Chi è Gino Mamone, il principale
accusato per lo scandalo delle aree dismesse di Genova
Cornigliano.
La puzza vale oro, e quando non c'è si rischia
di andare in crisi di astinenza. «Per un po', dopo che hanno
demolito la raffineria, mi mancava proprio quella puzza sai? E anche
l'altra volta, ero a Livorno, dove un tempo c'erano gli
impianti...mi mancava la puzza, la puzza proprio». «Lo so Gino.
Prima o poi scriveremo un libro: la nostra vita in mezzo ai rifiuti».

Ecco, la vita e i rifiuti e un mare di
soldi. Gino Mamone ne parlava quasi fosse filosofia, con gli amici e
gli imprenditori e i collaboratori più stretti. E non importa se
erano le intercettazioni telefoniche di un'inchiesta su un traffico
in stile Gomorra (dal quale uscirà quasi pulito) o le confidenze
all'avvocato o la frustrazione sussurrata dopo che una Procura
l'aveva messo sott'accusa. O, ancora, il vanto d'essere «amico
di tutti» - Curia e politici inclusi con grande gaudio, tra loro il
presidente della Regione Claudio Burlando e il sindaco di Genova
Marta Vincenzi che oggi respingono freddi quel "calore" - nella
prospettiva di spianarsi la strada.
Il Re Mida delle bonifiche genovesi,
uno degli imprenditori più potenti e discussi del capoluogo ligure
finito al centro d'una clamorosa inchiesta sulla spartizione degli
appalti per lo smantellamento dell'ex Italsider, ecco Gino Mamone è
un personaggio che oggi I l Secolo XIX prova a descrivere: fra
exploit e zone d'ombra, efficienza e posti di lavoro garantiti a
centinaia di famiglie, incrociati pure ad accuse di contatti mafiosi.
Chi è, davvero, Gino Mamone? Cos'è,
davvero, la Eco.Ge? Sicuramente un'azienda che dà da mangiare a
150 dipendenti e fattura quasi 25 milioni di euro all'anno: «Ero
partito da cento milioni di lire, siamo arrivati a questo ma se
continuano a perseguitarmi chiudo baracca».
Disse così, un anno fa, quando i primi
dossier dell'inchiesta sulle tangenti per le gare delle mense
scolastiche nel capoluogo ligure (in cui non era indagato, mentre
finì in carcere il suo civilista Massimo Casagrande, ex consigliere
comunale diessino) ne certificavano contrattazioni "anomale",
dando la stura agli accertamenti che l'hanno inguaiato adesso. Era
il 22 maggio e per protesta a quello che riteneva un accanimento
giudiziario, all'apertura dei 15 cantieri sparsi in tutt'Italia
fece trovare i mezzi con le chiavi staccate dal cruscotto, giusto per
far capire che lui non scherzava e in parecchi rischiavano di
trovarsi in mezzo alla strada.
«Non ha mai scherzato sul lavoro -
dice chiunque da lui sia stato retribuito - tranne quando si prendeva
una pausa per raccontare barzellette ai pranzi aziendali, che di anno
in anno sono diventati sempre più importanti e "allargati"».
Il rapporto, quasi fisico, quasi
carnale con la terra e le macchine e il rumore e la polvere, quello
l'ha avuto da subito. Una specie di enfant prodige, se si può
chiamare così uno che a 14-15 anni era già in grado di manovrare la
ruspa, dopo che a dodici il padre gli aveva fatto abbinare lo studio
a sane sedute di pala e piccone. Perché il primo a fare un po' di
fortuna è stato Luigi Mamone, che si portò la famiglia (e Gino che
aveva un anno) da Cittanova in provincia di Reggio Calabria
all'inizio degli anni '60, insendiandosi in Valpolcevera, cuore
"genovese" che non abbandoneranno più. Tra i quartieri di
Fegino, Borzoli, Bolzaneto, San Quirico e Serra Riccò ingranano
costruzioni e compravendite immobiliari. E però il "botto", il
business che bacia la famiglia sono le raffinerie, primi anni '90.
Gino non è uno che mette su, come il papà, ma fa soldi buttando
giù, ripulendo e bonificando e insomma: tutte le volte che c'è da
radere al suolo o ramazzare in grande stile, be' lì ci pianta una
bandierina: «Le raffinerie - ricorda in un'appassionata intervista
al nostro giornale nel 2001 - le ho demolite io. Ho iniziato come
muratore, è vero, ma quando sono arrivati gli anni difficili della
crisi industriale e della dismissione, ho deciso d'investire in
tecnologie per specializzarmi».
Il suo destino s'incrocia a nomi e
amicizie tanto privilegiate quanto importanti: la Erg dei Garrone
prima fra tutte, poi l'Ip, fra Genova e La Spezia. Il problema è
che più si smaltisce roba, più carabinieri e magistrati drizzano le
antenne. Come accade, per esempio, nel 2004, quando la Procura di
Alessandria lo mette sott'inchiesta per i suoi fraterni rapporti
con un altro calabrese, Franco Sofio, il titolare della "Sofio Elia
sas". E lo ascoltano per ore e ore sbobinando conversazioni che ne
descrivono, se non gli addebiti, almeno la personalità probabilmente
molto più di tante illazioni.
Sofio, a quei tempi, gestisce un centro
di stoccaggio-rifiuti a Pozzolo Formigaro, da dove li spedisce in una
cava controllata da un'altra società a Castellazzo Bormida. Mamone
sta lavorando come un pazzo, nello stesso periodo: sta risanando la
ex "Continentale italiana" di Fegino e il vecchio stabilimento Ip
della Spezia (l'operazione gli era stata subappaltata dal
mastodonte "Foster Wheeler") e c'è un mare di terra da
buttare. Il problema è che più di tanta, Franco Sofio non ne
potrebbe ricevere: «Sono già fuori di 400 tonnellate - racconta al
telefono con Gino che gli preannuncia l'invio, a pagamento, d'una
nuova infornata di camion - ho paura che mi arrivi un controllo, mi
serve un po' di tempo per smaltire tutto quello che proviene da
Genova». Mamone non la prende bene: «Mi dispiacerebbe dover pagare
qualcun altro», e la ruota gira così veloce che da qualche parte i
rifiuti bisogna buttarli: «C'abbiamo un sacco di roba, un sacco di
roba. È proprio un peccato...». Qualche giorno prima s'erano
compiaciuti insieme con quella frase da incorniciare, sulla carenza
di puzza e l'idea di scrivere il libro "La nostra vita in mezzo
ai rifiuti".
Ora, non è un caso se fra tante carte
queste sono state infine selezionate. Perché un anno dopo Mamone
rischia grossissimo, come mai gli era accaduto prima o gli accadrà
dopo: il pubblico ministero chiede di arrestarlo insieme a Sofio e ad
altre sette persone (si chiamava "Operazione pesciolino d'oro"),
ma il giudice per le indagini preliminari respinge la richiesta per
Mamone (non per Sofio). Il motivo è semplice: mentre l'amico
calabrese è sospettato di trafficare in materiali pericolosi, su
Mamone i carabinieri hanno fatto un po' di confusione. E alla fine
il problema non è quello che spedisce ad Alessandria, ma quanto. Nel
senso che, pur sapendo dall'interlocutore che il suo deposito è
ben più che a tappo, gli chiede di "ospitare" lo stesso le
scorie perché non sa dove mettersele, tanto vanno a gonfie vele gli
affari: un peccato veniale rispetto all'addebito di traffico
illecito (archiviato in fretta e furia e pure qualche scusa da parte
degli inquirenti), che gli costerebbe comunque un processo o una
multa ma il reato s'è prescritto alla fine dello scorso dicembre,
e non se ne farà nulla.
Nel frattempo Mamone, assistito dal suo
avvocato "storico" Andrea Campanile - uno dei più autorevoli
penalisti genovesi, che a sua volta è legale di fiducia della
famiglia Garrone - aveva chiesto e ottenuto le telecamere del Tg3:
«Mi vogliono rovinare per quattro camion di terra che ho mandato ad
Alessandria».
Archiviato l'intoppo (frutto, è
giusto ribadirlo, soprattutto del gran caos fatto dagli
investigatori) a Genova il nome della Eco.Ge è ormai abbinato a
qualunque demolizione o bonifica: «Faccio affari soprattutto con i
privati», insiste da sempre l'amministratore unico. Industriali e
capitani d'azienda come la famiglia Profumo (raffineria Iplom di
Busalla) oppure "privati" un po' particolari: Rete ferroviaria
italiana o CoopSette o la mista Sviluppo Genova. Nessuno si lamenta
della qualità del lavoro, anzi. «Quando arriva Mamone - racconta
oggi un funzionario proprio di "Sviluppo", la società che
gestiva gli appalti per smantellare l'ex acciaieria finiti
nell'occhio del ciclone - sembra che si presenti un esercito: i
lavoratori perfetti, disciplinati. Le divise tutte uguali, gli
elmetti, i mezzi nuovi e tirati a lucido. Nessuno che sgarra».
Lui vive di lavoro, a calpestare ghiaia
pure in giacca e cravatta. Il problema è che quando respira un po'
sul fronte investigativo, ci pensano i familiari a dargli grattacapi:
il cognato Silvio Criscino, ex gioielliere, arrestato nel 2006 dai
carabinieri del Ros che indagavano su un agghiacciante giro di usura
ed estorsioni a imprenditori. E poi il fratello Vincenzo, invischiato
nel 2003 in un fascicolo savonese per bancarotta e riciclaggio
insieme all'ex moglie Tiziana Ostertag.
Anche qui, una storia da film. E la
bellissima Tiziana (che si faceva ritrarre in interviste telematiche
con abiti succinti e il libro "Mani pulite" fra le dita) a un
certo punto decide di fare il grande salto. Rivela scenari
inquietanti legati alla famiglia Mamone - Gino compreso - accostando
esponenti della politica (rigorosamente bipartisan), famiglie legate
alla ‘ndrangheta, società, aziende e banche genovesi, italiane e
straniere. La Direzione distrettuale antimafia, per un certo periodo,
la mantiene «protetta», ma il temperamento un po' troppo
esuberante e scostante alla fine ne ridimensionano la credibilità, e
la Dda (almeno ufficialmente) archivia.
Negli ultimi due anni, però, cadono le
due tegole che più fanno infuriare Gino. Prima la Dia, la direzione
investigativa antimafia, accosta in una generica relazione il cognome
al clan calabrese dei Mammoliti: «Mamone in Italia ce ne sono
tantissimi, cosa c'entro io?». Poi la Finanza, dodici mesi fa,
circoscrive ribadendo che «Gino Mamone è stato segnalato per i suoi
legami con la cosca della 'ndrangheta calabrese dei Mammoliti... E
dalle telefonate emergono inequivocabilmente i rapporti con Vincenzo
Stefanelli, detto Cecé, esponente della criminalità organizzata di
stampo mafioso, titolare di un'impresa edile». Poche righe, e non
è che le Fiamme Gialle abbiano mai spiegato meglio nei loro dossier
che cosa, davvero, darebbe "sostanza" al sospetto più grave.
Tuttavia la macchia brucia e Gino sbotta (primavera 2008): «Non
siamo né mafiosi né delinquenti. Sennò come faremmo a lavorare
indisturbati da 45 anni? Sarei più bravo di Totò Riina... Forse il
nostro peccato è quello di essere calabresi. Sì, sono di Cittanova
e ne sono orgoglioso». Come lo è quando la Caterpillar - un nome
che a evocarlo fa pensare a cose enormi - costruisce per lui, e solo
per lui, un escavatore record con un braccio lungo 48 metri e un nome
da robot, «385C Demolition». All'inaugurazione, con annesso
rinfresco e strette di mano a esponenti del centrosinistra locale,
gli attivisti della "Casa della Legalità" (la onlus che da anni
ne radiografa vita e miracoli) scattano foto e lo fanno imbestialire.
Poi però continua a coltivare
amicizie, fare miliardi e rastrellare subappalti, finché - roba dei
giorni scorsi - il pm Francesco Pinto non gli appioppa un avviso di
garanzia per associazione a delinquere, accusandolo d'aver
monopolizzato le bonifiche d'accordo con altri giganti come lui,
oltre ad aver creato dei fondi neri «forse per corrompere funzionari
pubblici». Un macigno.
La replica, e il nervosismo, sono i
soliti: «Ho le certificazioni antimafia, i miei lavoratori mi amano
(un anno fa per difenderlo organizzarono persino un sit-in) e siamo
altamente professionali, fra i migliori del Paese. Perciò vinciamo».
Lavoro e dipendenti (ben pagati) lievitati insieme ai sospetti. Qual
è la verità?