Dossier tratto dall'Espresso di Agosto 2002
Capigruppo d'assalto: Una vita da Schifani,
società con presunti uomini d'onore e usurai. Consulenze ricevute dai Comuni in
odore di mafia. E poi l'ascesa ai vertici di Forza Italia. Berlusconi? «Per me
è come Cavour»
di Franco Giustolisi e Marco Lillo
Quando, dopo una settimana di nottate, blitz e tranelli ha portato a casa
l'approvazione della legge sul legittimo sospetto, Renato Schifani ha
sottolineato con il consueto senso delle istituzioni la sua vittoria
sull'Ulivo: «Li abbiamo fregati». Il capo dei senatori forzisti è fatto così.
«È la mia chiarezza che dà fastidio alla sinistra», ha detto a un settimanale
che gli ha dedicato un editoriale lodando «lo stile Schifani». Questo avvocato
di 52 anni, nonostante il riporto e gli occhiali da archivista, è l'uomo
prescelto da Silvio Berlusconi come volto ufficiale di Forza Italia. E lui lo
ripaga come può. In un articolo sul "Giornale di Sicilia" dal titolo
"Cavour e il conflitto di interessi" afferma che anche lo statista
piemontese era «in potenziale macroscopico conflitto di interessi perché aveva
il giornale "Il Risorgimento", partecipazioni bancarie, grandi
proprietà terriere e un'intensa attività affaristica». Proprio come Berlusconi,
insomma, eppure nessuno gli disse nulla. Peccato che, come scrive Rosario Romeo
a pagina 451 della sua biografia, Cavour appena diventò ministro «decise in
primo luogo di liquidare gli affari nei quali era stato attivo fino ad allora».
Ma Schifani per amore del capo è disposto a sfidare anche il ridicolo. Come
quando si fa riprendere in tv accanto al santino del leader neanche fosse Padre
Pio. Avvocato civilista e amministrativista, 52 anni, sposato e padre di due
figli, amante delle isole Egadi, è stato eletto nel collegio di Corleone, cuore
di quella Sicilia che ha dato il cento per cento degli eletti a Forza Italia.
Per descrivere l'eroe del legittimo sospetto, l'uomo che ha scavato nottetempo
la via di fuga dal processo milanese per Berlusconi e Previti, si potrebbe partire
dalle sue radici democristiane. Ma applicando alla lettera il suo credo, «non
bisogna usare il politichese ma parlare con serenità il linguaggio dell'uomo
comune», sarà meglio partire da una constatazione: il capo dei senatori di
Forza Italia è stato socio di affari (leciti) con presunti usurai e mafiosi.
Sua eccellenza Filippo Mancuso, solitamente bene informato, ha definito così
il suo ex compagno di partito: «Un avvocato del foro di Palermo specializzato
in recupero crediti». Schifani gli ha risposto con una lettera in cui difende
la sua «onesta e onorata carriera» e nega di avere mai svolto una simile
attività. Negli archivi della Camera di commercio di Palermo risulta però una
società, oggi inattiva, costituita nel 1992 da Schifani con Antonio Mengano e
Antonino Garofalo: la
Gms. L'avvocato Antonino Garofalo (socio accomandante come
Schifani) è stato arrestato nel 1997 e poi rinviato a giudizio per usura ed
estorsione nell'ambito di indagini condotte dal sostituto Gaetano Paci della
Procura di Palermo. L'ex socio di Schifani è ritenuto il capo di
un'organizzazione che prestava denaro nella zona di Caccamo chiedendo interessi
del 240 per cento. Schifani non è stato coinvolto nelle indagini ma certo non
deve essere piacevole scoprire di essere stato socio con un presunto usuraio in
un'impresa che come oggetto sociale non disdegnava: «L'attività esattoriale per
conto terzi di recupero crediti e l'attività di assistenza nell'istruttoria
delle pratiche di finanziamento...».
Schifani è stato sempre sfortunato nella scelta dei compagni delle sue
imprese. In un rapporto dei carabinieri del nucleo di Palermo, di cui
"L'Espresso" è in grado di rivelare i contenuti, si ricostruisce la
storia di un'altra strana società di cui il capogruppo di Forza Italia è stato socio
e amministratore per poco più di un anno. Si chiama Sicula Brokers, fu
istituita nel 1979 e oggi ha cambiato compagine azionaria. Tra i soci
fondatori, accanto a un'assicurazione del nord, c'erano Renato Schifani e il
ministro degli Affari regionali Enrico La Loggia, nonché soggetti come Benny D'Agostino,
Giuseppe Lombardo e Nino Mandalà. Nomi che a Palermo indicano quella zona
grigia in cui impresa, politica e mafia si confondono. Benny D'agostino è un
imprenditore condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e, negli
anni in cui era socio di Schifani e La Loggia, frequentava il gotha di Cosa Nostra. Lo
ha ammesso lui stesso al processo Andreotti quando ha raccontato un viaggio
memorabile sulla sua Ferrari da Napoli a Roma assieme a Michele Greco, il papa
della mafia.
Giuseppe Lombardo invece è stato amministratore delle società dei cugini
Ignazio e Nino Salvo, i famosi esattori di Cosa Nostra arrestati da Falcone nel
lontano 1984 e condannati in qualità di capimafia della famiglia di Salemi.
Nino Mandalà, infine, è stato arrestato nel 1998 ed è attualmente sotto
processo per mafia a Palermo. Questo ex socio di Schifani e La Loggia era il presidente
del circolo di Forza Italia di Villabate, un paese vicino a Palermo e proprio
di politica parlava nel 1998 con il suo amico Simone Castello, colonnello del
boss Bernardo Provenzano mentre a sua insaputa i carabinieri lo intercettavano.
Mandalà riferiva a Castello l'esito di un burrascoso incontro con il ministro
Enrico La Loggia,
allora capo dei senatori di Forza Italia. Mandalà era infuriato per non avere
ricevuto una telefonata di solidarietà dopo l'arresto del figlio (poi
scagionato per un omicidio di mafia). E così raccontava di avere chiuso il suo
colloquio con La Loggia:
«Siccome io sono mafioso ed è mafioso anche tuo padre che io me lo ricordo
quando con lui andavo a cercargli i voti da Turiddu Malta che era il capomafia
di Vallelunga. Lo posso sempre dire che tuo padre era mafioso. A quel punto lui
si è messo a piangere». La
Loggia ha ammesso l'incontro ma ne ha raccontato una versione
ben diversa. E anche Mandalà al processo ha parlato di millanteria. Nella
stessa conversazione intercettata Mandalà parlava di Schifani in questi
termini: «Era esperto a 54 milioni all'anno, qua al comune di Villabate, che me
lo ha mandato il senatore La
Loggia».
Schifani è stato sentito dalla Procura e, senza falsa modestia ha spiegato
con la sua bravura la consulenza e lo stipendio: «Il mio studio è uno dei più
accreditati in campo urbanistico in Sicilia». Ma per La Loggia sotto sotto c'era
una raccomandazione: «Parlai di Schifani con Gianfranco Micciché (coordinatore
di Forza Italia in Sicilia) e dissi: sta sprecando un sacco di tempo e quindi
avrà dei mancati guadagni facendo politica. Vivendo lui della professione di
avvocato dico se fosse possibile fargli trovare una consulenza. È un modo per
dirgli grazie. E allora parlammo con il sindaco Navetta». Il sindaco Navetta è
il nipote di Mandalà e il suo comune è stato sciolto per mafia nel 1998.
Il capogruppo di Forza Italia è stato sfortunato anche nella scelta dei suoi
assistiti. Proprio un suo ex cliente recentemente ne ha fatto il nome in
tribunale. La scena è questa: Innocenzo Lo Sicco, un mafioso pentito, il 26
gennaio del 2000 entra in manette in aula a Palermo e viene interrogato sulla
vicenda di un palazzo molto noto in città, quello di Piazza Leoni. Le sue
parole fanno balenare pesanti sospetti: «L'avvocato Schifani ebbe a dire a me,
suo cliente, che aveva fatto tantissimo ed era riuscito a salvare il palazzo di
Piazza Leoni facendolo entrare in sanatoria durante il governo Berlusconi
perché, così mi disse, fecero una sanatoria e lui era riuscito a farla
pennellare sull'esigenza di quegli edifici. Era soddisfattissimo. Perché lo
diceva a me? Ma perché io lo avevo messo a conoscenza di qual era la
situazione, l'iter, le modalità del rilascio della concessione...».
La Procura
dopo aver analizzato le parole del pentito non ha aperto alcun fascicolo per la
genericità del racconto. Comunque la storia di questo palazzo, scoperta dal
giornalista de "la
Repubblica" Enrico Bellavia, è tutta da raccontare.
Comincia alla fine degli anni Ottanta quando Pietro Lo Sicco, imprenditore
finanziato dalla mafia e zio di Innocenzo, mette gli occhi su un terreno a due
passi dal parco della Favorita, una delle zone più pregiate di Palermo. Lo
Sicco vuole costruirci un palazzo di undici piani ma prima bisogna eliminare
due casette basse che appartengono a due sorelle sarde, Savina e Maria Rosa
Pilliu, che non vogliono svendere. Pietro Lo Sicco le minaccia e le sorelle si
rivolgono alla polizia. Ma la mafia è più lesta della legge: Lo Sicco ottiene
la concessione edilizia grazie a una mazzetta di 25 milioni di lire e comincia
ad abbattere l'appartamento a fianco. Quando le sorelle vedono avvicinarsi il
bulldozer cominciano ad arrivare nel loro negozio i fusti di cemento. Il
messaggio è chiaro: finirete lì dentro. Lo Sicco smentisce di essere il
mandante ma la Procura
offre alle Pilliu il programma di protezione. Oggi le sorelle sono un simbolo
dell'antimafia: vivono proprio nel palazzo costruito da Lo Sicco e confiscato
dallo Stato. Il costruttore è stato condannato a 2 anni e otto mesi per truffa
e corruzione a cui si sono aggiunti sette anni per mafia.
All'inaugurazione del nuovo negozio costruito grazie al fondo antiracket, il
senatore Schifani non c'era. Era dall'altra parte in questa vicenda. Il suo
studio ha difeso l'impresa Lo Sicco davanti al Tar. Il pentito Innocenzo Lo
Sicco, ha raccontato che lui stesso accompagnava l'avvocato Schifani negli
uffici per seguire la pratica. Certo all'epoca l'imprenditore non era stato
inquisito e il senatore non poteva sapere con chi aveva a che fare anche se il
genero di Lo Sicco era sparito nel 1991 per lupara bianca. In quegli stessi anni
Schifani assisteva anche altri imprenditori che sono incappati nelle confische
per mafia, come Domenico Federico, prestanome di Giovanni Bontate, fratello del
vecchio capo della cupola Stefano. Un settore quello delle confische che il
senatore non ha dimenticato in Parlamento. Quando ha presentato un progetto di
legge (il numero 600) per modificare la legge sulle confische e sui sequestri.
ha collaborato Giuseppe Lo Bianco