L'intervista integrale di Paolo Borsellino ai due
giornalisti francesi Fabrizio Calvi e Jean-Pierre Moscardo di Canal Plus,
rilasciata il 21 maggio 1992 e pubblicata da l'Espresso l'8 aprile 1994...
Tra queste centinaia di imputati ce n'è uno che ci interessa: tale
Vittorio Mangano, lei l'ha conosciuto?
«Sì, Vittorio Mangano l'ho conosciuto anche in periodo antecedente al
maxiprocesso, e precisamente negli anni fra il '75 e l'80. Ricordo di avere
istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di
talune cliniche private palermitane e che presentavano una caratteristica
particolare. Ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con
una testa di cane mozzata.
L'indagine fu particolarmente fortunata perché - attraverso dei numeri che sui
cartoni usava mettere la casa produttrice - si riuscì rapidamente a individuare
chi li aveva acquistati. Attraverso un'ispezione fatta in un giardino di una
salumeria che risultava aver acquistato questi cartoni, in giardino ci
scoprimmo sepolti i cani con la testa mozzata. Vittorio Mangano restò coinvolto
in questa inchiesta perché venne accertata la sua presenza in quel periodo come
ospite o qualcosa del genere - ora i miei ricordi si sono un po' affievoliti -
di questa famiglia, che era stata autrice dell'estorsione. Fu processato, non
mi ricordo quale sia stato l'esito del procedimento, però fu questo il primo
incontro processuale che io ebbi con Vittorio Mangano. Poi l'ho ritrovato nel
maxiprocesso perché Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da
Contorno come uomo d'onore appartenente a Cosa Nostra».
Uomo d'onore di che famiglia?
«L'uomo d'onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo
della famiglia di Porta Nuova, famiglia della quale originariamente faceva
parte lo stesso Buscetta. Si accertò che Vittorio Mangano, ma questo già
risultava dal procedimento precedente che avevo istruito io e risultava altresì
da un procedimento cosiddetto procedimento Spatola, che Falcone aveva istruito
negli anni immediatamente precedenti al maxi-processo, che Vittorio Mangano
risiedeva abitualmente a Milano, città da dove come risultò da numerose
intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale del traffico di droga, di
traffici di droga che conducevano le famiglie palermitane».
E questo Vittorio Mangano faceva traffico di droga a Milano?
«Il Mangano, di droga... (Borsellino comincia a rispondere, poi si
corregge, ndr), Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono
le emergenze probatorie più importanti, risulta l'interlocutore di una
telefonata intercorsa fra Milano e Palermo nel corso della quale lui,
conversando con altro personaggio delle famiglie mafiose palermitane,
preannuncia o tratta l'arrivo di una partita d'eroina chiamata
alternativamente, secondo il linguaggio convenzionale che si usa nelle
intercettazioni telefoniche, come "magliette" o "cavalli"».
Comunque lei in quanto esperto, lei può dire che quando Mangano parla
di cavalli al telefono vuol dire droga?
«Sì. Tra l'altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga è una tesi che
fu asseverata nella nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta in
dibattimento, tant'è che il Mangano fu condannato al dibattimento del
maxiprocesso per traffico di droga». (Il Mangano è stato sottomesso al processo
dibattimentale ed è stato condannato per questo traffico di droga. Credo che
non venne condannato per associazione mafiosa - beh, sì per associazione
semplice - riporta in primo grado una pena di 13 anni e 4 mesi di reclusione
più 700 milioni di multa... La sentenza di Corte d'Appello confermò questa
decisione di primo grado..., ndr).
Quando ha visto per la prima volta Mangano?
«La prima volta che l'ho visto anche fisicamente? Fra il '70 e il '75».
Per interrogarlo?
«Sì, per interrogarlo».
E dopo è stato arrestato?
«Fu arrestato fra il '70 e il '75. Fisicamente non ricordo il momento in cui
l'ho visto nel corso del maxiprocesso, non ricordo neanche di averlo
interrogato personalmente. Si tratta di ricordi che cominciano a essere un po'
sbiaditi in considerazione del fatto che sono passati quasi 10 anni».
Dove è stato arrestato, a Milano o a Palermo?
«A Palermo la prima volta (è la risposta di Borsellino; ai giornalisti
interessa capire in quale periodo il mafioso vivesse ad Arcore, ndr)».
Quando, in che epoca?
«Fra il '75 e l'80, probabilmente fra il '75 e l'80».
Ma lui viveva già a Milano?
«Sicuramente era dimorante a Milano anche se risulta che lui stesso afferma di
spostarsi frequentemente tra Milano e Palermo».
E si sa cosa faceva a Milano?
«A Milano credo che lui dichiarò di gestire un'agenzia ippica o qualcosa del
genere. Comunque che avesse questa passione dei cavalli risulta effettivamente
la verità, perché anche nel processo, quello delle estorsioni di cui ho
parlato, non ricordo a che proposito venivano fuori i cavalli. Effettivamente
dei cavalli, non "cavalli" per mascherare il traffico di
stupefacenti».
Ho capito. E a Milano non ha altre indicazioni sulla sua vita, su cosa
faceva?
«Guardi: se avessi la possibilità di consultare gli atti del procedimento molti
ricordi mi riaffiorerebbero...».
Ma lui comunque era già uomo d'onore e negli anni Settanta?
«... Buscetta lo conobbe già come uomo d'onore in un periodo in cui furono
detenuti assieme a Palermo antecedente gli anni Ottanta, ritengo che Buscetta
si riferisca proprio al periodo in cui Mangano fu detenuto a Palermo a causa di
quell'estorsione nel processo dei cani con la testa mozzata... Mangano negò in
un primo momento che ci fosse stata questa possibilità d'incontro... ma tutti e
due erano detenuti all'Ucciardone qualche anno prima o dopo il '77».
Volete dire che era prima o dopo che Mangano aveva cominciato a
lavorare da Berlusconi? Non abbiamo la prova...
«Posso dire che sia Buscetta che Contorno non forniscono altri particolari
circa il momento in cui Mangano sarebbe stato fatto uomo d'onore. Contorno
tuttavia - dopo aver affermato, in un primo tempo, di non conoscerlo - precisò
successivamente di essersi ricordato, avendo visto una fotografia di questa
persona, una presentazione avvenuta in un fondo di proprietà di Stefano Bontade
(uno dei capi dei corleonesi, ndr)».
Mangano conosceva Bontade?
«Questo ritengo che risulti anche nella dichiarazione di Antonino Calderone
(Borsellino poi indica un altro pentito ora morto, Stefano Calzetta, che
avrebbe parlato a lungo dei rapporti tra Mangano e una delle famiglie di corso
dei Mille, gli Zanca, ndr)...».
Un inquirente ci ha detto che al momento in cui Mangano lavorava a casa
di Berlusconi c'è stato un sequestro, non a casa di Berlusconi però di un
invitato (Luigi D'Angerio, ndr) che usciva dalla casa di Berlusconi.
«Non sono a conoscenza di questo episodio».
Mangano è più o meno un pesce pilota, non so come si dice,
un'avanguardia?
«Sì, le posso dire che era uno di quei personaggi che, ecco, erano i ponti, le
"teste di ponte" dell'organizzazione mafiosa nel Nord Italia. Ce
n'erano parecchi ma non moltissimi, almeno tra quelli individuati. Un altro
personaggio che risiedeva a Milano, era uno dei Bono (altri mafiosi coinvolti
nell'inchiesta di San Valentino, ndr) credo Alfredo Bono che nonostante fosse
capo della famiglia della Bolognetta, un paese vicino a Palermo, risiedeva
abitualmente a Milano. Nel maxiprocesso in realtà Mangano non appare come uno
degli imputati principali, non c'è dubbio comunque che... è un personaggio che
suscitò parecchio interesse anche per questo suo ruolo un po' diverso da quello
attinente alla mafia militare, anche se le dichiarazioni di Calderone (nel '76
Calderone è ospite di Michele Greco quando arrivano Mangano e Rosario Riccobono
per informare Greco di aver eliminato i responsabili di un sequestro di persona
avvenuto, contro le regole della mafia, in Sicilia, ndr) lo indicano anche come
uno che non disdegnava neanche questo ruolo militare all'interno
dell'organizzazione mafiosa...».
Dunque Mangano era uno che poi torturava anche?
«Sì, secondo le dichiarazioni di Calderone».
Dunque quando Mangano parla di "cavalli" intendeva droga?
«Diceva "cavalli" e diceva "magliette", talvolta».
Perché se ricordo bene c'è nella San Valentino un'intercettazione tra
lui e Marcello Dell'Utri, in cui si parla di cavalli (dal rapporto Criminalpol:
«Mangano parla con tale dott. Dell'Utri e dopo averlo salutato cordialmente gli
chiede di Tony Tarantino. L'interlocutore risponde affermativamente... il
Mangano riferisce allora a Dell'Utri che ha un affare da proporgli e che ha
anche "il cavallo" che fa per lui. Dell'Utri risponde che per il
cavallo occorrono "piccioli" e lui non ne ha. Mangano gli dice di
farseli dare dal suo amico "Silvio". Dell'Utri risponde che quello lì
non "surra" [non c'entra, ndr]»).
«Sì, comunque non è la prima volta che viene utilizzata, probabilmente non
si tratta della stessa intercettazione. Se mi consente di consultare
(Borsellino guarda le sue carte, ndr). No, questa intercettazione è tra Mangano
e uno della famiglia degli Inzerillo... Tra l'altro questa tesi dei cavalli che
vogliono dire droga è una tesi che fu asseverata nella nostra ordinanza
istruttoria e che poi fu accolta in dibattimento, tant'è che Mangano fu
condannato».
E Dell'Utri non c'entra in questa storia?
«Dell'Utri non è stato imputato nel maxiprocesso, per quanto io ricordi. So che
esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano».
A Palermo?
«Sì. Credo che ci sia un'indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio
rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i
particolari».
Dell'Utri. Marcello Dell'utri o Alberto Dell'Utri? (Marcello e Alberto
sono fratelli gemelli, Alberto è stato in carcere per il fallimento della
Venchi Unica, oggi tutti e due sono dirigenti Fininvest, ndr).
«Non ne conosco i particolari. Potrei consultare avendo preso qualche appunto
(Borsellino guarda le carte, ndr), cioè si parla di Dell'Utri Marcello e
Alberto, entrambi».
I fratelli?
«Sì».
Quelli della Publitalia, insomma?
«Sì».
E tornando a Mangano, le connessioni tra Mangano e Dell'Utri?
«Si tratta di atti processuali dei quali non mi sono personalmente occupato,
quindi sui quali non potrei rivelare nulla».
Sì, ma nella conversazione con Dell'Utri poteva trattarsi di cavalli?
«La conversazione inserita nel maxiprocesso, se non piglio errori, si parla di
cavalli che dovevano essere mandati in un albergo (Borsellino sorride, ndr).
Quindi non credo che potesse trattarsi effettivamente di cavalli. Se qualcuno
mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all'ippodromo, o comunque al
maneggio. Non certamente dentro l'albergo».
In un albergo. Dove?
«Oddio i ricordi! Probabilmente si tratta del Plaza (l'albergo di Antonio
Virgilio, ndr) di Milano».
Ah, oltretutto.
«Sì».
C'è una cosa che vorrei sapere. Secondo lei come si sono conosciuti
Mangano e Dell'Utri?
«Non mi dovete fare queste domande su Dell'Utri perché siccome non mi sono
interessato io personalmente, so appena... dal punto di vista, diciamo, della
mia professione, ne so pochissimo, conseguentemente quello che so io è quello
che può risultare dai giornali, non è comunque una conoscenza professionale e
sul punto non ho altri ricordi».
Sono di Palermo tutti e due...
«Non è una considerazione che induce alcuna conclusione... a Palermo gli uomini
d'onore sfioravano le 2000 persone, secondo quanto ci racconta Calderone,
quindi il fatto che fossero di Palermo tutti e due, non è detto che si
conoscessero».
C'è un socio di Dell'Utri tale Filippo Rapisarda (i due hanno lavorato
insieme; la telefonata intercettata di Dell'Utri e Mangano partiva da un'utenza
di via Chiaravalle 7, a
Milano, palazzo di Rapisarda, ndr) che dice che questo Dell'Utri gli è stato
presentato da uno della famiglia di Stefano Bontade (i giornalisti si
riferiscono a Gaetano Cinà che lo stesso Rapisarda ha ammesso di aver
conosciuto con il boss dei corleonesi, Bontade, ndr).
«Beh, considerando che Mangano apparteneva alla famiglia di Pippo Calò...
Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano le più numerose
- almeno 2000 uomini d'onore con famiglie numerosissime - la famiglia di
Stefano Bontade sembra che in certi periodi ne contasse almeno 200. E si
trattava comunque di famiglie appartenenti a un'unica organizzazione, cioè Cosa
Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti e quindi è presumibile
che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera... So dell'esistenza di
Rapisarda ma non me ne sono poi occupato personalmente».
A Palermo c'è un giudice che se n'è occupato?
«Credo che attualmente se ne occupi..., ci sarebbe un'inchiesta aperta anche
nei suoi confronti...».
A quanto pare Rapisarda e Dell'Utri erano in affari con Ciancimino,
tramite un tale Alamia (Francesco Paolo Alamia, presidente dell'immobiliare
Inim e della Sofim, sede di Milano, ancora in via Chiaravalle 7, ndr).
«Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e
che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto
riguarda Dell'Utri e Rapisarda non so fornirle particolari indicazioni
trattandosi, ripeto sempre, di indagini di cui non mi sono occupato
personalmente».
Si è detto che Mangano ha lavorato per Berlusconi.
«Non le saprei dire in proposito. Anche se, dico, debbo far presente che come
magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo poiché ci
sono addirittura... so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso
in proposito, per le quali non conosco addirittura quali degli atti siano ormai
conosciuti e ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che
riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi è una vicenda - che la ricordi o
non la ricordi -, comunque è una vicenda che non mi appartiene. Non sono io il
magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla».
Ma c'è un'inchiesta ancora aperta?
«So che c'è un'inchiesta ancora aperta».
Su Mangano e Berlusconi? A Palermo?
«Su Mangano credo proprio di sì, o comunque ci sono delle indagini istruttorie
che riguardano rapporti di polizia concernenti anche Mangano».
Concernenti cosa?
«Questa parte dovrebbe essere richiesta... quindi non so se sono cose che si
possono dire in questo momento».
Come uomo, non più come giudice, come giudica la fusione che abbiamo
visto operarsi tra industriali al di sopra di ogni sospetto come Berlusconi e
Dell'Utri e uomini d'onore di Cosa Nostra? Cioè Cosa Nostra s'interessa
all'industria, o com'è?
«A prescindere da ogni riferimento personale, perché ripeto dei riferimenti a
questi nominativi che lei fa io non ho personalmente elementi da poter
esprimere, ma considerando la faccenda nelle sue posizioni generali: allorché
l'organizzazione mafiosa, la quale sino agli inizi degli anni Settanta aveva
avuto una caratterizzazione di interessi prevalentemente agricoli o al più di
sfruttamento di aree edificabili. All'inizio degli anni Settanta Cosa Nostra
cominciò a diventare un'impresa anch'essa. Un'impresa nel senso che attraverso
l'inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura
monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a
gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali,
naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte
venivano esportati o depositati all'estero e allora così si spiega la vicinanza
fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi
movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema
e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a
seguire una via parallela e talvolta tangenziale all'industria operante anche
nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità
imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano
trovati in possesso».
Dunque lei dice che è normale che Cosa Nostra s'interessi a Berlusconi?
«E' normale il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli
strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del
riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente
questa esigenza, questa necessità per la quale l'organizzazione criminale a un
certo punto della sua storia si è trovata di fronte, è stata portata a una
naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per
trovare uno sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un
certo punto della sua storia, Cosa Nostra si è trovata in contatto con questi
ambienti industriali».
E uno come Mangano può essere l'elemento di connessione tra questi
mondi?
«Ma, guardi, Mangano era una persona che già in epoca ormai diciamo databile
abbondantemente da due decadi, era una persona che già operava a Milano, era
inserita in qualche modo in un'attività commerciale. E' chiaro che era una
delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa Nostra, in
grado di gestire questi rapporti».
Però lui si occupava anche di traffico di droga, l'abbiamo visto anche
in sequestri di persona...
«Ma tutti questi mafiosi che in quegli anni - siamo probabilmente alla fine
degli anni '60 e agli inizi degli anni '70 - appaiono a Milano, e fra questi
non dimentichiamo c'è pure Luciano Liggio, cercarono di procurarsi quei
capitali, che poi investirono negli stupefacenti, anche con il sequestro di
persona».
(A questo punto Paolo Borsellino consegna dopo qualche esitazione ai
giornalisti 12 fogli, le carte che ha consultato durante l'intervista) «Alcuni
sono sicuramente ostensibili perché fanno parte del maxiprocesso, ormai è
conosciuto, è pubblico, alcuni non lo so...». Non sono documenti processuali
segreti ma la stampa dei rapporti contenuti dalla memoria del computer del pool
antimafia di Palermo, in cui compaiono i nomi delle persone citate nell'intervista:
Mangano, Dell'Utri, Rapisarda, Berlusconi, Alamia.
E questa inchiesta quando finirà?
«Entro ottobre di quest'anno...».
Quando è chiusa, questi atti diventano pubblici?
«Certamente...».
Perché ci servono per un'inchiesta che stiamo cominciando sui rapporti
tra la grossa industria...
«Passerà del tempo prima che...», sono le ultime parole di Paolo Borsellino.