...La difficoltà a volte insormontabile che si trovano di fronte gli inquirenti nella raccolta delle prove in materia di mafia hanno portato spesso all'applicazione di tecniche giudiziarie improntate al tipo d'autore, specialmente nelle zone d'Italia dove è più radicato il fenomeno mafioso e dove il comportamento omertoso è diffuso in una misura francamente disarmante...
Questo approccio giudiziario al fenomeno mafioso non ha mai dato, in verità, grandi frutti (si pensi ad esempio al processo di Palermo detto dei “114”, che si è risolto dopo i vari gradi di giudizio con circa un centinaio di assoluzioni per insufficienza di prove, se non addirittura con ampia formula): esso parte da un presupposto criminologicamente corretto (l'identificazione teorica fra associazione mafiosa e associazione per delinquere), dal quale vengono tratte tuttavia conseguenze a nostro giudizio fuorvianti sul piano della raccolta delle prove e dell'indirizzo da dare all'indagine, nel senso che viene ritenuto possibile e preferibile impostare e portare proficuamente a termine processi di mafia per il solo reato di associazione per delinquere, prescindendo dall'accertamento (spesso difficilissimo, nella realtà sociale delle zone di mafia) di singoli specifici episodi criminosi riferibili a taluno degli associati.
Il reato-mezzo verrebbe ricostruito processualemente, e quindi provato, di per se stesso, in base all'interpretazione di comportamenti tipici della subcultura e della tradizione parassitaria mafiosa, tenendo conto del patrimonio culturale della comunità di origine, e dei risultati delle indagini politico-storico-sociologiche in materia di mafia. Si sostiene così che gli indizi del reato di associazione per delinquere possano essere individuati anche in condotte che in processi di altro tipo sarebbero penalmente neutre, ma che assumono un particolare significato in un contesto mafioso.
Questo atteggiamento è stato recepito, ad esempio, dal Tribunale di Reggio Calabria che, all'inizio del 1979, ha condannato ventotto dei sessanta mafiosi rinviati a giudizio, per il solo reato di cui all'art. 416 c.p.p., dal giudice istruttore di quella città, in base a un quadro indiziario prevalentemente costituito da un reticolo di comportamenti parassitari tipicamente mafiosi (acquisti di fondi a prezzo vile, monopolizzazione dei trasporti di materiale nella zona del costruendo quinto centro siderurgico, affidamento di lavori a un'impresa dopo che la gara per l'aggiudicazione era andata deserta, rapidi arricchimenti, ecc).
Aveva scritto il giudice istruttore: “... solo in rarissimi casi è stato possibile acquisire la prova diretta dell'esistenza di un'associazione mafiosa. Sarebbe tuttavia aberrante, proprio per una situazione per sua natura impeditiva di tal genere di prova, rinunziare alla valutazione critica della condotta di vita di determinati personaggi, delle significative situazioni in cui si trovano costantemente coinvolti, e dei rapporti da cui sono continuamente ed alternativamente legati; e ciò nel contesto della situazione ambientale, dell'essenza e delle tipiche esplicazioni dell'istituzione mafiosa...”.
E più avanti: “... le indagini... sono state limitate all'accertamento della concreta rispondenza della qualità di appartenenti ad associazioni mafiose attribuita agli imputati nel rapporto, dei campi di interesse di tali associazioni, dell'ambiente in cui operano, della posizione e dei collegamenti di ciascun personaggio...”.
Chi scrive non intende certamente sottovalutare l'importanza del processo di Reggio Calabria, né il notevole sforzo culturale sottostante. Tuttavia, questo tipo di approccio giudiziario al fenomeno mafioso non può non lasciare perplessi; e va pertanto respinta, a nostro avviso, l'ipotesi di una sua generalizzazione in termini di “schema tipo” del processo di mafia. Trascurare l'accertamento dei singoli reati-fine imputabili ai membri delle organizzazioni mafiose, e ritenere di poter far derivare la responsabilità degli imputati in ordine al delitto di associazione per delinquere soltanto da “indizi” che consentano di qualificare gli imputati stessi come mafiosi, significa incamminarsi per una falsa scorciatoia, illusoria quanto pericolosa; una siffatta impostazione è suscettibile di interpretazioni soggettive e arbitrarie, e i ripetuti insuccessi giudiziari di indagini istruttorie condotte con tale metodo costituiscono la riprova che tale via non è praticabile.
D'altronde, che un processo di mafia impostato sul modello del “tipo d'autore” possa facilmente sfociare nell'insufficienza di prove sembra abbastanza scontato: e infatti, data l'equivocità del quadro indiziario, i giudici del dibattimento, qualora non siano particolarmente sensibili e propensi ad assumere particolari funzioni di supplenza, o anche qualora semplicemente non siano propensi ad allontanarsi dai principì del giusto processo, non potranno in molti casi che applicare l'insufficienza di prove. E non va dimenticato che l'insufficienza di prove viene considerata negli ambienti mafiosi quasi come una benemerenza. Il modello impostato al tipo d'autore va pertanto superato per seguire la strada, aderente al principio di legalità, che passa attraverso l'accertamento di specifici fatti delittuosi, e la costruzione di mosaici probatori che da quelli prendano l'avvio.
Tornando per un attimo alla sentenza della Corte di cassazione più sopra menzionata, osserviamo che, laddove fa riferimento a “consorterie mafiose organizzate per commettere una serie indeterminata di delitti contro il patrimonio o contro la libertà morale oppure la vita e l'incolumità individuale”, essa fornisce una fondamentale indicazione per una corretta impostazione del problema delle tecniche di indagine su associazioni mafiose: quella appunto relativa all'individuazione dei delitti propri delle associazioni stesse. Infatti il diritto penale non punisce la collettività criminose in quanto tali, bensì i singoli individui che le compongono; pertanto, anche se le organizzazioni mafiose costituiscono associazioni per delinquere, non è sufficiente dimostrare, ai fini della affermazione di responsabilità per tale delitto, che il singolo imputato è mafioso, occorrendo precisare, invece, quali siano i delitti in relazione ai quali lo stesso si è associato. Si delinea, così, l'unico metodo di indagini corretto sotto il profilo giuridico e suscettibile di utili risultati: quello che pone l'accento sulla individuazione dei cosiddetti reati-fine per risalire poi al delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso. D'altronde, proprio le singole condotte delittuose, sia quelle che abbiamo definito “necessitate”, che contrassegnano qua e là le attività imprenditoriali parassitarie, sia quelle direttamente volute sul terreno dell'accumulazione originaria violenta di ricchezza, costituiscono la contraddizione su cui le istituzioni possono fare leva per colpire la mafia sul piano giudiziario.
Solo quando siano state acquisite prove sulla consumazione da parte degli imputati di delitti tipici delle organizzazioni mafiose, gli altri “indizi” assumono ben diverso spessore e significazione e concorrono efficacemente a formare un complesso probatorio compatto e omogeneo. E' infatti innegabile che in un processo di mafia (in qualsiasi processo di mafia) il magistrato, inquirente o giudicante che sia, non potrà operare adeguatamente se non affrontando anche gli aspetti socioculturali del fenomeno, attraverso una corretta e intelligente interpretazione dei comportamenti tipici della subcultura mafiosa; tutto ciò, peraltro, in un quadro processuale non fluttuante, ma saldamente ancorato a precisi fatti delittuosi o almeno a un fatto delittuoso (quello da cui l'inchiesta prende l'avvio; ma l'esperienza insegna che nel corso del lavoro gli inquirenti possono poi imbattersi in altri fatti delittuosi, che finiscono col costituire altrettanti ulteriori puntelli cui ancorare il mosaico probatorio in costruzione).
Né si dica che le indagini condotte sui cosiddetti delitti-fine rischiano di far perdere di vista la complessità del fenomeno mafioso e di non coglierne le implicazioni con settori della vita pubblica, locale e nazionale, pesantemente condizionati dalle organizzazioni mafiose; è vero esattamente il contrario, poiché soltanto in virtù di una puntigliosa e faticosa ricostruzione degli aspetti più squisitamente criminali delle organizzazioni mafiose è possibile individuare la rete di complicità e di connivenze che le sorreggono. E' infatti ingenuo pensare che la scalata giudiziaria alla piramide mafiosa possa essere effettuata senza risalire pazientemente dalla base verso il vertice: premesso ovviamente che gli organi inquirenti devono essere messi nelle condizioni di poter operare adeguatamente, sta poi nella preparazione e all'abilità di questi ultimi il risalire nella gerarchia mafiosa, individuando pazientemente le relazioni di cosca, di frazione e di partito. E' appena il caso di aggiungere, poi, che attraverso un lavoro giudiziario di questo genere potrebbe finalmente ripristinare la centralità del processo penale nella lotta giudiziaria alla mafia, con conseguente superamento delle inadeguate e giustamente deprecate misure di prevenzione.
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A ben vedere, dunque il problema, sotto il profilo giuridico-processuale, non presenta peculiarità di rilievo, poiché il tema probatorio nelle indagini sulle associazioni d'indole mafiosa, non diverge da qualunque altra indagine concernente fenomeni di criminalità organizzata. Tuttavia, la specificità del fenomeno mafioso – con i suoi molteplici aspetti, con i suoi collegamenti con settori della vita pubblica, con le difficoltà a esso peculiari in ordine alla raccolta prove – impone particolare attenzione nella scelta delle tecniche investigative più adatte – impone particolare attenzione nella scelta delle tecniche investigative più adatte. A tale proposito osserviamo che un'attenta valutazione di quanto emerso da istruttorie di mafia già concluse o tuttora in corso, porta a constatare che il fenomeno del cosiddetto parassitismo (esprimentesi in guardianie, “pizzi”, “tangenti” e così via) sta subendo una radicale trasformazione, da quando l'enorme quantità di mezzi finanziari derivanti dalle attività criminali ha determinato la necessità, per il mafioso, di assumere in proprio responsabilità imprenditoriali per la gestione di attività economiche, apparentemente lecite, nelle quali poter investire il denaro. Si tratta in realtà di due aspetti dello stesso fenomeno, poiché sono stati, appunto, l'affinamento delle tecniche criminali e l'ingresso massiccio delle organizzazioni mafiose in lucrosissimi affari illeciti a produrre un'ingente quantità di ricchezza, con la conseguente necessità di investirla in attività economiche che, mentre consentono di riciclare il denaro sporco, producono a loro volta ulteriore ricchezza.
Da queste considerazioni si ricava allora, una prima indicazione di massima per le indagini su organizzazioni mafiose: è di fondamentale importanza accertare quali siano i delitti tipici delle organizzazioni e individuare i canali che consentano di riciclare la ricchezza proveniente dalle attività illecite, immettendola nelle attività economicamente lecite e paralecite. Infatti, il vero tallone d'Achille delle organizzazioni mafiose è costituito dalle tracce che lasciano dietro di sé i grandi movimenti di denaro connessi alle attività criminali più lucrose. Lo sviluppo di queste tracce, attraverso un'indagine patrimoniale che segua il flusso di denaro proveniente dai traffici illeciti, è quindi la strada maestra, l'aspetto decisamente da privilegiare nelle investigazioni in materia di mafia, perché è quello che maggiormente consente agli inquirenti di costruire un reticolo di prove obiettive, documentali, univoche, insuscettibili di distorsioni, e foriere di conferme e riscontri ai dati emergenti dall'attività probatoria di tipo tradizionale diretta all'immediato accertamento della consumazione dei delitti.
Tale metodo, d'altro canto, mentre può consentire di pervenire indirettamente all'accertamento delle responsabilità, è l'unico che possa consentire di compiere significativi progressi nel disvelamento di tutta quella rete di connivenze e complicità che, a qualunque livello, hanno permesso al fenomeno della criminalità organizzata di affermarsi e prosperare.
Si viene così a delineare un duplice principio generale, che a giudizio degli scriventi va assunto a pilastro fondamentale delle tecniche d'indagine in materia di mafia:
a) un'inchiesta di ampio respiro in materia di mafia potrà essere tanto più fioriera di risultati apprezzabili, quanto più si occuperà di fatti-reato rientranti in attività criminali direttamente produttive di movimenti di denaro;
b) avendo come oggetto privilegiato reati-fine del tipo sopra menzionato, e seguendo le tracce dei movimenti di denaro, l'inchiesta potrà più facilmente ricostruire un quadro probatorio capace di far luce sia sui reati-fine medesimi, sia sul reato-mezzo (associazione per delinquere)...
Estratto dalla relazione di Giovanni Falcone "Tecniche di indagine in materia di mafia"
dal libro "Giovanni Falcone - La posta in gioco" Ed. Bur - 2010