A Firenze si inizia a scoperchiare il pentolone di quel partito degli affari che da nord a sud, regioni rosse o azzurre, vede don Salvatore Ligresti sempre presente. Lì, con il dalemiano di ferro, Lorenzo Domenici, il sindaco-podestà, è di casa. Lui con la politica è legato a doppia mandata. Da una parte con AN attraverso la famiglia La Russa, dall'altra con i berlusconiani con cui ora si appresta al grande banchetto dell'Expo 2015 su cui le cosche mafiose hanno già evidenziato le loro aspirazioni, da un'altra ancora con i diessini ora Pd...
Non c'è scampo, il suo impero tra assicurazioni e mattone e la sua
alleanza con il Marcellino Gavio, nell'Impregilo, arriva ovunque...
basti pensare che un consigliere di Impregilo è anche super consulente
di Marta Vincenzi, sindaco di quella Genova dove è già iniziata da
tempo la nuova Tangentopoli. Per fortuna qualche volta riesce ad
arrivare anche la Procura e scoperchia gli intrecci perversi e gli
illeciti che garantiscono il perpetuarsi di speculazioni devastanti,
progetti faraonici quanto inutili (se non dannosi) per l'interesse
pubblico e l'ambiente. In attesa degli sviluppi che seguiranno con,
quasi certamente, nuove soggetti coinvolti nell'inchiesta della
Procura, ecco qualche notizia in più sui protagonisti.
da
Firenze:
La Procura apre una inchiesta su due assessori comunali e Salvatore Ligresti,
il reato ipotizzato è corruzione. Al centro della vicenda lo sviluppo
urbanistico della piana di Castello...
I due assessori sono:
Graziano Cioni (
ex Ds ora Pd )
Assessore al Comune di
Firenze:Sanità pubblica e integrazione socio-sanitaria ,Società della
salute,Igiene pubblica, Sicurezza sociale, IPAB ,Sicurezza e Vivibilità
urbana,Polizia Municipale,Città sicura,Occupazione e alterazioni suolo
pubblicoper i profili della viabilità. Coordinamento dei lavori e delle
manifestazioni per i profili della viabilità Manutenzione strade e aree
pubbliche arredo e decoro urbano. (Precedenti su Graziano Cioni: dai
lavavetri alla Firenze parcheggi
1;
2;
3 )
Gianni Biagi (ex
Ds ora Pd )
Assessore al comune di Firenze :
Urbanistica ed edlizia Piano strutturale Centro Storico Sistema Informativo
Territoriale. Ma se di Cioni molto si è parlato Biagi è un
personaggio...... Eppoi
c'è Salvatore Ligresti,
leggi
la scheda dal sito
Sulla questione Castello...
Firenze - Ligresti e il Piano di Castello
[16.01.2008 - Indastria blog]
Firenze. Ligresti... le mani sulla Piana
[18.08.2005 - l'altracittà Agenzia di Base]
Sui rapporti con la famiglia La Russa
LA GALASSIA DI AN (ed i legami dei dirigenti con SALVATORE LIGRESTI)
Su uno degli affari in Liguria... guarda caso con il Partito del Cemento
Loano - Ligresti presenta il nuovo porto
09.11.2008
Loano - Ieri "blitz" di Ligresti per presentare il porto
09.11.2008
Ligresti vuole l'area alberghiera
08.02.2008
Su affari e rapporti di don Salvatore & soci
Gli amici degli amici di Claudio Burlando
Tutti plaudono alla fusione... non ricordano chi è Geronzi?
Qualcosa d'altro su Macaluso ed i "miglioristi"
Impregilo e Fisia inguaiate tra rifiuti e tribunale
Logge coperte e l’oligarchia del Potere, un filo che lega Calabria e Liguria
Speciale - il conflitto di interessi del Sindaco di Genova
Tutti plaudono alla fusione... non ricordano chi è Geronzi?
da "Compagni che sbagliano"
Salvatore Ligresti, l'eterno ritorno
È appena entrato nella cordata della nuova Alitalia. Si
prepara al grande banchetto dell'Expo. Presidia i salotti del Corriere e di
Mediobanca. Vita, miracoli, cadute e risurrezioni di don Totò, costruttore,
finanziere, assicuratore. E fedele amico dei politici, da Craxi a Berlusconi
di Gianni Barbacetto
Il ritorno definitivo ha una data: 12 ottobre 2004, quando la figlia di
Salvatore Ligresti, Jonella, entra nel consiglio d'amministrazione del gruppo
Rizzoli-Corriere della Sera. È il punto d'arrivo simbolico di una storia lunga
e travagliata. Entrare nel più importante salotto della finanza italiana, da
cui era stato respinto solo due anni prima, significa buttare alle spalle e
dimenticare per sempre le ombre, i dubbi, le chiacchiere, le accuse, le
polemiche, i processi, le condanne. Don Salvatore, ormai accettato nel club più
esclusivo d'Italia, ha riscattato la sua storia. Del resto, chi la ricorda più,
la sua storia?
Salvatore Ligresti arriva a Milano sul finire degli anni Cinquanta. Non ha
alcun capitale, solo una laurea in ingegneria conquistata all'Università di
Padova e una furbizia innata, un gran fiuto per gli
affari. È siciliano, nato il 13 marzo 1932 a Paternò, in provincia di
Catania. Ma è a Milano che consolida i rapporti che gli schiuderanno le porte
del successo. Il suo primo maestro è Michelangelo Virgillito, suo compaesano,
grande manovratore di Borsa nella Milano del «miracolo economico». Il secondo è
Raffaele Ursini, l'uomo che eredita da Virgillito il gruppo Liquigas e lo porta
rapidamente al fallimento. Da loro Ligresti impara a muoversi nel mondo degli
affari immobiliari e della finanza. Da Michele Sindona rileva la
Richard-Ginori, ormai povera di produzione ma ricca di aree industriali da
dismettere e valorizzare.
Da Ursini eredita il primo pacchetto d'azioni Sai. Anzi, più che un'eredità
sembra uno scippo: questi, dopo il crac, scappa in Brasile, lasciando il
prezioso malloppo nelle mani del figlioccio. Non riuscirà più a ritornarne in
possesso. Per Ursini, si trattava di una«vendita simulata»: il 20 per cento
regalato, il 10 ceduto con la formula del «patto di riscatto». Ma Ligresti la
racconta in modo diverso: le azioni sono state da lui regolarmente acquistate e
pagate. Una sentenza, dopo un contenzioso iniziato nel 1988 e durato anni, gli
darà ragione. L'avventurosa conquista della Sai avviene comunque con la
partecipazione di una piccola folla di strani personaggi. C'è il senatore
missino Antonino La Russa, padrino di Virgillito e Ursini: dopo che i due
escono di scena prende lui sotto tutela il giovane Totò Ligresti. C'è Luigi
Aldrighetta, operatore finanziario palermitano che fa da mediatore per
l'acquisto da parte di don Salvatore di un ulteriore, grosso pacco di azioni
Sai. Ci sono i sei fratelli Massimino, costruttori catanesi partiti da zero
(erano muratori) e diventati potenti: erano intestate a loro due misteriose
finanziarie, la Finetna e la Premafin, che controllavano la Sai nel periodo
d'interregno tra la fuga di Ursini e l'arrivo palese di Ligresti ai vertici
della compagnia.
Attorno al finanziere siciliano, comunque, a Milano crescono subito leggende
nere, che adombrano rapporti sotterranei con la mafia. La domanda che circola
nei salotti buoni è: ma dove ha preso, questo signore, tutti quei soldi? Come
ha potuto diventare il
padrone della Sai un uomo che nel 1978 dichiarava al fisco un reddito di 30
milioni di lire? Come ha fatto a diventare, in pochi anni, uno dei cinque
uomini più ricchi d'Italia, uno dei pochi italiani presenti nelle classifiche
di
Forbes e
Fortune?
Prima sono soltanto calunniosi venticelli, poi le maldicenze s'ingrossano e
diventano insistenti, anche perché la famiglia Ligresti resta vittima di un
episodio drammatico e oscuro. Don Salvatore a Milano ha fatto un buon
matrimonio, perché ha sposato la figlia di un personaggio chiave per gli affari
edilizi, Alfio Susini, provveditore alle opere pubbliche della Lombardia.
Antonietta Susini, detta Bambi, diventa la moglie del palazzinaro rampante, ma
nel 1981 è vittima di un sequestro. La soluzione è rapida: Bambi, rapita a
Milano il 5 febbraio, viene liberata nei pressi di Varese dopo poco più di un
mese, dietro il pagamento di un riscatto, pare, di 600 milioni di lire.
Ma c'è un risvolto inatteso: degli uomini individuati come i presunti rapitori,
tutti esponenti delle famiglie «perdenti» della mafia palermitana, due, Pietro
Marchese e Antonio Spica, finiscono morti ammazzati; il terzo, Giovannello
Greco, fedelissimo del vecchio capo di Cosa nostra Stefano Bontate, scompare
nel nulla. È chiamato «il re degli Scappati» (i mafiosi palermitani che per
anni si nascondono, sperando nella rivincita). Viene segnalato tra Ibiza e
Maiorca, arrestato in Spagna nel 1997 e poi ancora nel 1999, ma ogni volta
svanisce nel nulla. Fino al maggio 2002, quando si costituisce e viene
estradato in Italia.
Sulla presunta mafiosità di Ligresti vengono compiute anche indagini ufficiali,
molto discrete, senza che nulla trapeli. Nel 1984 il procuratore della
Repubblica di Roma, Marco Boschi, invia a polizia, carabinieri e guardia di
finanza una richiesta che dice: «Ai
fini di un'eventuale proposta per l'applicazione di misure di prevenzione,
prego fornire le informazioni del caso in ordine a Finocchiaro Franco,
residente a Catania, e a Ligresti Salvatore, residente a Milano». Dunque
Ligresti (insieme a Finocchiaro, che con Carmelo Costanzo, Mario Rendo e
Gaetano Graci è uno dei quattro «cavalieri dell'Apocalisse» catanesi) è stato
oggetto di un'indagine di polizia, di quelle che si facevano nei confronti dei
sospetti mafiosi per valutare l'eventuale decisione di misure di prevenzione
quali il confino. Nel 1985 il suo fascicolo, che a Roma era stato assegnato al
sostituto procuratore Franco Ionta, viene inviato a Milano, dove se ne occupa
Piercamillo Davigo, in un secondo momento affiancato da un altro magistrato
della procura, Filippo Grisolia, che già indagava su Ligresti per una storia di
licenze urbanistiche.
Dopo alcuni anni di accertamenti, il dossier mafia su don Salvatore
è stato chiuso, senza alcuna conseguenza. In sospeso restano però alcune
domande: perché la procura di Roma aprì l'inchiesta? Sulla base di quali
elementi e segnalazioni? E perché Ligresti era affiancato a Finocchiaro,
cavaliere del lavoro catanese?
Il nome di Ligresti compare anche in un'altra indagine giudiziaria, svolta da
Ernesto Cudillo, in rapporto alla compravendita di un palazzo all'università
romana di Tor Vergata, che ha come protagonista Manlio Cavalli, secondo i
carabinieri legato alla banda della Magliana e al boss di Cosa nostra nella
capitale, Pippo
Calò. Indagine senza risultati, dunque archiviata.
Don Salvatore torna a essere avvicinato a vicende di mafia negli anni novanta,
a Palermo. Questa volta a parlarne è una voce dall'interno di Cosa nostra, uno
degli ultimi grandi collaboratori di giustizia: Angelo Siino, l'imprenditore
considerato il «ministro dei lavori pubblici» della mafia siciliana. Siino, che
conosce bene gli affari e i loro protagonisti, racconta che Ligresti aveva come
diretto referente mafioso nientemeno che Nitto Santapaola, il boss di Cosa
nostra a Catania. Tanto potenti erano i suoi protettori che nel 1991, secondo
Siino, per favorirlo furono addirittura sconvolti gli equilibri consolidati
nell'assegnazione degli appalti, quelli che esigevano che fosse la Gambogi,
gruppo Ferruzzi, a costruire in Sicilia; sempre secondo il collaboratore di
giustizia, intervenne il potentissimo commercialista palermitano Piero Di
Miceli, con la mediazione di Raffaele Ganci, a sollecitare che la Gambogi si
facesse da parte per lasciare alla Grassetto di Ligresti un ricco appalto
palermitano. In mancanza di altri riscontri, anche queste dichiarazioni sono
però rimaste lettera morta.
Come le testimonianze di un altro collaboratore di giustizia, Gaspare Mutolo,
che nel 1996 riferisce una confidenza ricevuta da Vittorio Mangano, lo
«stalliere» di Arcore: Ligresti, secondo questa dichiarazione, riciclava i
soldi della famiglia Carollo (quella
della Duomo connection), insediata nell'hinterland milanese.
Delle vecchie storie rimaste senza riscontro, chiacchiere vuote, don Salvatore
non vuole sapere niente. Tace. Costruisce in silenzio il suo impero del
mattone, senza curarsi delle cattiverie che circolano su di lui, senza mai una
prova decisiva. Negli anni ottantaè già l'immobiliarista più potente di Milano.
Ma è anche un finanziere importante: ha in cassaforte non solo il pacchetto di
azioni che gli permette di controllare la Sai, ma anche una serie di piccole
quote di società importanti, dalla Pirelli (5,4 per cento) alla Cir di Carlo De
Benedetti (5,2), dalla Italmobiliare di Giampiero Pesenti (5,8) all'Agricola
Finanziaria di Raul Gardini (3,7). Tanto che qualcuno comincia a chiamarlo
Mister 5 per cento. Resta, per la finanza italiana, un oggetto misterioso,
dalle origini sconosciute e con un impero dai confini incerti. Ma ricco e
pronto a investire i suoi soldi.
Accetta per la prima volta di concedere un'intervista nel febbraio1986. A
raccogliere le sue spiegazioni è Anna Di Martino, del settimanale
Il Mondo.
A lei, il suo primo miliardo lo racconta così: «È una storia bellissima. Avevo
saputo della possibilità di acquistare il diritto per costruire un sopralzo, in
via Savona, in zona Genova. Ma ci volevano 15 milioni e io ne avevo solo 5. Ma
non mi sono perso d'animo. Sono andato al Credito commerciale per chiedere un
prestito e mi ha ricevuto il direttore generale, Mascherpa». «Senza farle fare
anticamera e senza raccomandazioni...» annota incredula l'intervistatrice. E
Ligresti: «Mascherpa era un grande banchiere, un uomo di grosso intuito: io
parlavo e lui ascoltava e a un certo momento mi ha detto: "Le do 10 milioni".
Quasi non ci credevo... Con quei 10 milioni ho fatto il progetto, ho rivenduto
il diritto per 50 milioni, guadagnando in un colpo solo 35 milioni. Era il
1962». E 35 milioni di allora erano più o meno un miliardo di lire.
Ma i veri metodi di lavoro di don Salvatore saranno scoperti qualche mese più
tardi, quando esplode il primo scandalo che lo coinvolge. Ottobre 1986: il
nuovo assessore all'Urbanistica di Milano, Carlo Radice Fossati, trova nei suoi
uffici tre documenti con cui tre società (controllate da Ligresti) promettevano
di vendere al Comune, a prezzi stracciati, le loro aree che invece stavano per
essere comprate a prezzi di mercato. È la scintilla che fa scoppiare lo
«scandalo delle aree d'oro», un grande caso politico-urbanistico che mette in
evidenza, sei anni prima di Mani pulite, la trama di commistioni tra politica e
affari, gli accordi sotterranei, le stecche, le corsie preferenziali. Salvatore
Ligresti, amico di Bettino Craxi e in ottimi rapporti con il sindaco socialista
Carlo Tognoli e l'assessore comunista Maurizio Mottini, diventa il simbolo
dell'imprenditore che riesce a concludere ottimi affari grazie alla politica.
Il suo più implacabile accusatore è Basilio Rizzo, allora consigliere
comunale di Democrazia proletaria, che con enorme pazienza e passione controlla
ogni dettaglio della macchina comunale milanese. Ma anche il missino Riccardo
De Corato sforna denunce pubbliche contro il costruttore. Ligresti viene
indagato per corruzione e un pretore coraggioso, Francesco Dettori, scopre una
miriade di reati urbanistici compiuti nei suoi cantieri, disseminati in tutta
Milano: «Parlare di semplice sospetto di collusione tra uffici comunali
competenti e proprietà è mero eufemismo. Reputa questo pretore fuori
discussione una simile connivenza, alla luce degli evidenziati dati
documentali». E giù ventiquattro pagine di esempi.
Ma la scoperta più clamorosa agli occhi dei milanesi, in realtà, è che
l'amministrazione di sinistra ha dato la città in mano allo sconosciuto
palazzinaro venuto da Paternò: due terzi delle edificazioni avviate dalla
giunta, a colpi di miracolose varianti al piano regolatore, sono targate
Ligresti. Segue dibattito, con polemiche infuocate.
Cade la giunta, Tognoli è costretto a dimettersi e Ligresti esce distrutto
dallo scandalo delle aree d'oro: con l'immagine a pezzi e uno stillicidio di
piccole condanne per abusi edilizi. Eppure a rendere drammatica la sua prima
caduta non saranno le condanne né il crollo d'immagine, ma il mercato: i suoi
palazzi non si vendono, gli uffici restano vuoti, il terziario è bloccato. Un
fallimento anche per la politica e per la gestione del sindaco Tognoli, che
sull'espansione del terziario aveva puntato tutto, anche barando: quello che
era stato chiamato Piano Casa, varato in nome della necessità di costruire
abitazioni a prezzi contenuti, si era via via trasformato in un diluvio di
uffici, il più grande mai permesso fino a quel momento a Milano.
Ma gli affari sono più severi della politica, non perdonano gli errori: palazzi
invenduti vogliono dire crisi. L'indebitamento finanziario netto di Ligresti,
infatti, è da vertigine: più di 1150 miliardi di lire, una dozzina di volte il
patrimonio netto. Per di più il vecchio maestro, Ursini, si rifà vivo e
trascina Ligresti in tribunale, perché pretende che gli sia restituita la sua
Sai. Uno senza santi in paradiso, in queste condizioni, sarebbe miseramente
fallito nel corso di una notte. Ligresti invece si salva.
Nerio Nesi, allora presidente della Bnl, ha raccontato di aver ricevuto nel
1987 da Bettino Craxi l'ordine di concedere un grosso
finanziamento a Ligresti. Dopo aver incassato il rifiuto di Nesi, Craxi
s'infuria: «Devi ancora imparare come si fa il banchiere!». Ma poi è nientemeno
che Enrico Cuccia a correre in aiuto di don Salvatore, inventando una manovra
di salvataggio da brivido. Il presidente di Mediobanca nel 1989 decide di
imporre la quotazione in Borsa della Premafin, chiedendo al mercato, come al solito
in Italia, di sborsare i soldi necessari. Cuccia impone per la Premafin una
valutazione di oltre 1000 miliardi, 14 volte gli utili (eccezionali: 72
miliardi) di un anno che non si ripeterà mai più.
Il miracolo degli utili viene realizzato soltanto grazie alle corsie
preferenziali della politica: Ligresti vende molti dei suoi palazzoni
vuoti agli enti pubblici, forzando il mercato. Era Tangentopoli all'opera,
anche se la parola non era ancora stata inventata. Perché Cuccia ha fatto
questo per don Salvatore? La risposta più convincente è questa. Lasciar fallire
Ligresti significava lasciar andare chissà dove la Sai, e con essa un suo
piccolo pacchetto azionario, a cui Cuccia teneva più d'ogni altra cosa: quello
di Euralux, finanziaria lussemburghese che controlla un fascio determinante di
azioni Generali. Per tenerlo nell'orbita di Mediobanca, Cuccia era disposto a
fare patti anche con il diavolo. Così Ligresti è salvato e risorge la prima
volta.
Don Salvatore, del resto, è uomo di parola, uno che mantiene le promesse:
Cuccia sapeva di aver trovato in lui un alleato fedele, uno strumento utile per
manovrare nel mare della finanza italiana. E anche un ponte per la politica: è
stato Ligresti ad accompagnare Craxi negli uffici di Mediobanca, stabilendo il
primo contatto tra il leader socialista ed Enrico Cuccia. Contatto prezioso,
per avviare, nel 1984, le operazioni di privatizzazione di Mediobanca sotto la
regia dello stesso Cuccia.
Benvenuti al Parco Ligresti
La via crucis di don Salvatore costruttore e martire continua. Caduto la
prima volta sul Golgota delle aree d'oro e del terziario invenduto, rialzato da
un Cuccia buon centurione, cade la seconda
volta sulla via di Mani pulite. Nel 1992, infatti, il vento cambia, salta
l'omertà degli anni delle aree d'oro. Iniziano le confessioni a catena, i
protagonisti delle tangenti, questa volta, parlano. Così il 16 luglio, cinque
mesi dopo l'arresto di Mario Chiesa il «mariuolo», Ligresti viene portato in
una cella di San Vittore, che è costretto a dividere con un tossicodipendente.
«Se arrestano perfino Ligresti, vuol dire che fanno sul serio» si commenta a
Milano. È accusato di corruzione per aver comprato a suon di tangenti, per la
sua società di costruzioni Grassetto, gli appalti della metropolitana milanese
e anche qualche terreno pubblico.
Nel 1993, nuova imputazione: è accusato di aver fatto ottenere alla Sai, con
ingenti mazzette, un superaccordo che sposa Eni e Sai, a cui è affidata la
gestione di tutti i contratti assicurativi dell'ente petrolifero. Poi le accuse
si moltiplicano, in una Mani pulite che contagia una buona parte d'Italia.
Ligresti è considerato un personaggio di primo piano nel sistema di
Tangentopoli, tanto che quando i magistrati di Milano s'imbattono in una
megatangente da 21 miliardi pagata a Craxi da una misteriosa società estera
chiamata All Iberian pensano che dietro ci sia Ligresti. Scopriranno che invece
c'era un suo concorrente, un palazzinaro con villa ad Arcore passato al
business della tv commerciale.
«"Facci il nome, facci quel nome", mi ripetevano, e mi facevano una x con le
dita. Ma io quel nome non l'ho fatto» racconta in seguito agli amici don
Salvatore, ricordando i lunghi mesi di galera. Il nome con la x, naturalmente,
è Craxi. Ma qualcosa, alla fine, ammette anche il duro di Paternò. Il minimo
indispensabile. Poi arrivano i processi e le condanne. La prima, per Eni-Sai,
chiesta dal pubblico ministero Fabio De Pasquale, è di tre anni e sei mesi, che
sarà limata (due anni e quattro mesi) ma confermata anche in Cassazione. Niente
galera, nel sistema italiano, solo affidamento ai servizi sociali, cioè una
chiacchierata ogni tanto con un'assistente sociale e un piccolo impegno per la
Caritas ambrosiana.
La pena ha però un risvolto assai spiacevole: il codice prevede che una condanna
definitiva faccia venire meno i requisiti di «onorabilità» necessari per
guidare le compagnie d'assicurazione; per questo il pregiudicato Ligresti ha
dovuto lasciare tutte le cariche sociali. A sostituirlo, almeno per la legge,
sono i figli: Jonella diventa presidente della Sai, vicepresidente di Premafin
e unica donna a sedere nel consiglio d'amministrazione di Mediobanca; Giulia
siede nei consigli di Sai, Premafin e Telecom, ma è più interessata alle sue
borse e accessori in pelle, che disegna di persona e commercializza con il
marchio Gilli; Paolo, il figlio minore, è presidente di Sai International e
vicepresidente di Atahotel, la società che controlla gli alberghi del gruppo.
Nel 2002, sempre con la regia di Mediobanca, Ligresti mette a segno un colpo da
maestro. La vicenda era cominciata l'anno precedente, quando la Fiat aveva
lanciato un'Opa (un'offerta pubblica d'acquisto) sulla Montedison, con
l'obiettivo di entrare nel settore dell'energia: un business redditizio e
anticiclico, prezioso in tempi difficili per un'azienda allora in crisi nera.
Subito si era messa in moto Mediobanca, che di Fiat era diventata la grande
nemica: voleva impedire a ogni costo che, con quell'operazione, la casa
torinese s'impossessasse di Fondiaria, la compagnia d'assicurazioni fiorentina
controllata da Montedison. Vincenzo Maranghi, il successore di Cuccia, chiede
l'intervento di Ligresti, uno che, con tutto quello che ha ricevuto da
Mediobanca, non può certo rifiutare. La sua compagnia assicurativa, la Sai,
compra il 6,7 per cento di Fondiaria e s'impegna a rilevare un ulteriore 22,2
per cento. Il prezzo è da amatori: 9,5 euro per azione, roba da svenarsi. Ma
non importa, tanto è Mediobanca che s'incarica di trovare i soldi.
A questo punto però arriva l'intoppo: la Consob (l'autorità di controllo sulla
Borsa) analizza l'operazione e dice che è contro le regole: se la Sai vuole
Fondiaria, s'accomodi, ma deve lanciare una trasparente, pubblica Opa sul 100
per cento del capitale. Una mossa da far affondare la Sai. È troppo anche per
una Mediobanca ormai in declino. Ma gli ostacoli si possono saltare, oppure
aggirare, e l'accoppiata Ligresti-Mediobanca ci riesce: scova una banda di
«cavalieri bianchi» (Jp Morgan Chase, Interbanca, Mittel, Commerzbank) guidata
dal finanziere Francesco Micheli, che compra il pacchetto di Fondiaria e, a
cose fatte, lo gira alla Sai. Visto l'andazzo, alla Fondiaria non resta che
fare buon viso a cattivo gioco e accettare, nel maggio 2002, la fusione con
Sai.
Risultato: Mediobanca ha sgambettato Fiat e ha posto le basi per un grande polo
italiano delle assicurazioni, saldamente sotto la sua tutela. Sai più Fondiaria
vuol dire la prima compagnia assicurativa italiana nel ramo danni. Se poi si
sommano anche le Generali, già nell'orbita di Mediobanca, si ottiene un
colosso, pieno di ottimi pacchetti azionari (della Pirelli, di Gemina, di Hdp,
della stessa Mediobanca...).
Le ambizioni di Maranghi non si realizzeranno, Mediobanca dopo la morte di
Cuccia perde la sua centralità finanziaria, ma intanto Ligresti porta a casa
anche Fondiaria, guadagnando molto in prestigio e riuscendo a compiere la sua
ennesima resurrezione d'immagine. Quanto ai soldi, è un altro discorso: ne ha
spesi tanti ed è finito, come al solito, nelle mani del suo principale finanziatore,
Mediobanca, che gli ha imposto - proprio a lui, abituato a fare tutto in
famiglia - il manager che dovrà stare attento ai conti: Enrico Bondi, ex
risanatore di Montedison, di Telecom e (in seguito) di Parmalat.
Dopo la cura Bondi e il tramonto dell'era Mediobanca, Ligresti si è messo
all'ombra di un altro banchiere: Cesare Geronzi. Don Salvatore è fedele e
silenzioso come sempre. Il nuovo sponsor lo ha portato al traguardo che ritiene
definitivo: l'ingresso in Rcs, che vale il dissolvimento di ogni ombra del
passato. Ormai, chi si permette più di ricordare i vecchi tempi? Salvatore
Ligresti è un grande finanziere, è coinvolto nei più ricchi affari urbanistici
di Milano (Fiera e Garibaldi-Repubblica), di Firenze (Castello e Manifattura
Tabacchi), di Torino...
Gode anche di buona stampa. Quando Muhammad Yunus, «il banchiere dei poveri»,
vince il premio Nobel, i giornali non mancano di ricordare che Ligresti è il
gran finanziatore in Italia dell'associazione che sostiene Yunus, Planet
Finance, lanciata in Francia da Jacques Attali. E se andrà in porto a Milano la
Città della Scienza - con l'Istituto europeo di oncologia, il Centro
cardiologico Monzino, il nuovo Istituto neurologico Besta, altre cliniche e le
strutture di ricerca delle università - non solo saranno finalmente valorizzate
le sue aree agricole a sud di Milano che ospiteranno una cittadella
medico-scientifica che non ha eguali in Italia, ma il parco che la contornerà
sarà chiamato «parco Ligresti». Sarebbe la sua consacrazione finale e definitiva.
Si è anche ricostituito chirurgicamente la verginità. Ha scovato un articolo
del codice che fa tornare immacolata una fedina penale sporca: quando siano
passati almeno cinque anni dall'espiazione della pena e il pregiudicato «abbia
dato prove effettive e costanti di
buona condotta». Ha presentato domanda al Tribunale di sorveglianza di Milano,
che nel settembre 2005 ha accolto la sua richiesta: Ligresti è riabilitato.
Resta invece opaca, anche dopo tanti restyling, la sua struttura societaria.
L'oscurità si è trasferita ai piani alti. La holding attraverso cui controlla
le società del suo impero è Premafin. E Premafin è della famiglia Ligresti. Ma
per arrivare dalla famiglia alla hold-ing bisogna attraversare almeno una
decina di società, sparse tra Italia, Svizzera e Lussemburgo. Dai tre figli
(Jonella, Giulia, Paolo) si arriva a Premafin passando per tre società
lussemburghesi (Hike, Canoe, Limbo) e una fiduciaria (Compagnia fiduciaria
nazionale). E don Salvatore? A Premafin ci arriva attraverso due spa (Sinergia
e Imco) e una lussemburghese (Star Life). Secondo quanto scritto da
Sole 24
ore e
Mf, socio di controllo di Sinergia è Fidirevisa Italia,
mentre commissario dei conti di Star Life è Fidirevisa sa: due società del
gruppo Fidinam, l'impero elvetico di Tito Tettamanti.
Chi conosce le vicende finanziarie italiane a questo punto sobbalza: Tettamanti
e Fidinam sono nomi ricorrenti in molte storie scabrose; si sono incrociati con
le parabole di tanti finanzieri italiani, da Sergio Cragnotti a Raul Gardini,
da Silvio Berlusconi fino a Calisto Tanzi.
Da "Compagni che sbagliano.
La sinistra al governo e altre storie della nuova Italia"
di Gianni Barbacetto, il Saggiatore, 2007