che comandano senza avere i soldi. Da dove attingono la loro legittimazione le Grandi Famiglie ormai in declino, o i banchieri che comandano senza aver mai messo una lira di tasca propria? In nome di che cosa vantano una supremazia morale? Come possono dire a chi arriva con grandi capitali: voi non meritate di entrare?».
E allora che c’è di strano se qualcuno s’innamora dei barbari, della rude razza padana, poi della rude razza romana, animal spirits senza storia e senza cultura, ma vitali e solvibili? Ne subisce il fascino anche Massimo D’Alema, uno che a Milano si trova a disagio e per questo ci viene raramente, che nei suoi salotti si sente in imbarazzo, che non ama i «poteri forti», così privi di ogni deferenza verso la politica. Certo, una volta la sinistra lanciava i «patti tra i produttori» e alla rendita preferiva il profitto, l’industria alla finanza, non civettava con chi la produzione non sa che cosa sia ed è più interessato alla speculazione che all’innovazione e alla ricerca. Ma le cose, evidentemente, cambiano.
Anche l’ex palazzinaro Berlusconi – come Ricucci passato in fretta dall’ago al milione, e poi dall’immobiliare alla tv e alla politica – in fondo non ama Milano, la Milano delle grandi banche e dei grandi giornali che l’ha sempre guardato con sufficienza. Quando dice che l’80 per cento della stampa è comunista, non pensa certo all’Unità, ma al Corriere della sera, al Sole 24 ore. E in un certo senso ha ragione: il capitalismo nobile non ha mai amato gli outsider; li ha sempre disprezzati e messi alla porta, magari dopo aver concluso con loro qualche vantaggioso affare.
Oggi tutto questo potrebbe saltare. Una dozzina d’anni fa, la stagione chiamata Mani pulite è stata per un attimo, un attimo soltanto, anche egemonia culturale, possibilità di raddrizzare i conti dello Stato e i metodi degli affari. «Allora qualcuno si è illuso che fosse possibile introdurre anche in Italia il capitalismo di tipo anglosassone, un capitalismo delle regole», continua a ragionare il banchiere. «Oggi è chiaro che quel progetto è fallito». I barbari hanno i loro circuiti offshore e i loro rappresentanti in politica, hanno tanti soldi e metodi spregiudicati. Potrebbero sostituire del tutto un capitalismo nobile che, se mai c’è stato, ormai non c’è più.
Avrà ragione il banchiere pessimista?

 

Il governatore e gli scalatori mascherati

Venerdì 29 Luglio 2005 01:00 Gianni Barbacetto
Stampa PDF

29.07.2005 - Buonsenso

Il governatore e gli scalatori mascherati

Una sotterranea «Bicamerale della finanza» sta cercando di ridisegnare il profilo del capitalismo italiano

di Gianni Barbacetto


Colpo di scena, signore e signori, in questa grande storia italiana, anzi europea, di soldi, banche e potere che Diario vi sta raccontando da otto settimane: lunedì 25 luglio la procura di Milano ha ordinato il sequestro d’urgenza del 40 per cento delle azioni Antonveneta in mano agli scalatori (il Gianpiero Fiorani della Popolare di Lodi e altri sette suoi amiconi, tra cui il finanziere bresciano Chicco Gnutti e gli immobiliaristi romani Stefano Ricucci e Danilo Coppola).
I due ragazzi terribili della procura, Eugenio Fusco e Giulia Perrotti, hanno messo nero su bianco che «occorre prevenire ulteriori condotte criminose» e dunque hanno ordinato il sequestro senza neppure aspettare un provvedimento del giudice delle indagini preliminari. Anche perché per mercoledì 27 era prevista, in seconda convocazione, l’assemblea degli azionisti di Antonveneta e bisognava impedire che le quote rastrellate contro ogni regola da Fiorani e compagni fossero usate contro quei poveri illusi degli olandesi di Abn Amro che avevano fatto una regolare opa su Antonveneta credendo che in questo Paese le regole valessero per tutti.
Ma c’è un colpo di scena nel colpo di scena: nel decreto di sequestro delle azioni, ci sono alcuni edificanti esempi di colloqui telefonici tra Fiorani e il governatore di Bankitalia Antonio Fazio. Che a parlare con il banchiere di Lodi sia il governatore in persona è una bomba. Anche perché Fazio, secondo quanto risulta dalla sua stessa voce, non esita a chiamare nella notte l’amico Fiorani per annunciargli: «Ho appena messo la firma». Sono le 00.12 del 12 luglio e il governatore gli comunica che ha stracciato le conclusioni negative degli ispettori della Banca d’Italia e ha dato il suo via libera alla Popolare di Lodi che si lancia ufficialmente all’attacco di Antonveneta, dopo aver però già rastrellato in maniera occulta consistenti pacchetti di azioni. «Tonino, io sono commosso», risponde Fiorani a Fazio, «io ti ringrazio... ti ringrazio... ho la pelle d’oca... io, guarda Tonino, ti darei un bacio sulla fronte, ma non posso farlo... so quanto hai sofferto... prenderei l’aereo e verrei da te in questo momento se potessi!».
Che il rapporto tra i due fosse stretto era noto, ma ora è dimostrato in diretta dai loro salamelecchi telefonici. Il 5 luglio, quando Abn Amro, povera ingenua, chiede una proroga alla scadenza della sua opa, Fazio dice a Fiorani: «Allora se tu vieni da me verso le 15, le 15.30, stiamo insieme un’ora, un’ora e mezza, ché... diciamo... voglio verificare un insieme di cose... L’unica cosa: passa come al solito, dal dietro... dietro di là». E Fiorani: «Sì, va bene... sennò sono problemi...».

Giornalismo kamikaze. Intermezzo comico. Il giorno del colpo di scena, esilarante editoriale sulla prima pagina del Giornale: «E se qualcuno fosse stato in pensiero, ora può stare tranquillo. Sulla storia delle banche siamo arrivati anche alle intercettazioni, naturalmente fatte filtrare ad arte fuori dai palazzi di giustizia». E ancora: «Lunedì “escono le intercettazioni”, cioè qualcuno decide che in quel giorno è il momento “giusto” per farle uscire». E di nuovo, ossessivamente: «Ci dovrebbero spiegare che bisogno c’era di fare uscire le intercettazioni...». Effettivamente le intercettazioni «sono uscite» martedì 26 luglio. Ma su un solo, unico quotidiano: il Giornale, per la firma di Gianluigi Nuzzi. Un caso di scoop suicida, di giornalismo kamikaze.
In più, l’editoriale del Giornale s’interroga: «Tra tutte le intercettazioni, fior da fiore, hanno beccato proprio quelle con il governatore della Banca d’Italia». Ma pensa un po’: quegli indiscreti dei magistrati hanno prestato attenzione alle telefonate di Fiorani ad Antonio Fazio, invece di quelle del banchiere al bar o alla zia.
Che poi siano finite proprio e solo sul Giornale, malgrado la procura avesse blindato le indagini per non farle trapelare (e con successo, a parte il Giornale), secondo i bene informati vuol dire che è scattata la «smagliatura Tremonti»: l’ex ministro delle Finanze, grande nemico di Fazio, ha ancora amici ai vertici della Guardia di finanza, che sta facendo le indagini per la procura di Milano, e ha amici anche al Giornale.
La novità (con buona pace del Giornale) è l’entrata del governatore sulla scena giudiziaria. Che nella vicenda delle scalate Fazio fosse fazioso e non arbitro imparziale era già noto e anche Diario l’aveva variamente, nelle settimane scorse, cercato di documentare. Questa storia, del resto, è piena di cose già scritte di cui nessuno vuole però prendere atto (scalatori mascherati, scalate a rischio crac, immobiliaristi dai soldi dubbi, regole dribblate, amnesie della sinistra, scambi di cortesie destra-sinistra...). Il fatto è che ora ci sono le prove in presa diretta dell’incredibile «concerto» tra Fiorani e Fazio.
Possibili conseguenze. Uno: il governatore vedrà presto il suo nome inserito tra gli indagati per reati finanziari, insieme a Fiorani, Ricucci e gli altri? Due: si dimetterà? In un Paese normale la risposta alla seconda domanda sarebbe sì, invece la Banca d’Italia ha subito emesso una nota in cui sostiene che tutto va bene e che le autorizzazioni concesse a Fiorani erano atti dovuti.
Del resto, chi mai chiederà seriamente le dimissioni del governatore? Neppure il centrosinistra, preoccupato che poi il nuovo numero uno della Banca d’Italia nasca sotto l’ombrello del governo Berlusconi. I Ds, in più, di Fazio hanno bisogno, per portare a compimento nei prossimi mesi la scalata della «rossa» Unipol su Bnl.

Rischio crac. Anche nei giorni precedenti il gran colpo di scena, ne sono successe di cose. 20 luglio, intervista di Massimo Mucchetti a Romano Prodi sul Corriere («I politici pensino alle regole, non agli affari», «Fazio non agisce da arbitro ma da parte in gioco», «Il capitalismo si ammala se le leggi rendono convenienti la speculazione e non la produzione e l’innovazione»). 21 luglio, intervista di Alberto Statera a Massimo D’Alema su Repubblica (con una conferma: «Ma sa che le dico? Nei confronti dell’Unipol c’è una campagna razzista»; e un aggiustamento di tiro: sulla scalata al «Corriere è giusto chiedere maggiore chiarezza»). 22 luglio, fallimento delle offerte pubbliche degli olandesi di Abn Amro su Antonveneta e dei baschi del Banco di Bilbao su Bnl. 23 luglio, scoperta che l’intervento dell’azionista romano Stefano Ricucci all’assemblea Antonveneta – potenza della Padania – era stato scritto a mano a Lodi, negli uffici di Fiorani: che «concerto» di idee!
Del resto, Fiorani è un banchiere creativo, che oltre a far comprare azioni sottobanco agli amici e ai misteriosi fondi gestiti alle Cayman da Luigi Enrico Colnago (sempre con soldi generosamente erogati dalla sua banca), ha saputo anche inventarsi un modo geniale per finanziare la sua pericolosa scalata al potere: realizza cessioni di quote di società controllate che in realtà sono onerosissimi prestiti mascherati. Un esempio lo ha raccontato Mario Gerevini sul Corriere. Fiorani ha «venduto» a Deutsche Bank il 10 per cento della Cassa di Bolzano, realizzando ben 183,4 milioni di euro. Bravo, no? Peccato che una quota identica, il 10 per cento della stessa banca bolzanina (anzi, un 10 per cento più prezioso, perché permetteva di arrivare al 58 per cento, cioè al controllo assoluto), fosse stata venduta esattamente un anno fa alla Bayerische Landsbank a soli 79,2 milioni.
Dunque, Fiorani è un mago capace di valorizzare del 120 per cento in un anno una sua partecipazione. Ma questo lo crede solo Fazio. Chi guarda le carte, più prosaicamente, è portato a pensare che Fiorani parcheggi pacchetti di azioni presso banche e finanziarie (Deutsche Bank, Dresdner, Earchimede di Chicco Gnutti) allettate da sostanziose commissioni. Con questo sistema porta a casa circa un miliardo di euro, da buttare nella scalata Antonveneta. Domani, dopo aver conquistato la banca di Padova, si dovrà riprendere le sue partecipazioni, che aveva venduto ma con l’elastico (un elastico che in finanza si chiama opzione call).
C’è un’incognita. Se non la conquista, l’Antonveneta, che cosa succederà di Fiorani? Dove troverà i soldi per ricomprare tutte le sue vendite con l’elastico? Queste sono operazioni a rischio crac. Oh, non ci venite a dire che siamo uccelli del malaugurio, quando ripetiamo che le società alle Cayman di Fiorani ricordano tanto le consociate andine dell’Ambrosiano di Roberto Calvi e che la nuova sigla della banca di Fiorani (Bpi, Banca popolare italiana) è la stessa di Sindona (Bpi, Banca privata italiana)...

Bicamerale della finanza. Come passerà le vacanze il governatore Fazio? Chissà. Ma non sembra che debba preoccuparsi troppo. Sembra blindato, a destra e a sinistra. E qui si apre l’altro capitolo, quello sull’altra scalata: Unipol alla conquista di Bnl, dopo il fallimento del Banco di Bilbao. Fazio ha già fatto capire che permetterà la conquista. Così ha portato dalla sua parte quella larga parte della dirigenza Ds (D’Alema e Fassino in testa) che tifa per Unipol e per dare una banca al mondo delle cooperative. Aspirazione legittima, anche se un po’ rischiosa dal punto di vista finanziario per la compagnia guidata da Giovanni Consorte e per le coop che l’hanno seguito.
Meno legittimo è che la politica tifi per uno schieramento finanziario e, in forza di ciò, abbassi il livello critico. Accettando Fiorani (e anche Ricucci, che in fondo «non c’ha la rogna») perché sia data via libera a Consorte. Sì, questa grande storia italiana, anzi europea, di banche e scalate e potere è fatta di vicende diverse (Antonveneta, Bnl, Rcs, Mediobanca...), ma ha una sua sostanziale unitarietà, una rete unica, anche se articolata, di protagonisti e comprimari, banchieri, finanzieri e politici, stretti attorno al governatore Fazio, che si crede il nuovo Cuccia. Per questo rischia di diventare una «Bicamerale della finanza» fatta di scambi e concessioni reciproche. Un grande accordo sotterraneo per ridisegnare il volto del (debole) capitalismo italiano. Tangentopoli, al confronto, è archeologia. Sembra averlo intuito Prodi, quando si mostra preoccupato che si stia aprendo una nuova stagione di commistioni tra politica e affari.
Ancora una volta, sono dovuti intervenire i magistrati per svelare i giochi sporchi. E qualcuno ha già cominciato a lamentarsi dell’invadenza dei giudici. Peccato che, prima di loro, nessuno di chi poteva parlare lo abbia fatto: né Bankitalia, né la politica. Tutti impegnati a tifare e tramare, invece che a regolare.

 

La Bicamerale della Finanza

Venerdì 29 Luglio 2005 01:00 Diario
Stampa PDF

29.07.2005 - Diario

La Bicamerale della Finanza



Colpo di scena, signore e signori, in questa grande storia italiana, anzi europea, di soldi, banche e potere che Diario vi sta raccontando da otto settimane: lunedì 25 luglio la procura di Milano ha ordinato il sequestro d’urgenza del 40 per cento delle azioni Antonveneta in mano agli scalatori (il Gianpiero Fiorani della Popolare di Lodi e altri sette suoi amiconi, tra cui il finanziere bresciano Chicco Gnutti e gli immobiliaristi romani Stefano Ricucci e Danilo Coppola).

I due ragazzi terribili della procura, Eugenio Fusco e Giulia Perrotti, hanno messo nero su bianco che «occorre prevenire ulteriori condotte criminose» e dunque hanno ordinato il sequestro senza neppure aspettare un provvedimento del giudice delle indagini preliminari. Anche perché per mercoledì 27 era prevista, in seconda convocazione, l’assemblea degli azionisti di Antonveneta e bisognava impedire che le quote rastrellate contro ogni regola da Fiorani e compagni fossero usate contro quei poveri illusi degli olandesi di Abn Amro che avevano fatto una regolare opa su Antonveneta credendo che in questo Paese le regole valessero per tutti.

Ma c’è un colpo di scena nel colpo di scena: nel decreto di sequestro delle azioni, ci sono alcuni edificanti esempi di colloqui telefonici tra Fiorani e il governatore di Bankitalia Antonio Fazio. Che a parlare con il banchiere di Lodi sia il governatore in persona è una bomba. Anche perché Fazio, secondo quanto risulta dalla sua stessa voce, non esita a chiamare nella notte l’amico Fiorani per annunciargli: «Ho appena messo la firma». Sono le 00.12 del 12 luglio e il governatore gli comunica che ha stracciato le conclusioni negative degli ispettori della Banca d’Italia e ha dato il suo via libera alla Popolare di Lodi che si lancia ufficialmente all’attacco di Antonveneta, dopo aver però già rastrellato in maniera occulta consistenti pacchetti di azioni. «Tonino, io sono commosso», risponde Fiorani a Fazio, «io ti ringrazio... ti ringrazio... ho la pelle d’oca... io, guarda Tonino, ti darei un bacio sulla fronte, ma non posso farlo... so quanto hai sofferto... prenderei l’aereo e verrei da te in questo momento se potessi!».

Che il rapporto tra i due fosse stretto era noto, ma ora è dimostrato in diretta dai loro salamelecchi telefonici. Il 5 luglio, quando Abn Amro, povera ingenua, chiede una proroga alla scadenza della sua opa, Fazio dice a Fiorani: «Allora se tu vieni da me verso le 15, le 15.30, stiamo insieme un’ora, un’ora e mezza, ché... diciamo... voglio verificare un insieme di cose... L’unica cosa: passa come al solito, dal dietro... dietro di là». E Fiorani: «Sì, va bene... sennò sono problemi...».

Giornalismo kamikaze. Intermezzo comico. Il giorno del colpo di scena, esilarante editoriale sulla prima pagina del Giornale: «E se qualcuno fosse stato in pensiero, ora può stare tranquillo. Sulla storia delle banche siamo arrivati anche alle intercettazioni, naturalmente fatte filtrare ad arte fuori dai palazzi di giustizia». E ancora: «Lunedì “escono le intercettazioni”, cioè qualcuno decide che in quel giorno è il momento “giusto” per farle uscire». E di nuovo, ossessivamente: «Ci dovrebbero spiegare che bisogno c’era di fare uscire le intercettazioni...». Effettivamente le intercettazioni «sono uscite» martedì 26 luglio. Ma su un solo, unico quotidiano: il Giornale, per la firma di Gianluigi Nuzzi. Un caso di scoop suicida, di giornalismo kamikaze.

In più, l’editoriale del Giornale s’interroga: «Tra tutte le intercettazioni, fior da fiore, hanno beccato proprio quelle con il governatore della Banca d’Italia». Ma pensa un po’: quegli indiscreti dei magistrati hanno prestato attenzione alle telefonate di Fiorani ad Antonio Fazio, invece di quelle del banchiere al bar o alla zia.

Che poi siano finite proprio e solo sul Giornale, malgrado la procura avesse blindato le indagini per non farle trapelare (e con successo, a parte il Giornale), secondo i bene informati vuol dire che è scattata la «smagliatura Tremonti»: l’ex ministro delle Finanze, grande nemico di Fazio, ha ancora amici ai vertici della Guardia di finanza, che sta facendo le indagini per la procura di Milano, e ha amici anche al Giornale.

La novità (con buona pace del Giornale) è l’entrata del governatore sulla scena giudiziaria. Che nella vicenda delle scalate Fazio fosse fazioso e non arbitro imparziale era già noto e anche Diario l’aveva variamente, nelle settimane scorse, cercato di documentare. Questa storia, del resto, è piena di cose già scritte di cui nessuno vuole però prendere atto (scalatori mascherati, scalate a rischio crac, immobiliaristi dai soldi dubbi, regole dribblate, amnesie della sinistra, scambi di cortesie destra-sinistra...). Il fatto è che ora ci sono le prove in presa diretta dell’incredibile «concerto» tra Fiorani e Fazio.

Possibili conseguenze. Uno: il governatore vedrà presto il suo nome inserito tra gli indagati per reati finanziari, insieme a Fiorani, Ricucci e gli altri? Due: si dimetterà? In un Paese normale la risposta alla seconda domanda sarebbe sì, invece la Banca d’Italia ha subito emesso una nota in cui sostiene che tutto va bene e che le autorizzazioni concesse a Fiorani erano atti dovuti.

Del resto, chi mai chiederà seriamente le dimissioni del governatore? Neppure il centrosinistra, preoccupato che poi il nuovo numero uno della Banca d’Italia nasca sotto l’ombrello del governo Berlusconi. I Ds, in più, di Fazio hanno bisogno, per portare a compimento nei prossimi mesi la scalata della «rossa» Unipol su Bnl.

Rischio crac.
Anche nei giorni precedenti il gran colpo di scena, ne sono successe di cose.
20 luglio, intervista di Massimo Mucchetti a Romano Prodi sul Corriere («I politici pensino alle regole, non agli affari», «Fazio non agisce da arbitro ma da parte in gioco», «Il capitalismo si ammala se le leggi rendono convenienti la speculazione e non la produzione e l’innovazione»).
21 luglio, intervista di Alberto Statera a Massimo D’Alema su Repubblica (con una conferma: «Ma sa che le dico? Nei confronti dell’Unipol c’è una campagna razzista»; e un aggiustamento di tiro: sulla scalata al «Corriere è giusto chiedere maggiore chiarezza»).
22 luglio, fallimento delle offerte pubbliche degli olandesi di Abn Amro su Antonveneta e dei baschi del Banco di Bilbao su Bnl. 23 luglio, scoperta che l’intervento dell’azionista romano Stefano Ricucci all’assemblea Antonveneta – potenza della Padania – era stato scritto a mano a Lodi, negli uffici di Fiorani: che «concerto» di idee!

Del resto, Fiorani è un banchiere creativo, che oltre a far comprare azioni sottobanco agli amici e ai misteriosi fondi gestiti alle Cayman da Luigi Enrico Colnago (sempre con soldi generosamente erogati dalla sua banca), ha saputo anche inventarsi un modo geniale per finanziare la sua pericolosa scalata al potere: realizza cessioni di quote di società controllate che in realtà sono onerosissimi prestiti mascherati.

Un esempio lo ha raccontato Mario Gerevini sul Corriere. Fiorani ha «venduto» a Deutsche Bank il 10 per cento della Cassa di Bolzano, realizzando ben 183,4 milioni di euro. Bravo, no? Peccato che una quota identica, il 10 per cento della stessa banca bolzanina (anzi, un 10 per cento più prezioso, perché permetteva di arrivare al 58 per cento, cioè al controllo assoluto), fosse stata venduta esattamente un anno fa alla Bayerische Landsbank a soli 79,2 milioni.

Dunque, Fiorani è un mago capace di valorizzare del 120 per cento in un anno una sua partecipazione. Ma questo lo crede solo Fazio. Chi guarda le carte, più prosaicamente, è portato a pensare che Fiorani parcheggi pacchetti di azioni presso banche e finanziarie (Deutsche Bank, Dresdner, Earchimede di Chicco Gnutti) allettate da sostanziose commissioni. Con questo sistema porta a casa circa un miliardo di euro, da buttare nella scalata Antonveneta. Domani, dopo aver conquistato la banca di Padova, si dovrà riprendere le sue partecipazioni, che aveva venduto ma con l’elastico (un elastico che in finanza si chiama opzione call).

C’è un’incognita. Se non la conquista, l’Antonveneta, che cosa succederà di Fiorani? Dove troverà i soldi per ricomprare tutte le sue vendite con l’elastico? Queste sono operazioni a rischio crac. Oh, non ci venite a dire che siamo uccelli del malaugurio, quando ripetiamo che le società alle Cayman di Fiorani ricordano tanto le consociate andine dell’Ambrosiano di Roberto Calvi e che la nuova sigla della banca di Fiorani (Bpi, Banca popolare italiana) è la stessa di Sindona (Bpi, Banca privata italiana)...

Bicamerale della finanza
. Come passerà le vacanze il governatore Fazio? Chissà. Ma non sembra che debba preoccuparsi troppo. Sembra blindato, a destra e a sinistra. E qui si apre l’altro capitolo, quello sull’altra scalata: Unipol alla conquista di Bnl, dopo il fallimento del Banco di Bilbao. Fazio ha già fatto capire che permetterà la conquista. Così ha portato dalla sua parte quella larga parte della dirigenza Ds (D’Alema e Fassino in testa) che tifa per Unipol e per dare una banca al mondo delle cooperative. Aspirazione legittima, anche se un po’ rischiosa dal punto di vista finanziario per la compagnia guidata da Giovanni Consorte e per le coop che l’hanno seguito.

Meno legittimo è che la politica tifi per uno schieramento finanziario e, in forza di ciò, abbassi il livello critico. Accettando Fiorani (e anche Ricucci, che in fondo «non c’ha la rogna») perché sia data via libera a Consorte. Sì, questa grande storia italiana, anzi europea, di banche e scalate e potere è fatta di vicende diverse (Antonveneta, Bnl, Rcs, Mediobanca...), ma ha una sua sostanziale unitarietà, una rete unica, anche se articolata, di protagonisti e comprimari, banchieri, finanzieri e politici, stretti attorno al governatore Fazio, che si crede il nuovo Cuccia.

Per questo rischia di diventare una «Bicamerale della finanza» fatta di scambi e concessioni reciproche. Un grande accordo sotterraneo per ridisegnare il volto del (debole) capitalismo italiano. Tangentopoli, al confronto, è archeologia. Sembra averlo intuito Prodi, quando si mostra preoccupato che si stia aprendo una nuova stagione di commistioni tra politica e affari.

Ancora una volta, sono dovuti intervenire i magistrati per svelare i giochi sporchi. E qualcuno ha già cominciato a lamentarsi dell’invadenza dei giudici. Peccato che, prima di loro, nessuno di chi poteva parlare lo abbia fatto: né Bankitalia, né la politica. Tutti impegnati a tifare e tramare, invece che a regolare.


E il finanziere rosso disse: «Ho già capito!»

Dalle intercettazioni telefoniche esce un quadro raccappricciante dei rapporti tra l'arbitro (Fazio) e i giocatori (Fiorani, Ricucci e compagni), ma anche tra il banchiere che piace tanto alla Lega (Fiorani) e il boss della finanza rossa (Consorte). In una telefonata del 29 giugno tra Consorte e Fiorani c'Ë, secondo i magistrati di Milano, la prova che Fiorani abbia inscenato false cessioni di quote d'aziende controllate dalla sua banca: servono per fare cassa e rientrare nei parametri finanziari minimi richiesti alle banche. In realtý sono finte vendite o vendite con l'elastico, trucchi per ottenere prestiti.

Il trucco pi˜ smaccato, lo snodo cruciale, Ë la "vendita" di quote alla Earchimede: una societý controllata (al 49 per cento) da Chicco Gnutti e che ha tra i soci la stessa banca di Fiorani (11,92 per cento) e anche Consorte (attraverso Unipol Merchant e Aurora Assicurazioni, Consorte controlla il 14 per cento di Earchimede). Ebbene, nella telefonata del 29 giugno, Fiorani chiede a Consorte di intervenire presso i «suoi» uomini in Earchimede per far passare la delibera utile alla Popolare di Lodi.
Fiorani: «Oggi c'è un consiglio Earchimede e tu hai un tuo consigliere dentro e anche un sindaco».
Consorte: «Certo».
Fiorani: «Loro deliberano diciamo temporaneamente con T maiuscola dell'acquisto di pìartecipazioni nostre che sono Ducato (...) e, aspetta... Efibanca».
Fiorani: «E vengono deliberate con lo scopo di fare un'operazione diciamo così... di...».
Consorte: «Ho già capito!».

La «talpa» a palazzo di Giustizia

Consorte è anche l'interlocutore rassicurato dalla "talpa" di palazzo di Giustizia. Era infatti in contatto con il giudice Francesco Castellano (quello che ha "prescritto" Berlusconi nel processo Sme): più di quindici telefonate tra i due, dal 5 luglio fino al 25 del mese. Secondo quello che poi Consorte diceva agli altri suoi interlocutori, Castellano lo avrebbe rassicurato: state tranquilli, il giudice interviene lui sui magistrati di Roma.

Fassino, Consorte e il governatore

«Dobbiamo stare attenti a non indebolire l'istituzione Bankitalia», dichiara Fassino il 27 luglio. Ma l'istituzione è indebolita dal governatore con i suoi comportamenti, non da chi eventualmente chiedesse la sue dimissioni. Invece la sinistra è cauta. Dai vertici Ds un silenzio assordante per due giorni. Poi la soffice dichiarazione di Fassino, di ritorno dalla Turchia. Da D'Alema, per ora, neanche un soffio. Bersani: «Non possiamo aprire adesso il tormentone estivo "Fazio sì, Fazio no", in questo modo si va allo sfascio».

 

«Compagno Ricucci» e Consorte

Venerdì 22 Luglio 2005 01:00 Diario
Stampa PDF

22.07.2005 - Diario

«Compagno Ricucci» e Consorte

Che scandalo per quel «Compagno Ricucci» sparato sulla copertina di Diario sei settimane fa. Proteste, scuotimenti di teste, sorrisi di sufficienza. Per dire cose simili, aveva dichiarato Massimo D’Alema, bisogna essere «stupidi o mascalzoni». Ora che è partito l’assalto di Unipol a Bnl, quel «Compagno Ricucci» – che semplicemente poneva sul tappeto in modo giornalistico il problema della «finanza rossa» e dei suoi strani alleati – ha una sua consacrazione dai fatti.

In queste sei settimane abbiamo avuto ripetute dichiarazioni di Massimo D’Alema, Piero Fassino, Pierluigi Bersani e altri esponenti Ds in difesa degli immobiliaristi, tanto costruire automobili vale quanto vendere case e poi Ricucci «non c’ha la rogna». Qualcuno, saggiamente, ha ribattuto che il capitalismo non sarà questione di pedigree, ma di trasparenza sì. Inascoltato, mentre la Consob e almeno tre Procure (Roma, Milano, Brescia) indagano proprio sulla scarsa trasparenza di Ricucci e compagni. Ma che importa? «È tanto nobile costruire automobili o essere concessionario di telefonia, quanto operare nel settore finanziario o immobiliare», dice Fassino senza fare un plissé.

Così, sdoganata politicamente la «rude razza romana», alleata a geometria variabile con i «capitani coraggiosi» che tanto piacevano a D’Alema fin dai tempi della scalata Telecom e con i «banchieri padani» stile Gianpiero Fiorani, ora la «finanza rossa» passa in prima linea e punta direttamente su Bnl. Con una operazione che galvanizza una parte della sinistra e del mondo cooperativo, ma che potrebbe essere il primo mattone di una Torre di Babele.

Adesso chi continuava a chiedersi chi c’è dietro a Ricucci e chi gli ha dato i soldi, avrà finalmente una risposta: «La finanza rossa», dice sorridendo un banchiere, indicando i 210 milioni di euro che saranno versati a Ricucci da Unipol. La compagnia assicurativa guidata da Giovanni Consorte, infatti, pagherà complessivamente 1,2 miliardi di euro per il 27,5 per cento di azioni Bnl nelle mani del cosiddetto «contropatto degli immobiliaristi». Così Ricucci, Francesco Gaetano Caltagirone, Giuseppe Statuto, Danilo Coppola, Vito Bonsignore e compagni di scalata avranno carburante per nuove avventure: l’assalto a Rcs? a Mediobanca? a Generali?

Se Ricucci ora conquisterà il Corriere, magari – chissà – per offrirlo a Berlusconi, sarà chiaro da quale Bicamerale sotterranea della finanza sarà nata la spartizione delle spoglie degli ex salotti buoni del capitalismo italiano in declino. Ma questa è fantascienza, delirio complottista.

Più concreto è il meccanismo da cui l’assalto Unipol-Bnl nasce. C’è un’uguaglianza asimmetrica, nell’operazione. Gli azionisti sono tutti uguali – come dice Fassino – quando si tratta di legittimare oscuri speculatori con soldi tirati fuori da chissà dove. Non sono tutti uguali quando invece si tratta di pagare: ci sono gli azionisti normali e gli azionisti furbi (quelli del «contropatto»), ricompensati con plusvalenze da favola. Tanto le scalate, in Italia, non si fanno con le regole, ma con manovre di palazzo.

Come l’altra scalata, quella all’Antonveneta lanciata da Gianpiero Fiorani e dalla sua Popolare di Lodi diventata Banca popolare italiana (Bpi, la stessa sigla – guarda gli scherzi del destino – della Banca privata italiana di Michele Sindona). Fiorani trova i soldi per andare alla conquista dell’istituto padovano con cessioni che sembrano tanto prestiti travestiti. E con il parere negativo dei tecnici di Bankitalia (per assenza dei requisiti patrimoniali), superato d’imperio dal governatore Antonio Fazio.

L’Europa ci guarda e allibisce. Saranno anche stranieri, gli olandesi dell’Abn-Amro e gli spagnoli del Banco di Bilbao, ma avevano fatto offerte pubbliche chiare e trasparenti, per Antonveneta e per Bnl, secondo le regole che sembravano vigenti in Italia. Ora si sono accorti che le regole non sono uguali per tutti. Che in Italia è possibile fare scalate a debito, con cordate occulte, mentendo spudoratamente alle autorità di controllo e al mercato, potendo contare per di più sul sostegno di quello che dovrebbe essere l’arbitro (e cioè il governatore di Bankitalia). Se il colpo riesce, i vincitori faranno pagare alle prede i costi della stangata.

Gli uomini nuovi della finanza italiana fanno così, così si muovono i Fiorani, i Consorte, i Ricucci, a cui piace il palcoscenico e lo show più che i conti e i bilanci. Tanto per fare un esempio, Mario Gerevini spiega sul Corriere economia che il primo azionista della Popolare di Lodi (con il 4,1 per cento) è il fondo Victoria&Eagle, domiciliato alle Cayman. Chi c’è dietro? La stessa Popolare di Lodi, che ci ha investito 153,5 milioni di euro: giochetti simili non li faceva un certo Roberto Calvi, nelle sue filiali andine? Eppure i vertici del maggior partito della sinistra italiana non vedono nulla di strano in questa corsa senza regole a costruire il nuovo capitalismo nel Paese rimasto senza un Enrico Cuccia e in pieno declino industriale.

In questo quadro, perfino Marco Follini, segretario dell’Udc, riesce a dire una cosa saggia, replicando sul Sole 24 ore a Piero Fassino: «Credo che ci sia un certo eccesso di zelo in una cultura politica che ha scoperto il mercato in tarda età e ha finito qualche volta per farsi affascinare dai suoi aspetti più ambigui e tortuosi». Ma Consorte esulta, il mondo cooperativo è in tripudio, la sinistra è felice e si appresta così a entrare in campagna elettorale contro il partito-azienda di Silvio Berlusconi.

 

 

Siena, Ds contro i Ds

Venerdì 15 Luglio 2005 01:00 Diario
Stampa PDF

15.07.2005 - Diario

Siena, Ds contro i Ds


Questa settimana si scopre che Stefano Ricucci, lo scalatore di Rcs, piace anche al segretario Ds Piero Fassino, che il 7 luglio dichiara al Sole 24 ore: «Non c’è un’attività imprenditoriale che sia pregiudizialmente migliore o peggiore di un’altra. (...) È tanto nobile costruire automobili o essere concessionario di telefonia, quanto operare nel settore finanziario o immobiliare».

Gli risponde Andrea Pininfarina, vicepresidente della Confindustria: «Non mi pare il caso di mettere sullo stesso piano, dal punto di vista dello sviluppo di tutto il Paese, chi fa impresa e chi di mestiere fa il raider finanziario». Il 12 luglio dice la sua anche Mario Baccini, Udc, ministro della Funzione pubblica: «Più industria, meno finanza», chiede in sostanza, affermando che quelli di Ricucci sono affari che sembrano «catene di Sant’Antonio, che non producono ricchezza».

Mentre Ricucci (sposo il 9 luglio) è sotto indagine penale e la sua trasparenza è vicina allo zero, Fassino sembra non vedere il problema: «Spetta a Consob, Antitrust, Autorità delle comunicazioni, Vigilanza della Banca d’Italia garantire le regole, non a me», dice il segretario Ds. Che concede la sua benedizione anche alla rischiosa scalata di Unipol su Bnl. «Se le cooperative crescono, a me fa piacere», aggiunge Fassino.

Per conquistare Bnl, Giovanni Consorte, numero uno di Unipol, tratta con gli immobiliaristi del contropatto, che controllano il 27,5 per cento della banca romana. Trattativa che si dimostra più lunga e complicata del previsto. Consorte deve trovare i soldi, 2-2,5 miliardi di euro per un aumento di capitale, e realizzare cessioni che non intacchino i ratios della compagnia. Poi deve ottenere i via libera delle autorità di controllo. E il tempo stringe: il 22 luglio terminerà l’opa su Bnl degli spagnoli di Bbva.

Sul fronte della scalata Antonveneta, gli olandesi di Abn Amro ottengono una proroga della loro opa tutta in contanti fino al 22 luglio. Un comunicato di Bankitalia il 5 luglio difende il suo direttore centrale della Vigilanza, Francesco Frasca, indagato per non aver vigilato sulla scalata sotterranea della Popolare di Lodi. Un comunicato non era stato stilato neppure quando la procura di Trani aveva indagato il governatore Antonio Fazio in persona, per il collocamento di prodotti MyWay e 4You.

Indagati dalla procura di Roma anche Giovanni Benevento e Gianpiero Fiorani (presidente e amministratore delegato della Popolare di Lodi, ora Bpi) per ostacolo all’attività di vigilanza. Bankitalia non ha ancora dato il via libera all’opas di Fiorani su Antonveneta. Gli analisti moltiplicano le domande sul modo con cui Fiorani ha ricostruito il patrimonio primario della sua banca, ipotizzando che le dismissioni (per 1,08 miliardi) siano prestiti mascherati.

Nel frattempo al Monte dei Paschi (Mps) arriva una doppia condanna, dal tribunale di Firenze e da quello di Brindisi, per mancata trasparenza proprio sui prodotti finanziari MyWay e 4You dei tempi della Banca 121 di Vincenzo De Bustis, oggi alla Deutsche Bank Italia. Mps questa volta sta fuori dalla partita, non sostiene Consorte e critica Fassino. «Il Monte con Bnl», dichiara il sindaco di Siena Maurizio Cenni, «sarebbe stato una banca che per tre, quattro anni non avrebbe prodotto reddito». E Giuseppe Mussari, presidente della Fondazione Montepaschi, dichiara, dubbioso, al Mondo: «Il punto è capire se i capitali che sono derivati legittimamente dalla bolla immobiliare si tradurranno poi in iniziative imprenditoriali vere, capaci di produrre ricchezza nuova e reale».

 

Continua... il "Diario delle Scalate"

Venerdì 08 Luglio 2005 01:00 Diario
Stampa PDF
08.07.2005 - Diario

Continua... il "Diario delle Scalate"

Assalto a Rcs.
Altalena del titolo in Borsa (-4 per cento il 28 giugno). Ma Stefano Ricucci non vende. Ormai è al 20,1 per cento e il 1 luglio respinge la richiesta della Consob di comunicare le variazioni di quota anche solo dell’1 per cento. Sul fronte politico, incassa il sostegno anche della Lega (dopo quello di Berlusconi). Roberto Maroni infatti il 28 giugno dichiara: «Ricucci mi ha ispirato un’istintiva simpatia perché è stato duramente attaccato da chi ha spazio sui mezzi d’informazione, come è capitato a noi della Lega». Massimo D’Alema, che già aveva sdoganato Ricucci sostenendo nella sostanza che il capitalismo non è questione di pedigree, il 2 luglio se la cava con una battuta sulla (risaputa) debolezza del capitalismo italiano: «Se degli oscuri immobiliaristi, dietro ai quali si è finalmente appurato che non ci sono io, spaventano i salotti buoni del capitalismo italiano, evidentemente c’è una fragilità di quegli assetti proprietari che non ha uguali al mondo». Vittorio Merloni, invece, rimette al centro la vera questione del capitalismo, quella della trasparenza: «Ricucci è un mistero. Quanto meno, si può dire che il suo percorso non è tracciabile».

Assalto ad Antonveneta. Prosegue la scalata della Banca popolare italiana (Bpi, ex Lodi) di Gianpiero Fiorani ad Antonveneta. I conti (e i ratios patrimoniali) di Bpi sono fatti quadrare con finanza creativa: prestiti mascherati da cessioni di quote di controllate. Bankitalia non vede, non sente, non parla. Il 28 giugno i magistrati di Milano Eugenio Fusco e Giulia Perrotti chiedono il sequestro di 110 milioni di euro, considerati illecito profitto di 18 correntisti della Popolare di Lodi per compravendita di titoli Antonveneta. Lo stesso giorno la Consob dà il via libera all’opas di Lodi a 27,5 euro (di cui solo 4,9 in contanti), dopo averla bloccata per quattro volte (perché non migliorativa dell’opa a 26,5 euro tutta contanti di Abm Amro). Il 1 luglio Francesco Greco interroga alla procura di Milano (che lavora su ben 40 indagati) il finanziere italosvizzero Luigi Colnago (già oggetto di due articoli di Diario). Ma la bomba arriva il 4 luglio: tre funzionari di Bankitalia sono indagati dalla procura di Roma, per aver controllato poco e male la scalata di Fiorani.

Finanza rossa. Il numero uno di Unipol, Giovanni Consorte, va all’attacco di Bnl, malgrado i rischi per la sua compagnia assicurativa: Bnl costa il triplo del valore di Unipol, disavanzo e indebitamento alla fine sarebbero enormi, la logica industriale enunciata (la conquista di Bnl vita) sarebbe modesta nei risultati finanziari. Consorte (con il suo 15 per cento in Bnl) cerca un’intesa con Ricucci e il fronte degli immobiliaristi (che hanno il 27 per cento). Intanto a Siena scontro sulle fondazioni. La commissione Finanze del Senato vota – il 23 giugno, lo stesso giorno in cui il Monte dei Paschi (Mps) abbandona Unipol nell’assalto a Bnl – un emendamento al disegno di legge sul risparmio che sterilizza al 30 per cento il diritto di voto delle fondazioni bancarie nelle assemblee delle banche. Un provvedimento su misura per Mps: il suo 49 per cento è nelle mani della Fondazione Montepaschi guidata da Giuseppe Mussari. Con le nuove regole la Fondazione «pesa» solo il 30 per cento. Divisione, a sorpresa, tra i Ds: votano tutti contro, tranne due dalemiani, Massimo Bonavita e Nicola Latorre, che si astengono. Quest’ultimo, ex segretario di D’Alema, spiazzando anche Piero Fassino, dichiara: «Le Fondazioni sono il simbolo della conservazione». Voci sul possibile ritorno a Siena di Vincenzo De Bustis (considerato dalemiano, ex numero uno di Mps e ora di Deutsche Bank Italia, istituto che da Londra è il grande finanziatore di Ricucci): Montepaschi sarebbe una buona preda per la banca tedesca.
Intanto la Consob il 24 giugno commina una maximulta a 40 manager bancari (tra cui De Bustis) per non essersi «comportati con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei clienti»: avevano venduto, attraverso Banca 121 e poi Mps, prodotti bancari «strutturati» e complessi, mascherati sotto nomi rassicuranti (MyWay, 4You, Btp-tel, Btp-index, Btp-on line...).
 

Se il Biscione mangia il Leone

Venerdì 24 Giugno 2005 01:00 Diario
Stampa PDF

24.06.2005 - Diario

Se il Biscione mangia il Leone


Ricucci apre la strada, poi arriverà uno con soldi e strategia.
La profezia di Ubaldo Livolsi, uomo di Silvio



Un grande banchiere del Nord dice a Diario: «Se perde le elezioni e torna a occuparsi dei suoi affari a tempo pieno, ne vedremo delle belle. Quello ha i soldi e le capacità per comprarsi l’Italia». Quello è Silvio Berlusconi. E l’alternativa che si apre, di qui a un anno, è secca. O vince le elezioni e governa l’Italia, trasformando profondamente (in peggio) le regole della democrazia e mettendo in salvo per sempre i beni per le sue famiglie. Oppure le elezioni le perde, e allora si scatena: il capitalismo italiano è a una svolta, i vecchi poteri non tengono più, gli ex salotti buoni (da Rcs a Mediobanca, fino a Generali) sono sotto attacco e non potranno resistere a lungo, se agli immobiliaristi della rude razza romana si unirà chi ha soldi, strategia e alleanze per far saltare il banco.

Berlusconi ci aveva già provato, a entrare nel cuore del capitalismo italiano. Come ha ricordato Alberto Statera, nel 1979 tentò di mettere sul piatto una trentina di miliardi di lire per comprare un 3-4 per cento di Generali ed entrare nel consiglio d’amministrazione. Gli rispose, per iscritto, Cesare Merzagora: no grazie, noi del Leone di Trieste non vogliamo palazzinari. Da allora il Biscione è sempre stato tenuto fuori dai circoli della grande finanza del Nord. L’unico pezzo d’Italia che Berlusconi non è ancora riuscito a conquistare.

Ora i giochi si sono riaperti e il Biscione potrebbe saldare vecchi conti in sospeso. Ad avviare le danze sono stati i nuovi outsider. Il Gianpiero Fiorani di Lodi, di professione banchiere creativo, che per assaltare Bnl e Antonveneta mette a rischio la sua Bipielle e poi chiede i soldi ai clienti, offrendo warrant e abbonamenti al Touring club. E il Chicco Gnutti di Brescia, «capitano coraggioso» dell’assalto a Telecom. E il Giovanni Consorte di Unipol, banchiere rosso vicino a Massimo D’Alema. E, per finire in gloria, Stefano Ricucci detto Gastone, ex odontotecnico che si spacciava per dentista e ora si spaccia per finanziere alla conquista del Corriere (e in tanti, anche a sinistra, gli danno credito).

Di una compagnia così male assortita non ci sarebbe bisogno di preoccuparsi, se non fosse che i salotti buoni oggi sono così malmessi che qualunque Ezechiele lupo, con il suo soffio, può riuscire a far crollare la casa.

Ci aveva tentato un certo Michele Sindona, con i soldi del Vaticano e di Cosa nostra, ed era stato respinto da Enrico Cuccia. Appena in tempo: finì in bancarotta, con una condanna per omicidio (del commissario liquidatore delle banche sindoniane, Giorgio Ambrosoli) e una dose di stricnina nel caffè (aveva scelto partner d’affari molto severi, inflessibili).

Aveva scalato la finanza italiana anche il ragionier Roberto Calvi, successore di Sindona in certi riciclaggi di soldi a rischio: finì anch’esso in bancarotta, terrorizzato e in fuga, infine appeso a un ponte sul Tamigi con qualche mattone in tasca.

Ci riusciranno ora, e senza le precedenti disavventure, Ricucci, Fiorani e appendice rossa? Riusciranno a nobilitare se stessi e a cambiare volto al capitalismo italiano? Certo quel che non si vede all’orizzonte è uno straccio di progetto strategico, che strappi questo Paese al destino di declino dell’industria. L’Italia sembra avviata a diventare il campo in cui scorrazzano vecchi e nuovi finanzieri, producendo ricchezza per sé ma non valore per il Paese. In questo quadro, Berlusconi, una volta che la razza mattona avrà fatto da ariete, rinuncerà a raccogliere i risultati, buttando alla fine sul piatto gli unici soldi veri di tutta questa storia? Il Biscione, questa volta, potrebbe mangiarsi il Leone. E non ci sarà alcun Cuccia a mediare, alcun Merzagora a bloccare.

Che Silvio potrebbe essere della partita è annunciato da più d’un segnale. Il più lampante? L’intervista di Aldo Livolsi al Sole 24 ore, il 21 giugno, che decreta la fine dello status quo, quello delle grandi famiglie ormai tramontate e delle banche arroccate a difendere un mondo che non c’è più; e annuncia l’arrivo di una radiosa era nuova per il capitalismo italiano. Si presentano sulla scena «nuovi attori»: Ricucci, certamente (di cui Livolsi è advisor). E poi?

Livolsi lo spiega in una frase: «Ricucci può inizialmente essere l’uomo che apporta i primi capitali, che dà una scossa per valorizzare gli asset non pienamente sfruttati, per poi essere affiancato da uno o più soci-industriali capaci di portare contenuti e strategie di business». Chiaro? Ricucci sfonda, poi arriva lo stratega. Detto da Livolsi, ex manager di Berlusconi che ancora siede nel consiglio d’amministrazione di Fininvest, sembra un piano d’attacco.

Se a questo si aggiunge la possibilità che gli acquisti di azioni Generali delle ultime settimane siano manovrate da Tarak ben Ammar, imprenditore televisivo franco-tunisino che già in passato ha reso preziosi servigi a Berlusconi, il quadro è completo. Tarak ha smentito. Ma le scalate riuscite sono quelle in cui il cavaliere (bianco o nero?) si palesa solo alla fine.

Berlusconi, poi, avrebbe qualche problema perfino in Italia a dire ora in pubblico che lui, padrone della politica e della tv, di Mediolanum e della Mondadori, punta a scardinare gli equilibri di chi lo aveva respinto, a conquistare il maggior quotidiano italiano e una delle compagnie d’assicurazioni più grandi d’Europa.
Meglio aspettare le elezioni, poi si vedrà. Il Leone dorme, il Biscione ha appetito.



Dopo l’intervista del 21 giugno sul Sole 24 ore al finanziere ex Fininvest Ubaldo Livolsi («Ricucci può inizialmente essere l’uomo che apporta i primi capitali... per poi essere affiancato da uno o più soci-industriali capaci di portare contenuti e strategie di business»), Silvio Berlusconi in persona – come evocato dal nulla – ha detto la sua: non ho alcun contatto con Stefano Ricucci, escludo ogni relazione «con il mio gruppo» (ma il presidente del Consiglio non aveva risolto il conflitto d’interessi?); però lo difendo perché «dà fastidio ai cosiddetti poteri forti». Quanto alle domande sulle origini dei soldi di Ricucci, Berlusconi dice di «non essere in sintonia con le critiche» (figurarsi, non ha ancora risposto sui soldi suoi!).

Stesso giorno (23 giugno), stessa simpatia: anche a Piero Fassino, segretario dei Ds, Ricucci piace: «incomprensibile la puzza sotto il naso» che circonda i palazzinari, dichiara a Sky Tg24. Intanto Ricucci e la sua holding Magiste (come anche Chicco Gnutti e la sua Fingruppo) sono indagati dalla procura di Milano per aggiotaggio. Ma la notizia non sembra sfiorare Berlusconi né impressionare Fassino. Non una parola sul rispetto delle regole e sulla trasparenza. Ricucci è difeso (sul Corriere del 22 giugno) anche da veri esperti del ramo, come l’ex latitante Romano Comincioli e l’indagato per bancarotta Paolo Romani. Con questi chiari di luna, la difesa delle regole se l’assume il leader di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo: «Quando in Italia negli anni passati si sono verificati fenomeni di cui non si sapeva bene l’origine, o sono spuntati capitali ingenti dalla provenienza misteriosa, spesso ci siamo trovati di fronte a delle sorprese...».

Intanto, sul fronte Antonveneta, Gianpiero Fiorani (anch’egli indagato per vari reati finanziari) cambia logo alla sua banca (da Popolare di Lodi a Banca popolare italiana), incurante del fatto che le nuove iniziali ricordino la tristemente famosa Banca privata italiana di Michele Sindona. I conti del suo istituto sotto sforzo per acquisti e scalate restano a rischio, dicono gli analisti, e dipenderanno dal successo delle operazioni d’aumento di capitale.

Per quanto riguarda la «finanza rossa», il Monte dei Paschi di Pier Luigi Fabrizi ha diviso chiaramente le sue sorti da quelle del finanziere creativo di Unipol Giovanni Consorte, impegnatissimo nelle scalate Bnl e Antonveneta (e anch’egli sotto osservazione delle procure di Milano e Roma). Anche una parte del mondo cooperativo – dal toscano Turiddu Campaini al lombardo Silvano Ambrosetti – critica Consorte per le «cattive compagnie» con cui fa affari (Fiorani, Gnutti, Ricucci, Fininvest...).

Sotto attacco (da entità ancora senza nome) anche Mediobanca e Generali. Da rifare la gara per le case Enasarco. (gb)


 

"Sì, i lanzichenecchi ci piacciono"

Venerdì 17 Giugno 2005 01:00 Diario
Stampa PDF

17.06.2005 - Diario

"Sì, i lanzichenecchi ci piacciono"

"Diario" ha posto un problema: i rapporti tra la composita compagnia degli scalatori e la "finanza rossa". Sono arrivate smentite. Ma anche una conferma: gli outsider non sono peggio degli altri. Ricucci "non ha la rogna". Intanto giungono nuove informazioni sullo scalatore del "Corriere". E Berlusconi...

Compagno Ricucci?
Nel numero scorso, "Diario"
ha allineato gli indizi sul campo,
nel tentativo di comprendere
la scalata Rcs, un giallo con troppi indiziati. Nell’ultima settimana, sono arrivati commenti, smentite, conferme, arricchimenti, nuove scoperte... Ma, come nei gialli,
è capitato che alcuni indiziati, sentendosi gli occhi addosso, abbiano fatto un passo falso: hanno dichiarato di amare
gli outsider, i lanzichenecchi,
la rude razza romana. Intanto
si rafforza un’altra pista indicata da "Diario", quella che fa capo
a un ricco imprenditore italiano,
forte anche in politica, con fedeli alleati Oltralpe.



Nei gialli capita che gli indiziati, sentendosi gli occhi addosso, facciano un passo falso. Chissà se è quello che è successo a proposito del grande assalto alla finanza italiana raccontato nel numero scorso da Diario. Volevamo capire e illustrare i movimenti in corso su Rcs, Bnl, Antonveneta, Mediobanca, Fiat, Generali... Poiché sono movimenti in gran parte sotterranei, per niente trasparenti, con soldi che non si sa da dove vengono e protagonisti che non mostrano il loro volto, Diario ha scelto di allineare indizi. Ha raccontato diverse piste, tra cui la "pista Berlusconi" e la "pista rossa" (in copertina si leggeva: "Compagno Ricucci").

La reazione di Massimo D’Alema e degli uomini a lui vicini è stata inaspettata. Ci si poteva immaginare una secca smentita, accompagnata da un elogio della trasparenza e del mercato. La prima c’è stata, il secondo no. Anzi. "Non conosco nessuno di quei personaggi che si citano. Io questo Ricucci non so neanche chi sia", dichiara D’Alema il 10 giugno 2005 all’Unità. C’è da credergli. Ma poi aggiunge: "Certe campagne si concludono perché, immagino, si vogliono tutelare degli interessi specifici, di persone che ritengono che i loro interessi personali sono una nobile battaglia in difesa degli interessi del mercato, mentre gli interessi degli altri sono un ignobile complotto dietro cui si cela un qualche Belzebù". Dunque gli assalti finanziari in atto sono invece, per D’Alema, un corretto scontro di mercato a cui assistere con distacco, tanto una parte vale l’altra, e vinca il migliore.

Claudio Velardi, che fu il braccio destro di D’Alema a Palazzo Chigi (anche se oggi, civettando un po’, si definisce un "disilluso del dalemismo"), parla ancora più chiaro. L’11 giugno sul Corriere della sera ammette che sì, D’Alema quando era presidente del Consiglio avrebbe fatto meglio a stare zitto, a non dire in pubblico ciò che pensava dei protagonisti dell’opa su Telecom ("Avrebbe dovuto risparmiarsi quella frase sui capitani coraggiosi"). Ma poi gli scappa che cosa pensa, oggi, dei nuovi capitani coraggiosi, della rude razza romana degli immobiliaristi d’assalto: "Effettivamente Caltagirone è un grande imprenditore. Ma Ricucci cos’ha, la rogna?".

Ce ne vorrebbero di più.
Il giornale di cui Velardi è editore, il Riformista, è più esplicito e afferma (nell’editoriale del 7 giugno) che "gli outsider, i lanzichenecchi, gli immobiliaristi, i redditieri" non sono un problema per il capitalismo italiano. Anzi, ce ne vorrebbero di più. "Il problema italiano è proprio quello di una certa carestia di outsider; sì, proprio di gente che viene dal nulla e si fa da sola, e mentre si fa da sola produce sviluppo, pil e benessere". Come Michele Sindona? Come Roberto Calvi? Come Giancarlo Parretti e tanti altri outsider della finanza italiana (i fratelli Canavesio, Florio Fiorini, Orazio Bagnasco, Paolo Federici, Vincenzo Cultrera, Luciano Sgarlata, Gianmario Borsano, Giorgio Mendella, Virgilio De Giovanni e tanti altri il cui elenco completo riempirebbe pagine e pagine)?

Pierluigi Bersani, ministro di D’Alema all’epoca della scalata Telecom da parte della "rude razza padana" (riunita attorno al finanziere bresciano Chicco Gnutti), ha dichiarato che è un "ragionamento preistorico" affermare di vedere lo zampino della "finanza rossa" dietro le operazioni in corso, solo perché "fra i player c’è una cooperativa": perché è una cooperativa che "agisce sul mercato nel modo che ritiene più appropriato, senza chiedere il permesso a nessuno". Bene. Benissimo. Ma allora come mai i banchieri "rossi" o considerati "dalemiani" (Giovanni Consorte, Vincenzo De Bustis) agiscono liberamente sul mercato, mentre invece chi li critica è certamente eterodiretto, parte di un complotto?

"E che dubbio c’è? Non siamo mica nati ieri", ha dichiarato infatti D’Alema. "Conosciamo i salotti e le persone che contribuiscono a tutto questo". Non si fanno nomi, ma si può ipotizzare che il complotto sia stato architettato sull’asse Montezemolo-Della Valle-Rutelli. O forse i salotti evocati sono quelli di Giuliano Amato e Franco Bassanini? Il tutto con la compiacenza, evidentemente, del Corriere della sera, forse del Sole 24 ore e, buon ultimo, di Diario. Ma questo tracciar complotti non è un "ragionamento preistorico"?

Allora forse è meglio lasciarli stare, i complotti, da una parte e dall’altra. E ragionare serenamente sul solo materiale che abbiamo a disposizione, per ora: gli indizi, i rapporti, le alleanze.

1. È vero che nelle diverse partite in corso c’è, schierato a geometria variabile, un composito gruppo che riunisce soggetti diversi. Banchieri di provincia che stanno tentando l’estremo azzardo, la mano di poker da cui dipende la loro vita o la loro morte. Finanzieri della "rude razza padana", anch’essi un po’ in affanno dopo il colpo grosso della scalata Telecom che non ha avuto repliche. Oscuri immobilieri della "rude razza romana" di cui si conosce più la vita privata che il curriculum professionale. Insomma, tanto per non far nomi, Gianpiero Fiorani della Popolare di Lodi, Chicco Gnutti con la sua Hopa e Stefano Ricucci, Danilo Coppola, Giuseppe Statuto e compagnia mattona...). Il tutto, sotto l’incredibile ala di colui che dovrebbe essere l’arbitro della partita, e invece fa il giocatore e il padrino: il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio.

2. È vero che una parte di questi player sono variamente legati alla cosiddetta finanza rossa. Sarà anche "preistorico" dirlo, ma così è. Tanto che dentro alla finanza rossa medesima si sta oggi combattendo una guerra silenziosa in cui alcuni (per esempio Pierluigi Fabrizi del Monte dei Paschi, o Turiddo Campaini di Unicoop) stanno differenziando i loro comportamenti e non stravedono certo per le avventure finanziarie del boss di Unipol Giovanni Consorte. E tanto che perfino la stessa Unipol sta lentamente cambiando la sua architettura di controllo e il suo sistema delle alleanze: meno scatole cinesi e partecipazioni incrociate, più separazione dai capitali di Chicco Gnutti.

3. È vero, infine, che questa "finanza rossa" – come dimostrato dalle dichiarazioni di questi giorni – ama i lanzichenecchi, subisce il fascino degli animal spirits della nuova razza mattona.

Non è in questione soltanto l’indicazione del puparo di Ricucci (Se c’è. E se Ricucci, spalleggiato dai suoi amici lodigiani e bresciani, non gioca in proprio, con l’aiuto di uno stratega vero, magari made in Lodi, e con la speranza di vendere, al momento buono, al miglior offerente). Ma si potrà pur ragionare sulle frequentazioni, le alleanze, i metodi e le subalternità culturali di una parte della sinistra?

D’accordo, nessuno crede alla favola del vecchio Capitalismo Sano, delle Grandi Famiglie, dei Salotti Buoni. Non è però un buon motivo per buttarsi nelle braccia dei nuovi avventurieri. Non viviamo in Svezia, da noi in genere gli outsider si sono fatti spazio con i soldi – non è trendy dirlo, ma è così – della mafia. E anche senza andare tanto in basso, gli attuali protagonisti (almeno quelli che si vedono, per gli altri chissà) sono oggi sotto indagine per una fila di comportamenti contro il mercato che farebbe impallidire qualunque finanziere di un normale Paese d’Europa o d’America: aggiotaggio, insider trading, finanziamenti a rischio concessi agli amici e agli amici degli amici, false comunicazioni al mercato e alle autorità di vigilanza, creazione di un patto di sindacato occulto... È questo il modello che piace tanto?

Un vecchio leader del Pci siciliano, Michelangelo Russo, mentre attorno a lui crescevano gli affari di Cosa nostra e chi si opponeva veniva ammazzato, diceva che "non si può fare le analisi del sangue alle imprese". Più recentemente, un altro leader comunista, Emanuele Macaluso, spiegava che non c’è motivo di stupirsi se uomini come Giulio Andreotti o Silvio Berlusconi hanno avuto rapporti o hanno fatto affari con la mafia. E chi si stupisce, ormai, se il Teatro Lirico a Milano sarà gestito dal senatore Marcello Dell’Utri, condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno a Cosa nostra?

Bruno Tabacci, uomo che di politica e finanza se ne intende, ribadisce a Diario che "la politica non conta più un piffero". Che ormai non crede alla politica che guida la finanza: semmai è il contrario. Appunto: non è che sta succedendo questo anche a sinistra?

Attenzione, però: anche chi, dall’altra (?) parte, lancia lodi ad altri soggetti in campo, non fa certo un bel servizio alla politica. Così Francesco Rutelli, quando dichiara al Corriere, il 10 giugno, che "Francesco Gaetano Caltagirone è un imprenditore. Anzi, un grande imprenditore", cancella in un attimo tutte le cose belle declamate fino a quel momnento. Nulla contro il Calta, per carità, ma "la politica dovrebbe preoccuparsi solo delle regole e della trasparenza", commenta Tabacci. Che poi aggiunge: "Qui non abbiamo più arbitri, solo tifosi. E penso anche al governatore di Bankitalia".

Intanto, nell’ultima settimana, agli indizi allineati da Diario se ne sono aggiunti altri. Che però peggiorano la situazione. Per esempio: Ricucci sarebbe meno ricco e meno pulito di quello che vuol far credere. E accanto al suo gioco piccolo si è ormai avviato il gioco grande della finanza internazionale, con la discesa in campo, per la conquista di Mediobanca e Generali, di finanzieri come Tarak ben Ammar, grande alleato e amico di Silvio Berlusconi. Ecco dove porta il gioco degli apprendisti stregoni, commenta un finanziere milanese. Evocano forze più grandi di loro e finiranno per esserne stritolati. A meno che il nuovo arrivato, alla fine, non si ricordi, grato, di loro.

Pista siciliana.
Ricucci? "Panna montata", ha dichiarato Carlo De Benedetti a Venezia, in margine a un convegno della Fondazione Cini. Un vero "maestro del bluff", secondo Claudio Gatti del Sole 24 ore. Dichiarazione dei redditi 1995 (a 32 anni, mica a 18): 5 milioni di lire. Poco, per un grande immobiliarista già in affari. Anche oggi, conti alla mano, il patrimonio di oltre 2 miliardi di euro si smagrisce parecchio, malgrado le repliche di Ricucci. Le valutazioni degli immobili risultano gonfiate. Le acquisizioni sono spesso complicate operazioni ricche di contratti di leasing e d’interventi bancari, ma povere di soldi veri. Le banche sono la vera bacchetta magica di Gastone, come lo chiama la promessa sposa Anna Falchi. Ma non tutte le banche: alcune, come Credito italiano e Cariplo, lo depennano dall’elenco dei clienti perché non si fidano di lui; altre, come la Banca agricola mantovana e poi la Popolare di Lodi, invece lo gonfiano di soldi e stanno dietro alle sue operazioni.

Quanto alla fedina penale, non è brillante. Quella che Ricucci ha inviato al Sole 24 ore è candida come la neve, ma è quella per usi amministrativi. Quella per usi di giustizia, invece, scovata da Claudio Gatti, racconta di due pazienti che denunciarono l’odontotecnico Ricucci per truffa (nel 1986) e per esercizio abusivo della professione dentistica (nel 1988). Sostenendo che, dopo essersi presentato come dentista, aveva sbagliato intervento: una sua iniezione aveva provocato una "semi-paresi dell’occhio sinistro, della guancia e del collo". Storie vecchie, cancellate dall’amnistia del 1989. Più imbarazzante una vicenda del 2002: Ricucci è stato arrestato per resistenza a pubblico ufficiale. Processo, patteggiamento per quattro mesi di detenzione, pena sospesa.

Ma le storie più preoccupanti vengono dalla Sicilia. Uno degli uomini di fiducia di Ricucci è Guglielmo Fransoni, avvocato quarantenne: è il tributarista che presenta la sua faccia quando c’è da trattare con le banche. Fransoni opera a Roma; insegna Diritto tributario all’università di Foggia, in Puglia; è nato a Vibo Valentia, in Calabria. Però gli affari lo portano spesso a Messina. Tanto che nel 1997, scrivono Peter Gomez e Vittorio Malagutti sull’Espresso, nella città siciliana Fransoni è stato denunciato per riciclaggio. Colpa di alcune società domiciliate nel suo studio, tra cui la Telecom Sicilia spa, e di un suo cliente, Giuseppe Cuminale, che nel 2003 stava per essere arrestato dalla procura antimafia. La Cassazione bloccò il provvedimento, ma confermò la gravità degli indizi raccolti. Il metodo era ottenere sostanziosi appalti da Telecom Italia per la posa di cavi, far fallire le società che avevano ottenuto gli appalti, far sparire i soldi degli appalti (con un vorticoso giro di denaro e opere d’arte) grazie all’aiuto di uomini di Messina e di Barcellona Pozzo di Gotto considerati dagli investigatori legati a Cosa nostra.

Oggi Fransoni si occupa di tutt’altro. È nel consiglio d’amministrazione di Magiste International, la holding di Ricucci domiciliata in Lussemburgo. Ed è stato fermato al valico di Chiasso, il 21 febbraio scorso, dal Nucleo valutario della Guardia di finanza: nella Mercedes su cui viaggiava in compagnia di un altro uomo di Ricucci, Luigi Gargiulo, c’erano preziosi documenti finanziari su società offshore e operazioni riservate. Stavano prendendo la strada dell’estero e invece ora sono al vaglio dei magistrati di Milano Giulia Perrotti ed Eugenio Fusco.

Assalto alla cassaforte.
La faccenda intanto si è estesa. Dopo la scalata Rcs, si sono palesati movimenti su Mediobanca e Generali. È davvero iniziato il grande assalto al cuore del (debole) capitalismo italiano che Diario ha ipotizzato nel numero scorso. Ma se gli eventuali protagonisti dietro Ricucci e i suoi amici sono invisibili nel blitz sul Corriere, quelli che stanno comprando titoli Mediobanca e Generali sono imprendibili. "Non capiamo che cosa sta succedendo", confessa un grande banchiere del Nord. "Non vedo una strategia, da nessuna parte. Forse ci sono solo movimenti opportunisti, nel senso che uno o più soggetti si stanno muovendo cogliendo le opportunità che si presentano, senza un vero piano".

Ha smentito con decisione di essere dietro a qualunque operazione su Mediobanca e Generali Vincent Bollorè, socio francese della banca d’affari che fu guidata da Enrico Cuccia. "Io non vedo nessun attacco", ha dichiarato anche l’altro grande sospettato, Tarak ben Ammar. Il finanziere franco-tunisino è al centro di una complessa rete di rapporti che tiene insieme George Bush e i capitali arabi, Rupert Murdoch e Silvio Berlusconi.

Fu Tarak, la sera del 24 novembre 1995, che tirò fuori dai guai l’amico Silvio. Con un’intervista al Tg5 di Enrico Mentana in cui dichiarò che i 15 miliardi di lire versati su conti esteri da Berlusconi erano pagamenti di diritti televisivi all’estero. Era una balla: risulterà che erano la più grande tangente mai pagata in Italia a un singolo uomo politico, Bettino Craxi. Si può credere a quest’uomo? o


Per la laurea, paga a Hong Kong


Stefano Ricucci potrà appendere al muro i certificati che attestano la conquista dei titoli di "Bachelor" e "Doctor" in Economia (7.640 euro investiti, per un totale di 36 esami e due tesi finali). La sua signora non è da meno: Anna Falchi si è laureata su Pasolini grazie a un corso da "Doctor Degree" (costo variabile fra i 10 e i 13 mila euro) e pare che ora miri a specializzarsi in Storia del cinema. Lo sfizio di avere un "Dott." sul biglietto da visita, entrambi se lo sono tolti grazie alla Clayton University, università con base a Hong Kong che sul suo sito si definisce "il padre dell’apprendimento a distanza". Nata nel 1972, oggi la Clayton si vanta di avere studenti in ogni parte del mondo. Chi clicca per compilare i formulari d’iscrizione (tutto online) può parlare giapponese, italiano, francese o urdu.

Gli esami sono scritti, ma da spedire per posta. Gli iscritti devono studiare con un tutor scelto da loro, ma la cui esistenza non viene mai verificata dall’università (Anna dice di aver studiato con la sua tutor tre volte a settimana). Oltre ai corsi canonici in Business administration o Scienze sociali, alla Clayton si può studiare Psicofisiologia, Fitoterapia ed Erbologia, o Pianificazione ambientale. I titoli rilasciati non sono riconosciuti in Italia e nemmeno negli Stati Uniti, quasi tutto si svolge online e gli accrediti delle rette finiscono sulla Hong Kong and Shanghai Banking Corporation di Hong Kong, banca nota per essere stata assolutamente impenetrabile alle rogatorie italiane durante le indagini di Tangentopoli. Se nonostante tutto questo non siete ancora perplessi, l’indirizzo per voi rimane www.culhk.com.

 

 

La scalata alle banche - arriva "er cash"

Martedì 10 Maggio 2005 01:00 Andrea Cinquegrani
Stampa PDF

maggio 2005 - dal La Voce della Campania

LA SCALATA ALLE BANCHE - ARRIVA "ER CASH"

di Andrea Cinquegrani

Il governatore punta a far bottino pieno. Per le due maxi operazioni Antonveneta e Bnl il numero uno di Bankitalia, Antonio Fazio, non fa l’arbitro, ma il tifoso. Anzi, l’ultrà. E un vero e proprio tsunami, in arrivo dalle commissioni europee, rischia di far traballare anche i palazzi più robusti. Fulmini e saette arrivano dall’Adusbef, l’associazione nata a tutela dei risparmiatori, guidata dal battagliero Elio Lanutti. «Lo scandalo delle cordate sotterranee - sbottano in un comunicato ufficiale del 26 aprile - ispirate dal Governatore della Banca d’Italia Fazio per contrastare le Opa Bbva e Abn Amro, sta rovinando la reputazione dell’Italia, che non si è ancora ripresa dagli scandali finanziari Cirio e Parmalat, agli occhi della comunità finanziaria internazionale. Perfino un professore prudente come Marco Vitale - sottolinea Lanutti nel messaggio di fuoco - afferma che ‘il venir meno di quel clima di sicurezza, sintesi di indipendenza, professionalità, rispetto, che ha rappresentato la Banca d’Italia in tutti i decenni di cui ho memoria diretta, è un evento nuovo e di inaudita gravità. E’ urgente, urgentissimo che il Governatore lasci libero il campo a qualcuno capace di ripristinare un alto livello di credibilità e di indipendenza della Banca d’Italia».

A sostenere che il supercontrollore italiano mostri scarsa imparzialità nel giudicare le offerte nostrane e straniere per la scalata ad Antonveneta e Bnl, è in prima linea il commissario europeo al mercato interno Charlie McCreevy. Che non ha peli sulla lingua: «ora si stanno muovendo anche i tribunali - afferma - ci sono indagini di polizia, un evento dietro l’altro come in un serial televisivo». Insomma, una bella figuraccia internazionale. L’aspra presa di posizione Ue ha fatto andare su tutte le furie non solo il vertice di Bankitalia, ma anche qualche pezzo grosso governativo. Come il forzista e ‘fazista’ Luigi Grillo, presidente della commissione Lavori pubblici del Senato, intervenuto a piedi uniti nella polemica non si sa bene a quale titolo. Strepita Grillo: «si tratta della più rilevante operazione di pressione e di ingerenza esercitata finora in un campo estraneo ai poteri della Commissione». Grillo, però, è sempre più loquace. E ha voglia di esternare a tutto campo. Entrando, anche questa volta in tackle, nel merito della vicenda Bnl. Uno dei soci, il numero uno della Fiorentina e di Tod’s Diego Della Valle, che con Generali affianca l’istituto basco nella scalata alla Banca del Lavoro, aveva infatti protestato contro «l’eccessiva tolleranza di chi dovrebbe regolare le cose e magari è distratto da altro», invitando i partiti a valutare «la qualità degli uomini che rappresentano le istituzioni che se ne dovrebbero occupare» e aggiungendo: «se non è adeguata, a casa». Immediata la replica di Grillo: «quando l’arbitro non piace, ecco che si invocano le forze esterne. E non si capisce il danno che si fa evocando fantasmi strampalati». Fantasmi a parte - commentano in parecchi a piazza Affari - «Fazio punta a portare a casa almeno uno dei due risultati, fra Bnl e Antonveneta, strizzando l’occhio a destra e a sinistra. Non pochi mattonari presenti nella cordata per la Bnl , infatti, fanno il filo con l’Ulivo, amici di Alfio Marchini, già editore dell’Unità».

E molti nomi, parecchie storie, svariate imprese portano proprio nella nostra regione. A Napoli e alla Campania, terra d’origine di alcuni yuppies del mattone stramilionario, e terra di grandi “operazioni”: come quella che ha coinvolto la Società pel Risanamento di Napoli, passata in un battibaleno, cinque anni fa, al tandem Marchini-Zunino, sotto gli auspici di Massimo D’Alema. Ma procediamo con ordine, passando in rassegna alcuni odierni protagonisti delle maxi operazioni finanziarie del nostro Paese.

OPERAZIONE BNL

C’era una volta la Bnl , il colosso bancario profumato di garofano ai tempi del super Psi craxiano, guidato con piglio da Nerio Nesi (poi passato ai lidi rifondaroli, quindi a quelli pdci) fino al maxi scandalo della filiale di Atlanta. Non affonda, la Banca Nazionale del Lavoro, ma è miracolata sulla via di San Gennaro: acquista per un pugno di dollari - una settantina di miliardi di vecchie lire - lo sforacchiato Banco di Napoli in partnership con l’Ina, poi lo smista per dieci volte tanto all’Imi San Paolo. Riceve cash altri miliardi dal Tesoro, supera brillantemente la ‘crisi’. Ora la desiderano con ardore gli spagnoli, il Banco de Bilbao in pole position con una maxi offerta. Ma gli azionisti scalpitano: non vogliono perdere il controllo di uno strategico istituto di credito; o comunque, hanno intenzione di vendere cara la pelle. In prima fila, tra i soci dell’istituto di via Veneto, tre rampanti palazzinari, tutti under 40. Un romano doc, un campano-romanizzato, un casertano altrettanto doc: “i russi de noantri”, li etichettano nella capitale, per via della loro enorme liquidità.

Il primo è Stefano Ricucci, nella hit delle cronache mondane per via della sua love story con Anna Falchi. Viene dal ventre de mamma Roma, Ricucci, figlio di un autista dell’Atac, apprendista dentista, capace nel giro di pochi anni di passare dalle borgate romane ai Campi Elisi. Lì, nel cuore di Parigi, prenderà sede il suo colosso societario - Magiste International - che ha pensato bene di acquartierarsi anche nella Londra dei vip, a Saint James Square, senza contare la maxi sede capitolina a un passo da piazza del Popolo (Magiste holding sa, invece, è acquartierata in Lussemburgo). Ciliegina sulla torta potrebbe essere - in un futuro non poi così lontano - la presidenza della squadra del cuore, la Lazio , di cui oggi è azionista (fra le altre partecipazioni ‘eccellenti’, uno strategico 7 per cento nella Rcs, editrice del Corsera). Il suo patrimonio immobiliare ammonta alla bella cifra di 600 milioni di euro.

BANCHE CON COPPOLA
E a una poltronissima calcistica punta anche l’altro socio di punta in Bnl col suo 4,9 per cento, Danilo Coppola, fresco acquirente di uno degli alberghi in della capitale, il Cicerone. A venderlo, Franco Sensi, il patron della Roma che - secondo ambienti sportivi locali - ha ormai tutta l’intenzione di lasciare il club. «Ha rifiutato l’offerta dei miliardari russi - viene precisato - potrebbe adesso cedere alla valanga di miliardi che Coppola è pronto a porgergli su un piatto». Non a caso il trentottenne Danilo - capelli lunghi, dandy al punto giusto - è soprannominato ‘er cash’. E tanto per far annusare qualcosa ai tifosi delusi da una stagione fallimentare, ha deciso di far uscire nelle edicole per settembre il Romanista, un quotidiano tutto giallorosso: del resto, nella formazione di Totti ha già fatto il suo ingresso da qualche mese, a bordo del 2,5 per cento di azioni acquistate, ovviamente, cash. L’altro albergo di prestigio che arricchisce il pedigree di casa Coppola è il Daniel’s di via Frattina. Un 5 stelle, e del resto la società che lo ha rilevato e lo gestisce si chiama Frattina Five Stars, amministrata da Fabrizio Spiriti e Francesca Garofalo.

Fitto l’arcipelago societario riconducibile al giovane Coppola. La ‘regia’ è in mano a tre fiduciarie ovviamente lussemburghesi, per tutelare - si sa - la privacy: Keope, Sfinge e Tikal Plaza. Capogruppo italiana è Pacop (amministrata da Lucia Necci, sorella della moglie di Danilo, Silvia) cui fanno compagnie tre reginette: Gruppo Coppola, Tikal e IPI, spa capaci di dar vita ad un giro d’affari - anche attraverso collegate e controllate - da quasi 300 milioni di euro all’anno. La prima, Gruppo Coppola, è riconducibile a sua volta alle tre finanziarie di famiglia: si tratta di Finpaco Real Estate, Finpaco Finance e Finpaco Properties, tutte società per azioni, of course, con diramazioni lussemburghesi. Tikal fa capo direttamente a Danilo Coppola (con una piccolissima quota, pari al 2 per cento, intestata a Francesca Garofalo). Controllata da Finpaco Properties, IPI è protagonista nelle travagliate vicende del gruppo Risanamento, proprietario di moltissimi immobili nel cuore antico di Napoli: una vendita molto chiacchierata, quasi cinque anni fa, un maxi affare in prima battuta per il palazzinaro romano Alfio Marchini (nelle grazie di Massimo D’Alema), e in seconda battuta per il gruppo Zunino, in sella ad IPI. Commentano alcuni immobiliaristi partenopei: «Hanno fatto l’affare in tutti, prima Marchini, poi Zunino, ora Coppola, che ha acquisito dallo stesso Zunino il pacchetto di maggioranza dell’Ipi, e quindi del Risanamento». L’operazione, condotta in porto a inizio febbraio di quest’anno, ha visto il passaggio del controllo di Ipi (65 per cento) nelle mani di Coppola. La quota di Luigi Zunino in Ipi è ora pari al 10 per cento (contro il precedente 75). Fa sapere, in un asciutto comunicato, la società di piazza Nicola Amore: «Le società hanno sottoscritto un patto parasociale che prevede l’impegno del gruppo Coppola nei confronti di Risanamento a mantenere in Ipi un amministratore a nomina Risanamento e uno a nomina Fiat Partecipazioni, azionisti in Ipi con il 10 per cento». Tra i soci di Risanamento figura anche Leonardo Del Vecchio, il re degli occhiali, con un 2 per cento. Quattro palazzi, quattro cantoni e affari a tanti zeri…

Mattoni e calcestruzzo nelle vene, a casa Coppola, dove il padre, Paolo, ha cominciato a cavalcare la ruspa una ventina d’anni fa, per edificare nella zona Sud di Roma. Sud chiama Sud, e parecchi scommettono su parentele ‘eccellenti’, quelle dei mattonari doc del litorale domizio, i Coppola di Pinetamare. In zona, però, smentiscono. «Mai sentito parlare di un Danilo». Forse ancora più a sud, qualcuno sostiene a Bagnoli. Anche in ambienti ministeriali arrivano non pochi echi. «Non ci sono solo i Caltagirone a farla da padrone nei maxi lavori di Bagnoli. Lavoreranno in tanti. Coppola? Il nome è rimbalzato». Intanto, Danilo può godersi la pace dei Castelli romani, nella magione degna di Dinasty a Grottaferrata tutta verde, piscine, campi da golf.

IL NUOVO STATUTO

Compagno di passeggiate è Giuseppe Statuto, altro rampante nell’azionariato Bnl, in sella al suo 4,9 per cento. Tra un footing nel green e l’altro, un paio di mesi fa è sbocciata l’intesa: in sostanza, dar vita ad un asse sindacale (bando agli equivoci, non si tratta di braccianti, ma del patto di sindacato all’interno di Bnl) in grado di fronteggiare l’altro rampante, Ricucci. Due cuori, un destino: del resto sono tutti e due quasi sessantottini, i nuovi finanzieri all’assalto della capitale: sono nati nel 1967, infatti, amano la buona musica e la buona pittura (nei saloni di casa Statuto fanno capolino De Chirico e Fontana). Da Aversa - suo paese d’origine - il salto è stato assai breve verso Roma, Milano e oltre. All’ombra del Madunina, a quanto pare, le imprese targate Statuto stanno lavorando per un ambizioso progetto (un centinaio di miliardi di vecchie lire l’importo dei lavori): il riassetto urbanistico nell’area dei Navigli. Grandi manovre anche a Rozzano, nell’hinterland milanese: qui dovrà sorgere un maxi complesso commerciale, partner d’accezione il gruppo Fininvest. Anche lui col pallino degli alberghi extra lusso, ha di recente comprato il Grand Hotel Duomo, che si aggiunge al mitico (per i milanesi e non solo) Palazzo Aliverti.

«Statuto in questi ultimi anni ha fatto una grande incetta di suoli e immobili a uso commerciale nel cuore della città», è il commento che si raccoglie fra molte operatori meneghini del settore. A dirigere l’orchestra Statuto è Lux, la cassaforte comodamente collocata - tanto per cambiare - in Lussemburgo, lontano da occhi indiscreti. Il gruppo – notano a piazza Affari – fa segnare fatturati a molti zeri (si parla di un giro d’affari da circa 100 milioni di euro), diversificazione al punto giusto, ma il core business sempre quello: i mattoni. E per questo la ‘corolla’ societaria di casa Statuto (accanto a lui il fratello Domenico, quarantunenne) è non poco folta: in prima linea Radogista Costruzioni, spa da 774 mila euro in dote, sede a Caserta. Poi, di seguito, Egis Immobiliare, Pontetetto, Ecom, l’impresa edilizia Figli di Statuto Raffaele, tutte società a responsabilità limitata. Quindi un’altra spa, dedita stavolta a questioni più ‘dure’: si chiama ILFA, ovvero Industria lavorazione ferro e alluminio, anche lei acquartierata a Caserta.

Un nome, una storia, una dinasty quella degli Statuto nell’agro aversano. A bordo della sua Italbeton, Rodolfo Statuto è stato il numero uno dei ‘cavaioli’ ai tempi del dopo terremoto, in grado di racimolare una fortuna. E proprio quello delle cave - insieme al movimento terra e al calcestruzzo - ha rappresentato il propellente per diverse imprese, soprattutto casertane: non solo con gli appalti della ricostruzione, ma anche con quelli della terza corsia Napoli-Roma (ovviamente via Caserta) e, in questi anni, per i lavori dell’alta velocità.

OI VITO, OI VITO MIO
A completare il dream team dei mattonari all’assalto di Bnl, non poteva mancare il numero uno, Francesco Gaetano Caltagirone, una fortuna che spazia in tutta Italia, a partire dalla capitale, naturalmente, passando per Napoli (dai maxi affari al Centro direzionale degli anni ottanta a quelli odierni per la Bagnoli del futuro), per allargarsi all’estero. In sella al Messaggero, al Mattino e al Corriere Adriatico, il gruppo Caltagirone può dormire sonni veramente ‘d’oro’. E la figlia Azzurra, al vertice dei destini aziendali di via Chiatamone, continua nel suo sogno d’amore con il presidente della Camera, Pierferdinando Casini.

Certo meno noto alle cronache e alle ribalte il quinto uomo, Vito Bonsignore, anche lui in sella a un abbondante 4 per cento in Bnl. Una vera e propria passione per le banche, quella coltivata dall’ex deputato siciliano di Forza Italia. Ha già dato adito a non pochi sospetti una sua presenza azionaria all’interno di Carige. Così hanno denunciato tre senatori ulivisti (Nando Dalla Chiesa, Aleandro Longhi e Francesco Martone) in un’interrogazione ai ministri dell’Economia e dei Trasporti: «nel maggio 2002 si è costituita a Genova la società Infrastrutture Lavori Italia, il cui 60 per cento delle quote è detenuto dalla Gefip Holding s.a. che a sua volta ha il 2,2 per cento della Banca Carige e che fa capo all’ex deputato Vito Bonsignore. Le ulteriori quote vedono la Carige al 15 per cento, la Camera di commercio di Genova e Imperia al 10 per cento, la Gepco-Infrastrutture di Cattaneo Adorno al 10 per cento, la Egis s.a. al 5 per cento. Del cda fanno parte il presidente Giovanni Berneschi, l’amministratore delegato e vicepresidente Bonsignore, l’esponente regionale dell’Udc Sergio Catozzo, nonché il marchese-imprenditore Adorno, fallito e latitante». I tre, in sostanza, si chiedano se in tutto ciò non via sia qualche piccolo conflitto d’interesse… Ma chi si è levato come un sol uomo in difesa di Bonsignore? Lo spiegano ancora i tre ulivisti: «il senatore di Forza Italia Luigi Grillo, il quale, pur non essendo stato chiamato minimamente in causa, ha voluto rispondere sulla stampa agli interrogativi da noi sollevati». Senatore Grillo, senatore Grillo, ma quanto canta….

FAZZI AMARI
Eccoci alla seconda ‘spina’ per il Governatore Antonio Fazio, la Popolare di Lodi, guidata dal super amico Gianpiero Fiorani. Una piccola banca locale che, nel giro di pochi anni, è stata capace di una inarrestabile ascesa, a colpi di acquisizioni e incorporazioni di altri istituto, tanto che «il gruppo Bipielle - come si autodescrive nel suo sito - è uno dei primi 10 gruppi bancari italiani, con più di 650 mila clienti, attività totali per 65 mila miliardi di lire, una rete di oltre 500 sportelli in tutta Italia, oltre 7 mila dipendenti, con marchi consolidati ed elevate quote di mercato in Lombardia, Toscana e Sicilia». Vediamo, tappa per tappa, l’escalation che ha inizio nel 1999. A un passo dal nuovo millennio, le fervide menti finanziarie padane partoriscono il grande Progetto: quello di dar vita alla Banca Federale Europea, un polo bancario in grado rappresentare ed esprimere ‘il territorio’ - come usano dire i lumbard doc - aggregando casse di risparmio, popolari, e tutto quanto può fare raccolta di danaro fresco. La strategia, al via, fa segnare subito un colpaccio: sotto i vessilli della Lodi passa addirittura l’Iccri, ovvero l’istituto centrale delle casse di risparmio, per anni crocevia del potere finanziario targato Dc nei ruggenti anni ’70 e ’80. Tre piccioni con una fava, visto che Iccri (secondo operatore italiano nel sistema interbancario dei pagamenti, con una quota pari al 20 per cento) a sua volta controlla Fondiari - società per la gestione di fondi comuni - e la compagnia assicurativa Eurovita. Un colpo grosso tira l’altro, ed ecco che, magicamente, la neoacquisita Iccri incorpora, a sua volta, Efibanca, altro pezzo da novanta del parastato parafinanziaio (e para qualche altra cosa…): Efibanca, infatti, opera nel segmento del credito a medio e lungo termine e del merchant banking. L’appetito vien mangiando. Così spunta Bipielle Asset Management SGR, frutto delle ‘nozze’ - celebrate in casa Lodi - tra Agos Gestioni Patrimoniali Sim e Fimedit Fondi. E subito inizia la ‘campagna acquisti’ in lungo e in largo. Puntando molto sul centro e sul mezzogiorno. Prima stoccata, l’acquisizione dell’intero gruppo Casse del Tirreno, 200 sportelli sparsi soprattutto in Toscana, fra Livorno, Lucca e Pisa: l’operazione porta in dote altre creature, Ducato, Professional Ducato Leasing e Grifogest, tre significative realtà nel panorama regionale del risparmio gestito e della locazione finanziaria. Strategia simile in Emilia, pochi mesi dopo, con le vincenti Opa sulla Banca Popolare di Ferrara e Rovigo, nonché sulla Popolare di Forlì.

Le maggiori soddisfazioni, però, arrivano dal profondo Sud. Dalla Sicilia. Sette colpi, in rapidissima sequenza, tra fine ’99 e inizio 2000. La raffica comincia con l’operazione Banca del Sud, l’importante istituto messinese al cui vertice ha seduto per anni l’ex onorevole dc Giuseppe Merlino, andreottiano doc, sindaco, poi assessore regionale e deputato all’assemblea siciliana, molto legato al gruppo armatoriale dei Franza. « La Popolare di Lodi - raccontano nel capoluogo - è stata la prima ad annusare l’affare del ponte sullo stretto, stanziando 500 milioni di euro in crediti agevolati a favore delle imprese interessate alla realizzazione del ponte». Una famiglia molto dinamica (vedi Voce aprile 2005), quella dei Franza, anche nel ramo finanziario. Lo stesso numero uno del Messina Calcio, il quarantenne Pietro, siede infatti nel cda della Banca di Credito Popolare di Siracusa, entrata nell’orbita dell’Antonveneta (e quindi, oggi, della stessa Popolare di Lodi, i casi della vita…). A lungo vice presidente della Popolare di Siracusa (e contemporaneamente direttore generale di Antonveneta) ha figurato Silvano Pontello, ex braccio destro di Michele Sindona ai tempi della Banca Privata.

Ma torniamo alle altre ‘consorelle’ sicule della Popolare di Lodi. In prima fila, la Banca Popolare di Belpasso: in zona la conoscono soprattutto come l’istituto tanto caro a ‘u malpassotu, ovvero il boss mafioso Giuseppe Pulvirenti, leader delle cosche catanesi. A seguire, la Banca Popolare di Carini, il cui intero consiglio di amministrazione fu rinviato a giudizio, qualche anno fa, per falso in bilancio. Passiamo quindi al Credito Siciliano, guidato a lungo dell’ex eurodeputato di Forza Italia Pietro Di Prima, oggi ai vertici della commissione di garanzia del partito azzurro, e membro del collegio sindacale della Autostrade Milano Mare-Milano Tangenziali spa. Lo stesso Di Prima è membro del collegio sindacale di ALER, ovvero Azienda Lombardia Edilizia Residenziale, una delle controllate d’oro nell’arcipelago dell’esecutivo targato Formigoni.

 

Le grandi pulizie di Gaucci

Martedì 10 Agosto 2004 01:00 Voce della Campania
Stampa PDF

agosto 2004 - dal La Voce della Campania

LE GRANDI PULIZIE DI GAUCCI

Ramazze, calcio & sapone, che passione! Guarda caso, le avventure imprenditoriali di due protagonisti della bollente estate pallonara, il neo padrone della Lazio Claudio Lotito e l’aspirante al trono di Napoli, Luciano Gaucci, cominciano proprio da scope e secchi di candeggina, con svariate imprese di pulizia a popolare i loro arcipelaghi societari. "Le sue società danno lavoro a oltre 5 mila dipendenti", commentano in ambienti economici romani. Lotito, comunque, non si ferma alle scope, ma s’interessa anche di vigilanza (un connubio frequente anche nel napoletano, il business abbinato fra imprese di pulizia e di vigilanza, le più gettonate, fra l’altro, in maxi appalti come quelli ospedalieri) e di edilizia, con le immobiliari Appia e 03. Fa capolino anche una Snam nel suo pedigree, niente a che vedere con l’ex corazzata del parastato: si tratta invece della Società Nazionale Appalti Manutenzione Lazio Sud. L’energia, comunque, corre fra i cromosomi del quarantasettenne patron laziale, visto che il suo nome compare nello staff di vertice della Gasoltermica Laurentina spa, creata nel 1996 con un miliardo e mezzo di carburante in dote, sede in via Appia Antica civico 2. Al timone, in qualità di amministratore delegato, siede Marco Mezzaroma, rampollo di una delle più potenti famiglie romane del mattone: l’era Sensi alla guida della Roma, infatti, iniziò in condominio con i Mezzaroma, i quali poi pensarono bene di rompere quel matrimonio. Ma passiamo alle scope di casa Gaucci. Una piccolo eldorado, il trampolino di lancio per l’imprenditore romano de Roma. Capace, però, di creare a volte seri grattacapi. Così è capitato con La Milanese di Gaucci Luciano, sbocciata anch’essa nel 1996, come impresa individuale e con tutti i rischi che ne derivano. Aveva progetti ambiziosi, al momento della costituzione, e un oggetto sociale non poco ampio: dai lavori edili agli appalti di pulizia, "in particolare - come viene descritto nell’atto costitutivo - gestione pulizie alberghi, rifacimento letti, pulizie di pubblici esercizi, mense e bar, confezionamento e approntamento pasti". E poi, "riparazione, manutenzione materiale rotabile ferroviario e di aziende tranviarie. Disinfezione, disinfestazione, derattizzazione e sanificazione". Il non plus ultra, insomma, per partecipare a gare degli enti pubblici, di Asl e quant’altro. Le cose, però, per la Milanese non si sono messe bene. Gli appalti, strano ma vero, stentano a decollare. Dopo nemmeno tre anni cessa l’attività e a marzo 2001 arriva addirittura il fallimento: non solo della società, ma di Gaucci in persona. "E’ il cosiddetto fallimento in proprio - spiegano gli esperti - perché non si trattava di una spa o di una srl, ma di una ditta individuale". Viene subito nominato un curatore fallimentare, Emanuele Mattei. "Con quale credibilità finanziaria - si chiedono parecchi in ambienti economici della capitale - un imprenditore che ha vissuto simili vicissitudini può seriamente puntare ad un grande club, per di più a sua volta con una voragine finanziaria da ripianare?". Nel frattempo, il vulcanico Luciano non era stato certo a guardare. Alle spalle quella brutta storia, via ad una sfilza di altre imprese. Prima di tutte, Siata, ovvero Società immobiliare agricola Torre Alfina, il gioiello di famiglia, una vero e proprio castello nel verde, a 600 metri di altezza e un tiro di schioppo da Orvieto. Nelle ridenti campagne - è naturale - non può mancare uno spazio per il suo hobby preferito, quello dei cavalli, condiviso con l’amico, il big del mercato e direttore generale della Juve Luciano Moggi. E proprio per due cavalli rischiò, anni fa, di essere disarcionato dalla sua sella il presidente del Perugia, ad opera proprio di un magistrato napoletano, Bruno D’Urso, oggi numero uno degli affari penali al tribunale di Nola, a quel tempo membro dell’ufficio inchieste della Federcalcio. "Riuscii a trovare prove certe - ricorda D’Urso - sul tentativo di corruzione di un arbitro a carico di Gaucci. Due cavalli, quella la contropartita. La sanzione fu l’inibizione perfino ad entrare negli spogliatoi della sua squadra. Cosa che regolarmente non rispettava, pagando una multa, se ricordo bene, di dieci milioni di lire a partita". Scansata anche questa seconda vicenda, Gaucci torna di nuovo in sella, più forte e potente di prima. Ed ecco, nel 2000, il parto della Scuderia Tony Bin poi, a luglio 2003, è la volta di Allevamento White Star. Ancora a Roma, vengono a inizio del nuovo millennio costituite altre sigle, sempre nei rami preferiti. Come quello, naturalmente di scope & ramazze: alla Romana Pulizie, messa in piedi nel 1997, fanno da ancelle la GAP , Grandi Appalti Pulizie, creata a giugno 2002, seguita a ruota - neanche un mese dopo - da Fulgida 2000, e in rapida successione, a settembre dello stesso anno, da World Wash, tanto per darsi un tocco di globalizzazione. Non è certo finita, perché altri tasselli vanno a completare il mosaico di casa Gaucci. A partire dal consorzio IGS, Impresa General Service, per passare a Intersistemi, quindi alla misteriosa The Clonmell Stud, poi G2, sbocciata solo qualche mese fa. Ma l’ubiquo Gaucci è anche amministratore unico di un’altra creatura che non ha ancora due anni di vita, l’immobiliare romana Arizona. Senza contare, poi, il variegato arcipelago di imprese che fanno capo a uomini di provata fiducia. Come Fabrizio Bevilacqua, il quale fa capolino, sia nelle vesti di azionista che in quelle di amministratore, in una marea di sigle (Italiana Gestioni, Befin, Netcorp, Immobiliare Saba, Filmworld, Telemondo uno, Axian, Casamatta, tutte società a responsabilità limitata). Oppure di Mario Bianchi, promotore della Spiga srl, oltre che partner in Fulgida, G2 e World Wash. O, ancora, di Carlo Lancella, a sua volta presente in una sfilza di sigle: oltre a quelle in gemellaggio con il patron Luciano (Romana Pulizie e lo stesso Perugia Calcio), in altre dagli interessi più svariati: Casav Consulenza assistenza avanzata, Co.ge.pa., Prime Hotels, The Big River, Suerte film, International Credit Service, tanto per cambiare tutte, regolarmente srl. E finiamo il giro proprio col Perugia. Cinque miliardi di capitale azionario, suddiviso fra una pletora di piccolissimi azionisti ma sostanzialmente in mano a una misteriosa società estera, riconducibile con ogni probabilità ai Gaucci, la Kilpeck Overseas Corporation, la quale - da sola - detiene 497.680 azioni. Il resto, gli spiccioli, sono frazionati fra una serie di società o persone, tra cui i due figli del patron, il rampante trentunenne Alessandro e Paolo, di un anno più grande; nonché il fratello Antonio. Il 99 per cento delle azioni del Perugia, comunque, è sostanzialmente appannaggio di Capitalia (vedi box), l’ex Banca di Roma che controlla, in un nodo o nell’altro, parecchie squadre di A (Roma, Lazio, Parma): il pacchetto dei Gaucci, infatti, da mesi é in pegno presso l’istituto guidato da Cesare Geronzi. Del resto, anche le azioni di un’altra sigla al cui timone siede Alessandro Gaucci, factotum al Perugia, sono “sottoposte a pegno”: quelle dell’ennesima srl della Gaucci story, Galex, capitale sociale da 101 mila euro. LE due CORDATE Una volta, tanti anni fa, inizio novanta, erano nemici per la pelle. Antonio Bassolino puntava con decisione l’indice contro il ‘pomicinismo’, il suo alter ego politico Isaia Sales dettagliava in modo impietoso le spericolate amicizie & imprese di ‘o ministro. Poi Geronimo pensò bene di raccontare la sua ‘verità’ nel volume Strettamente riservato edito da Mondadori. E descrisse, proprio in apertura, il gentile ‘regalo’ da 100 milioni di vecchie lire elargito alla federazione del Pci, allora governata dal commissario Bassolino, burocrate di Botteghe Oscure inviato a Napoli per mettere un po’ d’ordine fra quadri & conti. Nel libro l’ex ministro del Bilancio descrive nei dettagli l’operazione: a fornire i cento milioni liquidi era stato l’amico granaio Franco Ambrosio, che li aveva fatti pervenire a un intermediario, l’avvocato Oreste Cardillo, il quale aveva poi provveduto a consegnarli nelle case della federazione pci, in via dei Fiorentini. "Tutto bene Antò"”, così colorisce Pomicino raccontando un suo incontro fra le aule del transatlantico con l’attuale Governatore della Campania. Nessuna notizia su eventuali querele di Bassolino (chi si é lamentato é stato, piuttosto, il gip di Napoli Marco Occhiofino, accusato nel libro di non avere indagato su quel finanziamento: dopo la denuncia in sede civile di qualche anno fa, nelle scorse settimane Occhiofino ha ottenuto la condanna in primo grado di ‘o ministro per diffamazione). Fatto sta che i ‘duellanti’, a una dozzina d’anni di distanza, si ritrovano impegnati sullo stesso versante: il ‘quasi impossibile’ salvataggio del Napoli. Con una serie di personaggi in pista che potrebbero finire con l’incrociarsi. Da un lato la cordata Pomicino-Gaucci, dall’altro quella - molto più variegata - messa in campo da Bassolino e i suoi uomini, Cozzolino e Oddati in testa. Partiamo dalla prima. Raccontano nell’entourage del presidente perugino: "si sono incontrati una mattina ai primi di giugno in un ristorante di via Sardegna, a Roma, Pomicino del resto ha un ufficio da quelle parti". L’ufficio di ‘o ministro, in realtà, si trova a un passo, in via Sicilia, nei tempi d’oro condiviso con Lorenzo Necci (legato a Francesco Pacini Battaglia, l’uomo a un passo da Dio condannato in questi giorni a tre anni proprio per gli strani rapporti con l’ex capo delle ferrovie) e Publio Fiori, l’ex dc poi traghettato sulle sponde di An, già sottosegretario ai trasporti. "Un incontro del tutto casuale", ha puntualizzato poi Pomicino. Il quale deve la sua fortuna proprio al caso: ‘per caso’, infatti, una ventina d’anni la sua ex moglie, Wanda Mandarini, trovò sulle colonne del Mattino l’annuncio per la vendita di un appartamento in via Petrarca, proprietari i fratelli Sorrentino da Torre del Greco, e prima ancora del finanziere d’assalto Ninì Grappone, cui era passato dalla famiglia Gava. "Non sapevo chi fossero", pigolò Pomicino a proposito dei ‘venditori’ torresi, inquisiti per riciclaggio prima per conto dei cutoliani, poi della Nuova Famiglia. In seguito venne alla luce un carteggio riservato che rivelava la conoscenza di lunga data fra l’ex ministro e i Sorrentino. Torniamo al tandem Gaucci-Pomicino. Incontrati per caso, eppure con ‘precedenti’ politici tutti di chiara matrice andreottiana: il cardinale Angelini, l’ex re delle acque minerali Ciarrapico, per una breve stagione al vertice della Roma Calcio. Gaucci, poi, fa la sua fortuna con le imprese di pulizia, una settore molto caro all’entourage pomiciniano e scottiano, a partire delle ‘relazioni pericolose’ intessute dall’ex assessore Aldo Boffa - trait d’union fra i due ex pezzi da novanta dell’ex Balena bianca - con il tandem Agizza-Romano, capace di controllare, per tutti gli anni ottanta, sia il settore delle imprese di pulizia che quello, ancora più strategico, del calcestruzzo, a bordo della corazzata Bitum Beton. "Gaucci deve la sua fortuna a Capitalia, che gli ha erogato valanghe di fidi", commentano in ambienti economici della capitale. Un istituto, quello guidato da Cesare Geronzi, da sempre di marcate simpatie andreottiane. Mentre la figlia, Chiara Geronzi, volto noto di Canale 5, è fra i protagonisti della corazzata Gea World, guidata con piglio sicuro da Alessandro Moggi, rampante rampollo del direttore generale della Juve Luciano, di recente tirato in ballo dal general manager del Venezia Franco Dal Cin per lo scandalo delle combine arbitrali, su cui da mesi indagano i pm della procura di Napoli. Ed è proprio per i continui rapporti con Capitalia che lo stesso Perugia, avamposto dei Gaucci, è praticamente una succursale della banca, con un 99 e passa per cento di azioni in pegno nelle casse dell’istituto di via Minghetti. "Le liquidità di Gaucci - commentano ancora su piazza romana - sono solo virtuali, conta sulle banche e su solide amicizie. Soprattutto politiche". E’ un caso, allora, che il pm della procura di Napoli Vincenzo Piscitelli abbia sentito puzza di bruciato circa la affidabilità finanziaria del gruppo Gaucci? E che cerchi di far luce sulle garanzie che può fornire una sigla del gruppo? Nei palazzi capitolini della Confindustria circola da qualche giorno con insistenza una voce: "Gaucci è stato spinto a fare il salto più in lungo della gamba. Da qualcuno, un politico, che può contare su una ingente liquidità da investire". A questo punto, il patron del Perugia sarebbe solo il volto ‘pallonaro’ per una maxi operazione di ‘investimento’. Economico e, soprattutto, politico. ANTO’, CHE TE SERVE? Passiamo al secondo fronte di salvataggio del Napoli, quello per così dire ‘ulivista’ guidato da Bassolino. Che ha deciso di giocare la partita. Prima provando con la fanteria. Quindi, in caso di bisogno, buttando in campo gli assi. Si parte dalla ‘cordatina’, i fantomatici quattro, poi sei, poi otto imprenditori che, sotto la regia di Nicola Oddati, avrebbero deciso di correre al capezzale del Napoli calcio. Investendo sei milioni di euro, assicura l’assessore. Mentre Naldi parla di un paio di assegni di importo molto inferiore. Battaglie di cifre, di conti, di persone. Entra in scena perfino Andrea Cozzolino, storico braccio destro di Bassolino: fra i possibili acquirenti, infatti, fa capolino le fresca consorte – mitico il matrimonio caprese durato due notti in piazzetta – Anna Normale. La quale, risentita, smentisce: "non sono mai stata interessata a entrare nel Napoli". La famiglia, comunque, può contare su grosse liquidità: i Normale, infatti, sono tra i big dell’edilizia a Napoli, zona Vomero, Arenella (con la perla dello scheletro ini cemento all’uscita Tangenziale in piedi da una dozzina d’anni e mai demolito), Colli Aminei, San Rocco. Per il resto, la cordata del governatore é popolata da una serie di “signor nessuno”. Desta subito curiosità, comunque, il capo cordata, Francesco Floro Flores. "O’ pate d’ ‘o calciatore?", si chiede subito qualcuno. "No, il presidente del Capri calcio", chiariscono negli ambienti pallonai, dove fanno sapere del suo sogno di creare una seconda squadra a Napoli, parto di pezzi di vecchie, piccole glorie dei campionati minori. Qualcuno, però, va giù duro. E’ proprio Toto Naldi, che si fa uscire dai denti: "é solo un prestanome, Floro Flores". Di chi? E lui risponde: "Del gruppo Romeo". Flores, ovviamente smentisce. Della smentita del gruppo Romeo, a quanto pare, non vi è notizia fra le bollenti cronache estive. Ecco il primo asso di Bassolino. Alfredo Romeo, cinquantenne, titolare di un gruppo immobiliare che da Napoli si è ramificato in tutta Italia, da Roma a Venezia, a Milano, con le prime giunte Bassolino riuscì ad aggiudicarsi la gestione del patrimonio edilizio controllato dal comune. Il suo piccolo impero, comunque, risale agli anni ottanta, quando ad ‘attenzionarlo’ c’era anche mister centomila, Alfredo Vito, uno dei primi pentiti di tangentopoli, 5 miliardi restituiti e investiti nel ‘parco Mazzetta’ dell’area orientale. Una "vera e propria cavalletta", Vito, secondo Romeo, una cavalletta che davanti ai giudici aveva giurato di non voler rientrare a nessun costo in politica. Ora regolarmente in Parlamento, addirittura membro della commissione Telekom Serbia. Storicamente vicino al Pci, poi al Pds quindi ai diessini e ai bassoliniani, Romeo potrebbe essere l’asso nella manica. Con un rischio: la sovraesposizione. Rischio che corre meno un altro bassoliniano di ferro, il costruttore veneto Luigi Zunino, legato a doppio filo ad Alfio Marchini. Insieme, i due mattonari - auspice Massimo D’Alema - hanno portato a segno la maxi operazione del Risanamento, riuscendo magicamente a rilevare un patrimonio immobiliare da 5 mila miliardi di vecchie lire… praticamente senza sborsare un quattrino. Solo fornendo in garanzia gli stessi immobili. Per la serie, la fontana di Trevi, Totò, Nino Taranto e l’acquirente americano, il mitico Ugo D’Alessio. Da un mattone romano all’altro, sempre più in alto, eccoci ai Caltagirone. I quali, per una vita andreottiani (‘a Frà che te serve’ rivolto da uno dei fratelli al braccio destro del divo Giulio, Franco Evangelisti) ora si riscoprono filobassoliani. Questione di feeling, e di mattoni. Prima i destini della Napoli orientale, gravitanti intorno al centro direzionale, poi quelli di Napoli ovest, epicentro Bagnoli, fanno dei Caltagirone l’interlocutore primo del governatore della Campania, nonché del sindaco Iervolino. Proprietari del Messaggero e del Mattino, i Caltagirone hanno molto a cuore il destino di Napoli. E, perché no, del Napoli calcio. L’ultimo ma decisivo approdo Bassolino potrebbe trovarlo lungo le vie del mare. Dove conterebbe su un altro imprenditore che ha grossi interessi nel porto di Napoli. Si tratta di Gianluigi Aponte. Poco più di sessant’anni, sposato, con figli, sorrentino con residenza a Ginevra, Aponte ha creato nel 1970 una compagnia di navigazione che oggi è tra le prime al mondo. E’ specializzata nel trasporto merci: con 250 navi, un fatturato di 4,5 miliardi di dollari e 23 mila addetti, di cui 10 mila italiani, la Mediterranean Shipping Company, è un colosso per forza e quote di mercato ma è un’azienda familiare per conduzione e stile. Il gruppo, infatti, è interamente strutturato sui parenti: con Gianluigi Aponte lavorano la moglie Rafaela, la figlia Alexa e il genero Pier Francesco Vago. Aponte ha grossi interessi anche nella compagnia orientale Cosco, leader nel trasporto marittimo con container. E con la Cosco ha guidato una operazione nel porto di Napoli, l’allungamento del molo Bausan, affidato in concessione alla società Conateco, di cui Aponte è socio al 50 per cento. Un’opera da otto milioni di euro che farà aumentare il traffico merci nel porto di Napoli e darà agli affari di Aponte un ruolo guida nei porti del Mediterraneo, visto il livello di fatturato che l’armatore sorrentino realizza nello scalo di Palermo. Ad Aponte é poi legatissimo Nicola Coccia, dirigente del ramo crociere della compagnia di Aponte e presidente della Tin, una società che fa capo all’Interporto campano di cui è proprietario Gianni Punzo, ex vicepresidente del Napoli e interessato alla scalata alla nuova società. Coccia sarebbe l’elemento di unione tra Bassolino e Aponte e su di lui ruoterebbe l’operazione di recupero e rilancio del Napoli dalla C1, dopo il fallimento Naldi. Per il momento, il piano rimane coperto, in attesa degli sviluppi della vicenda Gaucci. Ma se dovesse tramontare questa opzione, la carta di Bassolino farebbe centro: cancellerebbe Naldi, azzererebbe Pomicino e rilancerebbe il Napoli sul modello Fiorentina, anche se si dovrà ripartire dalla C. ANDREA CINQUEGRANI ANTONIO MENNA I NIPOTINI DI GIULIO Popolarità vuol dire porte che si aprono, politica che si mobilita, affari che si moltiplicano. Luciano Gaucci la regola l’ha imparata nientemeno che da Giulio Andreotti, a cui è legato da un’amicizia lunghissima. Non a caso a Napoli è stato traghettato da Paolo Cirino Pomicino, che ha bussato a tutte le porte per dare una mano a Gaucci: da quella ormai classica dell’imprenditore Franco Ambrosio (che potrebbe essere un futuro socio del Napoli) a quelle di Franco Carraro e Adriano Galliani, via Gianni Letta. Forte della comune esperienza ministeriale (Carraro era ministro del Turismo nel governo Goria, alla fine degli anni Ottanta, quando Pomicino era responsabile del Bilancio), Pomicino ha sperato nell’aiuto del presidente della Federcalcio, che però non ha dato il suo contributo. Per Gaucci, insomma, il calcio e la politica sono sempre andati a braccetto. Negli anni ‘80 è vicepresidente della Roma, possiede il 13 per cento delle azioni e ha un legame di ferro con i democristiani della capitale. Innanzitutto con “zio Giulio” e poi, immancabile, con il cardinale Angelini. A un certo punto Andreotti gli consiglia di comprare la Lazio : così si possono controllare, in un colpo solo, le due squadre della capitale. Gaucci ci pensa e poi rifiuta: "presidente, come faccio, i romanisti non capirebbero", gli disse. Ma poi si pentì. "Aveva ragione lui, io ero ancora ingenuo". Successivamente Andreotti prescelse Giuseppe Ciarrapico. E Gaucci fece le valigie ed “emigrò” a Perugia, dove comprò la squadra di calcio ma fece fiorire anche i suoi affari. L’impresa di pulizie che aveva messo su dopo aver lasciato il posto di autista dell’Atac e il mestiere di oste, era arrivata a 3mila dipendenti e Gaucci aveva cominciato a comprare e vendere scuderie di cavalli. Tra animali e pulizie, calcio e prime pagine di giornali, Gaucci cominciò a collezionare squadre e interviste. Comprò la Sambenedettese , poi la Viterbese , poi il Catania. Oggi sbarca a Napoli, via Pomicino.

 

Le Parmalat prossime venture

Venerdì 16 Gennaio 2004 01:00 Domenico Marcello
Stampa PDF
16.01.2004

Le Parmalat prossime venture


E ora, a chi tocca? In Italia e nel mondo c’è chi se lo chiede con preoccupazione, dopo i crac globali. Ma esiste un modo semplice per chiudere con le supertruffe: vietare alle società quotate di avere rapporti con finanziarie insediate nei paradisi fiscali

di Domenico Marcello

Quante altre Parmalat ci sono in giro? La risposta dipende solo dalla bontà d’animo e dall’educazione ricevuta dai nostri capitani di industria. Se hanno il profilo etico «madre Teresa», gli azionisti, gli obbligazionisti e i dipendenti sono in una botte di ferro. Se invece tendono all’opzione Calisto Tanzi, si può solo pregare.
I controlli? Le nuove autorità di sorveglianza? Di fronte alle architetture societarie e alle partnership internazionali di grandi, medi e piccoli gruppi quotati, non esiste controllo che tenga. Parmalat lo dice chiaramente. Una volta, per una buona truffa, ci voleva ingegno. Il truffatore doveva studiare le leggi, conoscere mezzi e cavilli, dominare i segreti dell’animo umano. Con Calisto Tanzi è tutto finito. Non ha neppure dovuto pagare i politici come hanno fatto i manager di Enron negli Stati Uniti e forse, se lo ha fatto, è stato all’inizio, ai tempi di Giovanni Goria, Ciriaco De Mita e della Confagricoltura targata Dc. Allo smemorato di Collecchio è bastato autocertificarsi un deposito di 4 miliardi di euro presso la Bank of America, primario istituto, e corrompere un po’ di revisori, sindaci, amministratori, funzionari e dirigenti di banca.

La Parmalat era l’ideale per questo business. L’azienda di Collecchio comprava uno yoghurt e lo pagava dopo un anno. Ma voi lo pagavate dopo mezz’ora al massimo, alla cassa. Il vostro euro, moltiplicato per miliardi di pezzi, aveva dodici mesi di tempo per farsi il giro del mondo: Brasile, Venezuela, Ecuador, Ungheria. Magari si trovava bene e non tornava più a casa. Dove si trasferiva? Il Brasile e il Venezuela sono belli, ma c’è la delinquenza. Il vostro euro preferiva le Bahamas, le Isole Vergini Britanniche, le Cayman, Curaçao, Malta e tutti quei posti sicuri dove si possono creare società senza pagare le tasse e senza timore di controlli. Diario se ne occupò all’indomani delle Twin Towers (sul numero 40 del 2001), quando George Bush aveva promesso di sbaraccarli per tagliare i viveri a Osama. Ma loro sono ancora là.

AL RIPARO DAL FISCO. In inglese si chiamano tax havens. Haven significa porto, riparo, ma assomiglia a heaven (cielo) e dunque paradiso. Dai paradisi fiscali e societari si costruisce la catena. Non serve un genio. Basta un contabile, il Fausto Tonna di turno, e un avvocato per le pratiche. Niente di troppo costoso. La catena deve arrivare in Italia, al vostro yoghurt, in modo che gli anelli principali non siano identificabili. Per esempio, la magistratura sta verificando l’ipotesi che i grossisti della Parmalat, cioè quelli che raccoglievano latte e yoghurt dagli allevatori e lo rivendevano ai Tanzi, fossero in società con gli stessi Tanzi. Nel paradiso delle Antille olandesi. Quindi Tanzi, schermato, fatturava alla Parmalat. Si può immaginare che questi grossisti spuntassero prezzi vantaggiosi. Se i fornitori risultavano così esosi da mettere in crisi conti aziendali, l’impresa si indebitava. Se invece i conti andavano bene, si investiva l’utile, per esempio, nel fondo Epicurum di Grand Cayman. Purché in entrambi i casi si coinvolgessero società o istituzioni fuori, o lontanissime, da ogni possibilità di identificazione.

Quante società quotate italiane hanno a che fare con società e istituzioni finanziarie insediate in paradisi fiscali o societari? Moltissime. È evidente che l’Eni non può fare a meno di concludere affari con società straniere. Quando gli affari erano tangenti, come dimostra il processo che si è chiuso a Milano in primo grado l’anno scorso, si ricorreva a Pierfrancesco Pacini Battaglia che disponeva di una banca e di una galassia di società insediate in paradisi fiscali e societari. Grandi affari all’estero anche per Fininvest nella fase precedente la quotazione di Mediaset, quando bisognava rendere voluminosa la library dei diritti cinematografici attraverso le società amministrate da David McKenzie Mills. Ma parecchi grandi gruppi ricorrono a entrambi i livelli della catena a scomparsa. Non solo nel business corrente ma anche nel controllo. La filiera di controllo di Telecom e dei suoi azionisti dopo la privatizzazione è stata spesso affidata a società estere e in parte lo è tuttora. I finanzieri emersi dalla prima scalata alla compagnia telefonica nazionale, come Roberto Colaninno e Chicco Gnutti, usano strutture esterovestite in modo massiccio. Anche la famiglia Benetton, socia di Marco Tronchetti in Telecom, controlla Autostrade attraverso Edizione Finance Sa. L’elenco è lungo. Senza minimamente paragonare le intenzioni di questi imprenditori con quelle di Tanzi, fra le loro società e la Parmalat esiste, oltre al ricorso a entità estere, una seconda analogia. Caselli, ristori autostradali, bollette, carte prepagate sono tutte attività che generano flussi di cassa enormi. Sono come banche, ma senza i controlli che subiscono gli istituti di credito. Né Bankitalia, né la Bce ( la Banca centrale europea), hanno titolo o diritto per chiedere informazioni in base alle norme in vigore.

La terza analogia è che queste imprese hanno la capacità di produrre una massa di debiti colossale. Come la Fininvest prima di quotare in Borsa le tv e come la Parmalat prima di crollare, queste aziende incassano tantissimo, spesso guadagnano tanto ma, per una ragione o per l’altra, devono chiedere soldi di continuo. È il caso ancora di Telecom che ha appena varato un prestito obbligazionario da 3 miliardi di euro per rifinanziare il debito esistente. Nonostante la vendita di Seat, l’indebitamento netto è pari alla cifra mostruosa di 34,2 miliardi al settembre 2003 contro un fatturato di 22,6 miliardi nei primi tre trimestri dello scorso anno.
La moda delle catene paradisiache ha investito anche le nuove star degli investimenti che hanno debuttato nel 2003. Capitalia, l’istituto che rischia di più dai crac Parmalat e Cirio, ha accolto fra i suoi azionisti di spicco Stefano Ricucci, ex odontotecnico che – sono parole sue – faceva «trading di sportelli bancari» partendo da un piccolo prestito (20 milioni di lire) garantito dalla busta paga del padre, autista dell’Atac. I suoi soldi arrivano dal Lussemburgo, Paese Ue, ma nessuno può essere certo dell’identità dei proprietari della Magiste International di Ricucci conferita a una fiduciaria di Guernsey (Baring trustees).

Lo stesso vale per Danilo Coppola che ha messo i soldi in Banca nazionale del lavoro, dove alla fine dello scorso anno è entrato anche Ricucci. Immobiliarista di non eccelse fortune, indebitato, Coppola fa tutto attraverso due holding lussemburghesi. Una si chiama Keope ed è controllata dalla lussemburghese Sfinge (all’inizio si chiamava Finge, ma forse non era il caso) che è controllata da Lirepa (anche questa lussemburghese) che è controllata da non si sa chi. In questo caso il governatore Antonio Fazio potrebbe avere subodorato qualche stranezza. Ma sembra proprio di no, fino a prova contraria. Allora Giulio Tremonti tenta di farlo fuori attribuendogli il cadavere di Parmalat, anche se lì l’«organo apicale» (come Bankitalia chiama se stessa con caratteristica modestia) c’entra poco, anzi niente.
La Banca d’Italia, mitizzata dalla sinistra dai tempi dello scontro fra Guido Carli e Michele Sindona fino agli attuali girotondi pro Fazio di Piero Fassino ed Enrico Letta, lavora sui cosiddetti ratios, che sono rapporti matematici fra poste di bilancio. La Parmalat li rispettava, grazie ai falsi. Erano, bisogna ripeterlo, falsi banali. Fra gli specialisti del riciclaggio sono noti da almeno quindici anni come truffe delle promissory notes (usate anche da Igor Marini, che le ha citate nei suoi interrogatori sul caso Telekom-Serbia): con un certificato di deposito si va in una banca, si mollano un po’ di mazzette e si tenta di ottenere un finanziamento o un’ulteriore garanzia da scontare in una terza banca. Il tesoro è sempre da qualche parte, lontano, in un posto sicuro e fuori controllo. A volte c’è (mafiosi), a volte non c’è (bidonisti semplici).

GLI SPECIALISTI DELLE TRUFFE. Varie associazioni criminali, dalla ’Ndrangheta ai russi, hanno tentato di sfruttare questo schema, con scarse soddisfazioni. Primo, perché la corruzione è una spesa e, se si vogliono corrompere i pezzi grossi, bisogna rischiare milioni. Secondo, perché ad alto livello la truffa con le promissory notes non la beve più nessuno da anni. Il caso più recente, che riguarda il tesoro dell’ex dittatore indonesiano Sukarno e per il quale è in corso un processo a Trento, è una truffa fra commercialisti di provincia. Questo accade anche perché la lotta al riciclaggio mafioso, con tutti i suoi limiti, si è data una struttura internazionale. L’Ocse e il Gafi pubblicano quasi di mese in mese le loro liste nere e chiedono sanzioni. Nell’insieme, non funzionano tanto peggio della mitica Sec, additata come esempio da molti, ma incapace di impedire i botti di Enron e Worldcom, o lo scandalo che ha coinvolto la Nyse , la Borsa di New York, per il maxi stipendio elargito al suo ex capo, Richard Grasso, oggi sotto inchiesta. Oggi, in campo internazionale, sotto osservazione sono società come Adecco, Shell, Ahold...
Eppure non sarebbe difficile prevenire almeno le truffe. È vero che i malvagi ci saranno sempre e che nessuna polizia ha mai estinto il crimine. Però la soluzione esiste ed è ortodossa sul piano giuridico. È sufficiente vietare alle società quotate di avere rapporti economici di una certa entità con società e istituzioni finanziarie insediate in paradisi fiscali o societari. Il principio è quello dell’identità certa in operazioni che abbiano a che fare con la sicurezza pubblica.
In questo caso, la sicurezza del pubblico risparmio. Se accadesse, è certo che centinaia di prestanome a Jersey, Madeira, Vaduz, Montecarlo, Nassau e così via dovrebbero trovarsi un lavoro onesto. Ma il problema non sono i livelli occupazionali. Se i paradisi chiudono, i ricchi devono pagare le tasse. Arrivederci alla prossima Parmalat.