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15.02.2007 - Il Secolo XIX
Genova si liberi dalla “Cupola” del potere
di Pierfranco Pellizzetti
Già lo si diceva: iniziano a volare i calcinacci dalla Cupola sotto le cui volte, per sessant’ anni, l’Antico Regime del Potere genovese celebrato i propri riti coperti. La “Cupola” – dunque come metafora dell’assetto che domina la nostra vita citrina del secondo dopoguerra: ossia, lo stretto controllo del politico sul sociale in una logica spartitoria, di cui il city-boss dell’epoca, Paolo Emilio Taviani, è stato il principale artefice. Allora la spartizione delle sfere di influenza tra il centro cittadino “bianco”, con annesse istituzioni finanziarie e di rappresentanza, e il Ponente “rosso”. Ora il “quadrilatero magico” in cui viene risucchiata l’intera vita pubblica locale e i cui vertici – secondo boatos ricorrenti – sarebbero rappresentati da Claudio burlando, Claudio Scajola, Giovanni Berneschi e Giuseppe Pericu.
Quali le cause di un tale movimento tellurico che mette a repentaglio consolidati equilibri (non meno delle reti di comparaggio, portate alla luce dall’inchiesta di Paolo Crecchi su questo giornale)?
Al solito giocano fattori soggettivi: di certo la capacità personale di Marta Licenzi nell’aggregare consensi e rivitalizzare reti di appartenenza, riconfermata dagli esiti delle primarie, e la nuova leadership locale dei Ds (proprio perché giovane, meno imprigionata nelle panie della nomenklatura); di converso, la scarsa qualità della politica evidenziata dai guardiani dell’Antico Regime. Genova ha già conosciuto altri esemplari di politico realista tendente al cinico. Messa a confronto, la brillantezza intellettuale di quel personale dirigente risulta di gran lunga superiore a quella attuale. Un nome per tutti: Antonio Canepa, il giovane deputato socialista prematuramente (e drammaticamente) scomparso.
D’altro canto, una diagnosi giocata solo sugli attori di campo non spiegherebbe perché, in passato, l’Antico Regime riuscì a tenere la situazione sotto controllo e riassorbire le spinte divergenti. Come nel caso di Adriano sansa, sindaco disorganico alla Cupola, terminato nella seconda metà degli anni ’90. Sicchè qui bisogna far entrare in gioco i fattori strutturali. In particolare la natura del controllo, funzionale a un modello socio-economico basato sulla rendita e la gestione dei trasferimenti pubblici. Quello che è stato “il Lungo Novecento” genovese, da cui stentiamo a fuoriuscire.
Perché l’entrata nel XXI secolo presuppone la necessità di affrontare la questione sviluppo: quale necessità di affrontare la questione sviluppo: quale modello sia – insieme – competitivo e compatibile; coniughi efficienza e qualità ambientale. Dunque, discontinuità. La parola d’ordine dell’attuale candidata sindaco che ha mandato in fibrillazione i custodi dell’ordine vigente. Una candidata che si cercò di fermare nelle pre-primarie di partito e poi con la tardiva entrate in campo di Stefano Zara. Inutilmente.
Ora si scorgono segnali di un tentativo in atto per arruolare a tale scopo il candidato della destra Enrico Musso. Come potrebbe indurre a pensarlo i ricorrenti apprezzamenti nei suoi confronti da parte di Pericu. Il giovane docente presterà ascolto al canto delle sirene? La sua candidatura poteva essere la spia che anche a destra c’è stato uno scontro: tra i propugnatori dell’inciucio (leggi lista civica bipartisan) e chi non si rendeva disponibile (una parte di An). Il suo dichiarato disegno di recuperare parte del consenso di Zara (e una certa biografia personale) segnalerebbe disponibilità nei confronti di un elemento fondativi della Cupola: il trasversalismo.
A riprova che a Genova “il punto che avanza” non è anagrafico ma dipende esclusivamente dalle strategie che si intendono perseguire.
In primo luogo, tornare a “pensare città” come esercizio che coinvolga l’intera cittadinanza. Per riprendere a crescere. Tutti insieme. Mentre le nuove politiche (da anni ’70!) del decentramento tenderebbero a sminuzzare lo spazio civico in tanti mini-municipi. Per la gratificazione di una manciata di politici di quartiere ma – contemporaneamente – creando anche tra noi quanto stà avvenendo nelle città investite dalla globalizzazione: uno splendido centro degli affari e dei benestanti, circondato da periferie abbandonate al proprio destino. Forse l’ultimo lascito di quei signori dell’Antico Regime di cui si potrebbe dire quanto Tocqueville diceva dei nobili rientrati in Francia alla Restaurazione:”Non hanno imparato niente, non hanno scordato niente”.
19.02.2007 - Il Secolo XIX
Le “cupole”, il linguaggio e la presa del potere
di Pierfranco Pellizzetti
Apprendo del risentimento suscitato con i termini “cupola” e “comparaggio”, buttati nell’opinione del 15 scorso. Intendevo proporre l’equazione Beppe Pericu uguale a Totò Riina? Persino imbarazzante doverlo smentire. A scanso di equivoci ribadisco l’uso metaforico dei termini, che stanno a significare reti di sodalità proprie di contesti pre-moderni.
In altre sedi non sarebbe necessario dichiarare il contenuto simbolico delle parole politiche. Cha vanno contestualizzate. Qui tra noi, con un dibattito pubblico findus, congelato da decenni, capisco sia necessario spiegarlo. Ci proverò prendendo ad esempio “sicurezza”, una delle principali parole feticcio dell’odierno lessico politico,che negli ultimi decenni muta drasticamente significato.
Per i primi trent’anni del dopo guerra (la stagione del welfare state) era “sicurezza di”: la tutela dei propri diritti e delle condizioni materiali che ne rendono possibile l’esercizio, una posizione certa nella società e nel lavoro, la garanzia del rispetto di se. Sicurezza di non essere umiliati. Dunque, fiducia nel futuro; in una lettura progressista del termine in questione.
Dopo la metà degli anni Settanta, la fiducia è virata in paura e la sicurezza diventa “da”. Quindi, sicurezza dallo sconosciuto che bussa alla tua porta e potrebbe attentare alla proprietà e alla persona, dal maniaco o dal drogato. Da “avvelenatori di pozzi o dirori di aerei”, come dice il sociologo anglo-polacco Zygmunt Barman. Nel passaggio dalla concretezza di condizioni positive alla nevrosi da minacce presunte.
Un cambio di umori e mentalità che la parola politica registra diventando marketing della paura: l’immensa operazione mediatica che ribalta le modalità di raccolta di consenso dalla convinzione all’intimidazione; che coincide con il passaggio di egemonia nella produzione di immagini collettivi dalla sinistra alla destra. E i nostri cieli si riempiono di mostri terribili:”imperi del Male”,poi “Stati canaglia armati per la distruzione di massa”. “L’alterità rifiutata perché fuori dal nostro spazio mentale” (Tzvetan Todorov). Quel ricatto ansiogeno su cui vengono costruiti successi elettorali. Da Bush a Berlusconi, dalla Lega a Le Pen.
Venendo a Genova, bisogna essere riconoscenti a Enrico Musso. Non solo in quanto, candidandosi, vanifica tentazioni inciucesche. Ma anche perché ha detto subito “qualcosa di destra”. Apportando chiarezza linguistica in un dibattito pubblico solamente crittato: la sicurezza-paura al centro della propria campagna elettorale.
Nota bene: poca importa l’attinenza del comunicato alla realtà. Poco importa che la Genova reale non sia il Bronx (come riscopriamo, ogni sera, passeggiando nel centro storico ripittato). Il mostro della criminalità in agguato lo si evoca come messaggio sublimare che induce reazioni elettorali automatiche.
Poco importa “l’osservazione dei criminologi che sono gli atti incivili (cioè la violazione delle regole ei decoro negli spazi urbani), più che l’aumento dei reati contro la persona, le vere cause della crescente insicurezza degli abitanti nelle metropoli” (Erving Goffman). Ossia, più di una questione di civismo che di numero di poliziotti sguinzagliati per le strade (il vandalismo – ad esempio – lo si combatte in famiglia e a scuola, con l’educazione e l’esempio; non nelle carceri).
Il marketing della paura messo in campo dalla destra non cura tali quisquilie. Gira a proprio vantaggio il fatto che l’insicurezza tipica della società odierna può essere raccontata efficacemente nei termini di incolumità da rischi (statistici) e minacce (psicologiche) più che come assicurazione collettiva contro le disgrazie individuali (reti di welfare).
E neppure è particolarmente interessato al fatto che la paranoia collettiva da microcriminalità (in riduzione) finisce per distrarre le forze dell’ordine, magistrati e tutti gli altri corpi dedicati alla pubblica sicurezza, dalla lotta alla grande criminalità organizzata (fenomeno in crescita esponenziale, anche a Genova).
Ciò che importa è sminuzzare la società in unu pulviscolo di atomi impazziti di paura e costruirci sopra la presa del potere. E questa è la riprova che le parole della politica saranno pure pietre, ma – come insegna Bob Dylan – sono “rotolanti”.
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Abbiamo cercato, già che
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di rinnovarlo e migliorarlo.
Ci sono ancora alcune cose
da sistemare e lo faremo
nei prossimi giorni.
Ma intanto si riparte!
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